CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 5599 depositata il 23 febbraio 2023

Lavoro – Licenziamento per giusta causa – Contestazione disciplinare – Discredito del nome commerciale della società – Tutela reintegratoria attenuata – Difetto di tipizzazione della condotta sanzionata – Episodio avente carattere extra lavorativo – Selezione della tutela applicabile tra quelle previste dall’art. 18, commi 4 e 5, della Legge n. 300/1970 – Rigetto

Rilevato che

1. D.F. impugnava il licenziamento per giusta causa intimatogli il 13.12.2011 dalla datrice di lavoro F.G.A. s.p.a. sulla base di contestazione disciplinare che addebitava al dipendente di essere stato sorpreso dai carabinieri, durante la pausa di lavoro, in possesso di 25 grammi di hashish al fine di spaccio custoditi nella tuta di lavoro, mentre stava rientrando in azienda, tanto che era stato arrestato con grave discredito del nome commerciale della società per l’eco avuto dalla notizia anche in ambiente extra-lavorativo, come era emerso dall’articolo del 19.2.2014 sul quotidiano locale “L’inchiesta”, intitolato «Operaio F. con “fumo” nella tuta da lavoro, libero, obbligo di firma»; il giudice dell’opposizione dichiarava risolto il rapporto e condannava la società a pagare al dipendente un’indennità risarcitoria pari a 20 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto;

2. proposti autonomi reclami ex art. 1 c. 58 l. n. 92/2012, sia dalla società che dal dipendente, la Corte di appello di Roma confermava la gravata sentenza compensando le spese di lite;

3. la sentenza era impugnata con ricorso per cassazione da entrambe le parti e la Corte di cassazione, con sentenza n. 21679/2018, in accoglimento del primo motivo di ricorso principale proposto dal lavoratore, rigettato il ricorso incidentale e dichiarati assorbiti gli altri motivi di ricorso principale, ha cassato la sentenza in relazione al motivo accolto rinviando alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione;

4. la Corte del rinvio, ha annullato il licenziamento condannando F.I. s.p.a. (già F.G.A. s.p.a) alla reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro ed al pagamento di un’indennità risarcitoria pari a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto.

4. per la cassazione della decisione ha proposto ricorso F.I. s.p.a. sulla base di un unico articolato motivo; la parte intimata ha resistito con controricorso;

5. entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis .1. cod. proc.civ.;

Considerato che

1. con l’unico motivo di ricorso parte ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 18, commi 4 e 5 della Legge n. 300/1970, censurando la sentenza impugnata per avere applicato la tutela reintegratoria attenuata. Premesso che alla stregua della complessiva disciplina dettata dall’art. 18 st. lav. Nel testo novellato dalla legge n. 92/2012 la tutela indennitaria cd. forte doveva considerarsi regola generale mentre la tutela reintegratoria si configurava di carattere eccezionale in quanto confinata alle ipotesi della insussistenza del fatto contestato e della condotta inadempiente punita con sanzione conservativa dal contratto collettivo, e premesso che la tutela reintegratoria contemplata dal quarto comma dell’art. 18 cit. presuppone ai fini della sua operatività l’evidente abuso consapevole del potere disciplinare da parte del datore di lavoro, abuso implicante una sicura e chiaramente intellegibile conoscenza preventiva della illegittimità del provvedimento espulsivo, deduce l’errore del giudice del rinvio per avere applicato la tutela reale avendo ricondotto il fatto contestato ad ipotesi punita con sanzione espulsiva da previsione collettiva che non conteneva una puntuale tipizzazione dell’illecito; secondo il ricorrente, a fronte del difetto di tipizzazione della condotta sanzionata non era dato all’interprete, al fine della individuazione della tutela applicabile, utilizzare l’interpretazione analogica o anche solo quella estensiva; il motivo è illustrato dalla memoria di parte ricorrente che si confronta con l’evoluzione giurisprudenziale dell’orientamento di legittimità, attestata in particolare da Cass. n. 11655/2022, e da Cass. n. 20780/2022, sostenendo che alla luce del recente approdo del giudice di legittimità, la possibilità di sussunzione di un’ipotesi non tipizzata nella previsione collettiva sarebbe possibile solo ove questa dovesse prevedere un’elencazione esemplificativa e non tassativa delle fattispecie di inadempimenti cui è ricollegata la sanzione conservativa;

2. il motivo è infondato;

2.1. la sentenza rescindente ha accolto il primo motivo di ricorso principale, con il quale il lavoratore aveva lamentato: 1), ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 111 Cost e dell’art. 132 n. 4 cod. proc.civ.; 2) ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. , il difetto di motivazione per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti; 3) ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 18 commi 4 e 5 della legge n. 300/1970;

2.2. per quel che ancora rileva, la sentenza rescindente ha ritenuto non corretta l’affermazione del giudice di seconde cure secondo il quale il fatto addebitato non era sussumibile nella previsione dell’art. 32 del CCNL di settore (che prevede una sanzione conservativa per il lavoratore che commetta “qualsiasi mancanza che porti pregiudizio alla disciplina, alla morale, all’igiene e alla sicurezza dello stabilimento”), in quanto ad essere coinvolta dal comportamento del F. non era lo stabilimento ma l’intera azienda, e la ulteriore affermazione circa l’oggettivo discredito prodotto a danno della società per essere stato il lavoratore arrestato con la tuta portante il marchio F., con sostanza custodita nella tasca della tuta stessa, durante la pausa pranzo e nel mentre ritornava in azienda. << Invero, premesso che per stabilimento deve intendersi l’edificio all’interno del quale si svolge l’attività lavorativa espletata dal dipendente mentre per azienda deve considerarsi, in termini più generali, tutto l’insieme delle attività finalizzate alla produzione dei beni materiali, quali gli impianti, gli uffici, la logistica (etc.), la ricostruzione adottata dalla Corte di merito risulta carente ed insussistente, sotto il profilo motivazionale, sia in ordine al presupposto da cui parte, circa la “possibile condivisione del fumo con altri colleghi”, ben potendo la detenzione, nel caso in esame, per il quantitativo della sostanza, essere finalizzata esclusivamente ad un consumo personale magari da attuarsi fuori l’ambiente lavorativo e fuori l’orario di lavoro, sia per l’asserito coinvolgimento di tutta l’azienda in un cd. Fenomeno di consumo di gruppo e non del solo stabilimento cui era addetto il F., non risultando ciò avvalorato da alcun elemento di fatto.

15. Quanto, poi, all’asserito discredito prodotto a danno della società, va rilevato che anche su questo punto manca un accertamento concreto in relazione a tale requisito (cfr. Cass. n. 20545/2015), perché con la diffusione meramente locale del quotidiano che aveva riportato la notizia, non risultava dimostrata alcuna lesione degli interessi di parte datoriale nella loro oggettività in considerazione di un episodio avente comunque carattere extra lavorativo» (Cass. n. 21679/2018);

2.3. la Corte di rinvio, in conformità del mandato ricevuto, ha proceduto alla rivalutazione in fatto delle emergenze istruttorie evidenziando che parte datoriale, sulla quale ricadeva il relativo onere, non aveva dato alcuna prova che, come contestato, la detenzione fosse finalizzata allo spaccio , che vi fosse stato «superamento dell’offensività della condotta dal limitato stabilimento ad un fenomeno di consumo di gruppo, coinvolgente l’intera azienda»; secondo il giudice del rinvio, inoltre, neppure era stato provato l’asserito discredito prodotto a danno della società; tanto escludeva la corrispondenza della condotta effettivamente tenuta e delle relative conseguenze a quella oggetto di contestazione per il venir meno nell’accertamento del giudice del rinvio, di quegli elementi obiettivamente destinati a connotare in termini di maggiore gravità il fatto contestato; così ricostruita la concreta fattispecie il giudice del rinvio ha ritenuto la stessa riconducibile all’ipotesi sanzionata dall’art. 32 c.c.n.l., con misura conservativa;

2.4. ciò posto la sentenza impugnata si sottrae alle censure articolate con il ricorso per cassazione di F.I. s.p.a.; opina il Collegio, infatti, che l’applicabilità della tutela reale non trovi ostacolo nella modalità di formulazione della disposizione collettiva prevedente, come nello specifico, la sanzione conservativa in relazione ad uno spettro indefinito di possibili comportamenti, connotati dalla trasgressione all’osservanza «del presente contratto» o dalla commissione di qualsiasi mancanza «che porti pregiudizio alla morale, all’igiene ed alla sicurezza dello stabilimento»; neppure tale tutela risulta preclusa dall’utilizzo di clausole generali richiedenti l’attività di integrazione dell’interprete;

2.5. ritiene, infatti, il Collegio di dover dare continuità alla approdo al quale è pervenuta la giurisprudenza di legittimità ( v. in particolare Cass. n. 11665/2022) che si richiama anche ai sensi dell’art. 118 disp. att. cod. proc. civ., secondo il quale in tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dall’art. 18, commi 4 e 5, della l. n. 300 del 1970, come novellato dalla l. n. 92 del 2012, il giudice può sussumere la condotta addebitata al lavoratore, e in concreto accertata giudizialmente, nella previsione contrattuale che, con clausola generale ed elastica, punisca l’illecito con sanzione conservativa, né detta operazione di interpretazione e sussunzione trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, restando nei limiti dell’attuazione del principio di proporzionalità, come eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo;

3. in base alle considerazioni che precedono il ricorso deve essere respinto, con regolamento delle spese di lite secondo soccombenza;

4. sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo  unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del comma 1 bis dell’ art.13 d. P.R. n. 115/2002;

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in € 5.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.