CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 6336 depositata il 2 marzo 2023
Licenziamento – Superamento del periodo di comporto – Violazione del requisito di motivazione del licenziamento – Indennità risarcitoria – Rigetto
Rilevato che
1. la Corte d’Appello di Roma, pronunciandosi con sentenza n. 2490/2019 in sede di rinvio da questa Corte con sentenza n. 21042/2018, definitivamente pronunciando nei limiti del devoluto, ha dichiarato risolto il rapporto di lavoro tra P.I. S.p.A. e D.R.S. con effetto dalla data del licenziamento (2/9/2014), ha condannato la società a corrispondere alla lavoratrice un’indennità risarcitoria pari a € 16.300,48 (corrispondenti a 8 mensilità di retribuzione globale di fatto), oltre accessori, ha rigettato ogni altra domanda della lavoratrice ricorrente in riassunzione;
2. la Corte distrettuale, in particolare, per quanto ancora in questa sede rileva, in osservanza della statuizione dell’ordinanza rescindente, ha dichiarato inefficace il recesso per violazione del requisito della motivazione di cui all’art. 2, comma 2, legge n. 604/1966; ha applicato la tutela di cui al sesto comma dell’art. 18 della legge n. 300/1970, escludendo l’applicabilità della tutela reintegratoria; ai fini della determinazione dell’indennità risarcitoria, ha ritenuto di gravità medio-bassa la violazione commessa dalla società datore di lavoro (posto che la comunicazione del licenziamento, per superamento del periodo di comporto, riportava l’indicazione del termine finale e del numero minimo complessivo – oltre 365 – dei giorni di assenza) e determinato nella misura di 8 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto l’indennità risarcitoria riconosciuta alla lavoratrice
3. avverso tale sentenza S.D.R. propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi, cui resiste con controricorso P.I.;
Considerato che
1. con il primo motivo di ricorso, viene dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 32 Cost., 1418 e 2110 c.c., 18, settimo comma, legge n. 300/1970, 384 c.p.c., nella parte in cui la sentenza impugnata, pur avendo riscontrato l’invalidità del licenziamento per superamento del periodo di comporto, ha ritenuto di applicare sulla base del decisum della Corte di Cassazione la tutela meramente indennitaria prevista per le violazioni formali; sostiene che la speciale previsione del settimo comma dell’art. 18 cit., che prevede la reintegra nel posto di lavoro in caso di licenziamento intimato in violazione dell’art. 2110, secondo comma, c.c., non distingue tra vizi formali e sostanziali ed è speciale rispetto alla norma di cui al comma precedente;
2. con il secondo motivo, subordinato, si deduce violazione e falsa applicazione dell’art 18, sesto comma, della legge n. 300/1970, nella parte in cui la Corte di appello ha limitato a 8 mensilità l’indennizzo,
misura ritenuta irragionevolmente modesta alla luce dei caratteri di effettività e adeguatezza, radicati nell’art. 23 della Carta Sociale Europea, e prospetta questione di legittimità costituzionale con riferimento agli artt. 3, 4, 10, 24, 32, 35, 117 Cost.;
3. il primo motivo non è fondato;
4. l’ordinanza rescindente ha espresso il principio secondo cui, in tema di licenziamento per superamento del comporto, non assimilabile a quello disciplinare, il datore di lavoro non deve specificare i singoli giorni di assenza, potendosi ritenere sufficienti indicazioni più complessive; tuttavia, anche sulla base del novellato art. 2 della legge n. 604 del 1966, che impone la comunicazione contestuale dei motivi, la motivazione deve essere idonea ad evidenziare il superamento del comporto in relazione alla disciplina contrattuale applicabile, dando atto del numero totale di assenze verificatesi in un determinato periodo, fermo restando l’onere, nell’eventuale sede giudiziaria, di allegare e provare, compiutamente, i fatti costitutivi del potere esercitato; la sentenza di merito è stata perciò cassata perché ritenuta priva di sufficiente specificazione la mera indicazione del termine finale di maturazione del comporto;.
5. è stata, dunque, accertata una violazione del requisito di motivazione del licenziamento, che ne determina l’inefficacia ex art. 2, comma 2, della legge n. 604/1966; la sentenza impugnata si è pienamente conformata a quanto stabilito dalla pronuncia rescindente, sanzionando, secondo la legge (art. 18, comma sesto, cit.) la violazione del dovere di comunicazione accertata a monte e non riscontrando, invece, a valle, la violazione dell’art. 2110 c.c., per essere stato in concreto il periodo di comporto accertato come superato nel corso del rapporto di lavoro tra le parti;
6. il secondo motivo non è ammissibile, perché collegato ad una valutazione di fatto esterna al perimetro del giudizio di legittimità, motivata razionalmente con riguardo ai limiti minimi e massimi fissati dalla legge;
7. la prospettazione di legittimità costituzionale non è accoglibile; la Corte costituzionale ha infatti evidenziato (cfr. sentenza n. 194/2018), in materia di tutela del lavoratore nel caso di licenziamento illegittimo, la discrezionalità del legislatore in materia, sottolineando che già la sentenza n. 194 del 1970, dopo avere affermato che i principi cui si ispira l’art. 4 della Costituzione «esprimono l’esigenza di un contenimento della libertà del recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro, e quindi dell’ampliamento della tutela del lavoratore, quanto alla conservazione del posto di lavoro», precisò che «[l]’attuazione di questi principi resta tuttavia affidata alla discrezionalità del legislatore ordinario, quanto alla scelta dei tempi e dei modi, in rapporto ovviamente alla situazione economica generale»; ed ha espressamente negato che il bilanciamento dei valori sottesi agli artt. 4 e 41 Cost., terreno su cui non può non esercitarsi la discrezionalità del legislatore, imponga un determinato regime di tutela (sentenza n. 46 del 2000, punto 5. del Considerato in diritto), nel senso che il legislatore ben può, nell’esercizio della sua discrezionalità, prevedere un meccanismo di tutela anche solo risarcitorio-monetario (sentenza n. 303 del 2011), purché un tale meccanismo si articoli nel rispetto del principio di ragionevolezza;
8. né a diverse conclusioni è possibile allo stato pervenire sulla base della pronuncia, indicata da parte ricorrente, del Comitato europeo per i diritti sociali (ECSR), pronuncia che effettivamente valuta in termini problematici in relazione all’art. 24 della Carta Sociale Europea la questione del tetto al risarcimento del danno da licenziamento, ma che, tenuto conto della giurisprudenza della Corte costituzionale ora riferita, della natura non strettamente giurisdizionale delle decisioni dell’ECSR, del fatto che si tratta di pronuncia collegata ad un sistema (finlandese) diverso ed ivi analizzato in via sistematica e non limitata ad un singolo aspetto, non risulta utile per pervenire ad una valutazione di contrasto con la legge nazionale vigente della decisione impugnata in questa sede;
9. il ricorso deve pertanto essere respinto, con regolazione delle spese del grado, liquidate come da dispositivo, secondo il regime della soccombenza, e raddoppio del contributo ove dovuto, sussistendo i relativi presupposti processuali;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio, che liquida in € 4.000 per compensi, € 200 per esborsi, spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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