CORTE DI CASSAZIONE – Sentanza 11 marzo 2022, n. 8053
Autotrasportatore – Mancato possesso del certificato professionale “ADR” – Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Invalidità – Accertamento – Presupposti di applicazione della tutela reale o obbligatoria – Onere probatorio
Fatti di causa
1. M. A. ha agito in giudizio nei confronti della sua datrice di lavoro E.M. Società Cooperativa (d’ora in avanti, E.) e della S.G.T. s.r.l., che aveva concesso in appalto alla prima i servizi di trasporto, per far dichiarare l’illegittimità del licenziamento, intimato il 25.11.2011, per giustificato motivo oggettivo derivante dal mancato possesso, da parte del lavoratore, di nazionalità macedone e operante come autotrasportatore, del certificato professionale “ADR”, necessario per la guida di veicoli adibiti al trasporto di merci pericolose.
2. Il Tribunale di Lodi, per quanto ancora interessa, ha respinto l’impugnativa del licenziamento rilevando come il lavoratore non avesse neppure invocato l’ambito di tutela conseguente al recesso intimato e neanche dimostrato di possedere un titolo professionale idoneo all’esecuzione del tipo di trasporti eseguiti dalla datrice di lavoro.
3. La Corte d’appello di Milano, adita dal lavoratore, in riforma della pronuncia di primo grado, ha dichiarato illegittimo il licenziamento e condannato la datrice di lavoro a riassumere il dipendente o a risarcirgli il danno liquidato in misura pari a quattro mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre accessori di legge. Ha compensato per metà le spese del grado tra il lavoratore e la datrice di lavoro e condannato quest’ultima alla rifusione della residua metà, compensando interamente le spese nei confronti della S.G.T. s.r.l.
4. La Corte territoriale, acquisite d’ufficio informazioni dalla Motorizzazione Civile di Milano, espresse nel senso della piena validità sul territorio dello Stato Italiano della certificazione conseguita dal lavoratore nella Repubblica di Macedonia, Stato che aveva aderito all’Accordo europeo per il trasporto di merci pericolose su strada, ha annullato il licenziamento in ragione della idoneità della patente di guida in possesso del lavoratore ai fini dell’esecuzione di trasporti ADR, svolti in maniera pressoché esclusiva dalla E..
5. Quanto alle conseguenze della accertata illegittimità del recesso, la sentenza d’appello ha rilevato che il ricorrente in primo grado non avesse “minimamente prospettato il campo della tutela – se reale o obbligatoria – applicabile alla fattispecie”; ha richiamato l’orientamento di legittimità secondo cui “la reintegrazione nel posto di lavoro, anche se non è chiesta, è misura che consegue automaticamente alla domanda di contestazione del licenziamento” ed i precedenti di questa Corte che, a fronte di una generica domanda di risarcimento del danno ai sensi dell’art. 18, secondo comma, l. n. 300 del 1970 (nel testo vigente primo dell’entrata in vigore della l. n. 108 del 1990), priva di esplicita richiesta di liquidazione per un’entità superiore al minimo, hanno ritenuto che il giudice dovesse limitarsi a riconoscere l’importo minimo di cinque mensilità; ha affermato che “sarebbe bastata la richiesta della reintegrazione (anche mediante un semplice cenno all’art. 18) oppure quella di un risarcimento del danno corrispondente a tutte le mensilità accreditate dalla data del recesso, per poter esattamente identificare il campo di tutela postulato dalla parte”; ha ritenuto che “quanto dedotto dalla parte non consentiva e non consente l’emissione della pronuncia invocata poiché solo nella fase di appello […] compaiono, per la prima volta, in maniera inammissibile, argomentazioni e richieste sul punto”; ha quindi applicato la tutela obbligatoria, di cui all’art. 8, l. n. 604 del 1966.
6. Avverso tale sentenza M. A. ha proposto ricorso per cassazione formulando sette motivi. La E.M. Società Cooperativa ha resistito con controricorso e ricorso incidentale, affidato a tre motivi. Il ricorrente principale ha depositato controricorso al ricorso incidentale.
7. Il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte, ai sensi dell’art. 23, comma 8 bis, d.l. n. 137 del 2020, inserito dalla legge di conversione n. 176 del 2020, chiedendo il rigetto del ricorso principale e di quello incidentale. M. A. ha depositato memoria, ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ. Ragioni della decisione Ricorso principale di M. A..
8. Con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 8, l. n. 604 del 1966 e dell’art. 18, l. n. 300 del 1070 con riferimento al diritto del ricorrente alla reintegrazione nel posto di lavoro quale conseguenza dell’accertamento di illegittimità del licenziamento.
9. Il ricorrente principale ha premesso di avere, nel ricorso introduttivo di primo grado, rassegnato le seguenti conclusioni: “In punto di illegittimità del licenziamento: accertata e dichiarata l’insussistenza del giustificato motivo oggettivo e/o comunque la violazione dell’obbligo di repechage, ed infine la vessatorietà e discriminazione alla base del recesso, dichiarare la nullità e/o l’illegittimità del licenziamento intimato al ricorrente in data 25.11.11 e condannare la società E.M. soc. coop. al conseguente risarcimento del danno”.
10. Di avere formulato specifici motivi di appello denunciando la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., degli artt. 8, l. n. 604 del 1966 cit. e 18, l. n. 300 del 1970 cit. con riferimento al diritto del ricorrente alla reintegrazione nel posto di lavoro quale effetto dell’accertata illegittimità del licenziamento e di avere nelle conclusioni chiesto la condanna della società datoriale alla reintegra e al risarcimento del danno, secondo la disciplina dell’art. 18 cit.
11. Ha censurato la decisione di appello rilevando, anche attraverso il richiamo a precedenti pronunce di legittimità, che in base all’art. 18 cit., nel testo anteriore alle modifiche apportate della l. n. 92 del 2012, la tutela spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, indipendentemente da una richiesta, è quella reale. L’art. 18 cit. prevede, quale conseguenza automatica dell’annullamento del licenziamento, la reintegrazione del lavoratore, salvo che il datore non eccepisca e dimostri l’assenza del necessario requisito dimensionale. Il lavoratore è titolare di un diritto soggettivo alla reintegra (a cui può rinunciare avvalendosi del diritto all’opzione per l’indennità sostitutiva), ed è sufficiente, sul piano processuale, allegare l’esistenza del rapporto di lavoro e l’illegittimità del licenziamento, costituendo la tutela obbligatoria fatto impeditivo della reintegra, opponibile in via di eccezione dal datore di lavoro. La sentenza impugnata è viziata per avere erroneamente interpretato l’art. 18 cit., ritenendo che la reintegra possa essere applicata solo quando il lavoratore abbia formulato una espressa domanda in tal senso, o vi abbia “fatto almeno cenno”, oppure abbia domandato un risarcimento del danno corrispondente a tutte le mensilità maturate dalla data del recesso. È inoltre viziata per aver falsamente applicato la tutela obbligatoria in una fattispecie in cui era pacifica ed incontestata, da parte datoriale, l’esistenza del requisito dimensionale richiesto dall’art. 18 cit.
12. Con il secondo motivo è denunciata, ai sensi dell’art. 360, comma 1, nn. 3 e 4 cod. proc. civ., violazione dell’art. 18 St. Lav. e dell’art. 112 cod. proc. civ., per non avere la sentenza d’appello considerato la domanda di reintegra implicita nel petitum di illegittimità e annullamento del licenziamento, di cui costituisce l’effetto legale tipico, e di risarcimento dei danni da licenziamento illegittimo e per non essersi pronunciata su tale domanda, ritenuta inesistente o tardivamente formulata solo in appello.
13. Con il terzo motivo è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, nn. 4 e 5 cod. proc. civ., violazione dell’art. 111 Cost. e dell’art. 132, comma 2, n. 4 cod. proc. civ.; motivazione illogica, perplessa e contraddittoria, nonché omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio.
14. Si critica la sentenza d’appello perché contiene plurime statuizioni logicamente inconciliabili, avendo, da un lato, affermato che “la reintegra nel posto di lavoro, anche se non è chiesta, è misura che consegue automaticamente alla domanda di contestazione del licenziamento” ed è “tipica conseguenza legale ai sensi dell’art. 18 SL”, e, dall’altro, negato la reintegra sostenendo la necessità di una specifica richiesta “anche mediante un semplice cenno all’art. 18”; sotto altro profilo, per avere la Corte di merito affermato che “sarebbe stato onere dell’azienda difendersi eccependo e dimostrando l’insufficienza del proprio organico, facendo così declinare la fattispecie nell’ambito della tutela obbligatoria” e poi nel dispositivo, pur in presenza del dato pacifico della mancata prova dell’insufficienza dell’organico aziendale, applicato la tutela di cui all’art. 8 cit., senza che sia possibile comprendere l’iter logico di tale approdo. Con la conseguenza che la motivazione risulta incomprensibile e perplessa.
15. Con il quarto motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., la violazione dell’art. 18 St. Lav. relativamente alla determinazione del danno risarcibile, nonché motivazione apparente e perplessa, in relazione all’art. 360 cit. n. 4.
16. Si censura la sentenza per non aver considerato che la quantificazione del danno, nell’art. 18 cit., è stabilita ope legis, in misura pari alla “retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegra” e che la Corte di merito ha richiamato a sostegno della propria decisione precedenti di legittimità non pertinenti, in quanto riferiti ad una disciplina in materia di licenziamento dettata dell’art. 18 St. Lav., nel testo anteriore alle modifiche introdotte dalla legge n. 108 del 1990, e quindi diversa da quella applicabile alla fattispecie in esame. La motivazione adottata dai giudici di appello risulterebbe inoltre apparente e perplessa là dove ha escluso il diritto al risarcimento del danno come previsto dall’art. 18 cit., comma 4, senza esplicitare il presupposto normativo della decisione.
17. Con il quinto motivo è denunciata, ai sensi dell’art. 360, comma 1, nn. 3 e 4 cod. proc. civ., violazione dell’art. 18 St. Lav. e dell’art. 112 cod. proc., per avere la sentenza d’appello ritenuto che, anche in ipotesi di tutela reale, il ricorrente non avrebbe potuto ottenere più della misura minima del risarcimento stabilita dall’art. 18 cit., comma 5, senza considerare che la domanda di accertamento dell’illegittimità del licenziamento conteneva in sé la domanda di condanna al risarcimento parametrato alla retribuzione spettante dalla data del recesso fino all’effettiva reintegra, e per aver omesso la pronuncia su tale domanda formulata dal lavoratore, anche se implicitamente.
18. Con il sesto motivo si censura la decisione d’appello per omessa quantificazione della retribuzione globale di fatto e per violazione dell’art. 112 cod. proc., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 cod. proc. civ., per avere pronunciato una condanna generica al pagamento di quattro mensilità sebbene il lavoratore avesse, nel ricorso in appello, allegato un conteggio della retribuzione globale di fatto, non contestato dalla società datrice di lavoro, ed avesse prodotto le buste paga sulla cui base era possibile procedere al relativo calcolo.
19. Con il settimo motivo di ricorso si addebita alla decisione impugnata, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 cod. proc. civ., l’omessa pronuncia, in violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., sulle spese di lite del giudizio di primo grado. Difatti, a fronte della domanda del ricorrente di condanna della società datoriale al pagamento delle spese dei due gradi di giudizio, la Corte di merito si è pronunciata solo sulle spese del secondo grado. Ricorso incidentale di E. M. società cooperativa
20. Con il primo motivo è dedotta violazione o falsa applicazione degli artt. 414 e 437 cod. proc. civ., anche alla luce della nuova formulazione dell’art. 343 (rectius, 345) cod. proc. civ., per avere la Corte di merito fondato la decisione su un atto di integrazione istruttoria (richiesta di informazioni alla Motorizzazione Civile di Milano), disposta d’ufficio, in base a documenti e allegazioni difensive inammissibili perché introdotti dal lavoratore solo nel giudizio di appello, nonché per mancata ammissione di una prova decisiva sollecitata dalla società appellata (richiesta di informazioni al Ministero dei Trasporti).
21. Con il secondo motivo è denunciata, ai sensi dell’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5 cod. proc. civ., violazione dell’art. 135, commi 1 e 3, Codice della Strada, violazione o falsa applicazione della normativa sul trasporto ADR – Accordo Ginevra 1957 recepito in Italia dal D.M. 4.9.1996 e successive modificazioni, all. B, capitolo 8, punto 2, par. 8.2.1.1., 8.2.1.2. e 8.2.1.3., per avere la Corte d’appello ritenuto consentita la circolazione stradale a cittadino straniero, con patente straniera ma residente in Italia da oltre un anno; inoltre, omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, per non avere la sentenza impugnata tenuto conto del requisito della residenza in Italia da più di un anno, da parte del lavoratore, ai fini della validità della patente macedone per la circolazione in Italia, nonché per mancato interpello sul punto del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, anche a causa del contrasto insorto tra i pareri rilasciati dai diversi uffici della Motorizzazione Civile.
22. Con il terzo motivo si deduce la erronea condanna della società al pagamento delle spese di lite del secondo grado di giudizio, quale conseguenza dell’accoglimento di uno o più dei motivi di ricorso incidentale.
23. Si esamina il ricorso incidentale, avente carattere logicamente prioritario.
24. Il primo motivo non può trovare accoglimento.
25. Deve anzitutto rilevarsi come il motivo in esame non specifichi in modo chiaro quale documento sia stato tardivamente prodotto dal lavoratore in appello e ammesso dalla Corte territoriale e quali allegazioni siano state tardivamente formulate. La sentenza d’appello (pag. 5) dà atto che le due società appellate “hanno contestato […] la produzione, per la prima volta nella fase di appello, di una (non idonea) attestazione successivamente conseguita in Italia”. Il ricorso incidentale della E. (pag. 13, punto 6) fa riferimento ad una “produzione documentale di parte ricorrente neppure depositata con il ricorso ma solo nella fase della discussione in appello, del tutto inammissibile per tardività parere della Motorizzazione di Genova”. Dati ancora diversi si ricavano dal controricorso (pagg. 3-4) nell’interesse del lavoratore avverso il ricorso incidentale, in cui si dà atto che “il ricorrente in grado di appello si è limitato a produrre un atto normativo costituito dall’Accordo ADR del 1957 ed i relativi allegati […] ed altresì una attestazione del Ministero dei Trasporti Macedone attestante la conformità del documento prodotto dal ricorrente all’accordo ADR”.
26. L’incertezza sui documenti che si assume tardivamente depositati rende la censura inammissibile, dovendosi, comunque, ribadire l’orientamento consolidato secondo cui, nel rito del lavoro, stante l’esigenza di contemperare il principio dispositivo con quello della ricerca della verità materiale, il giudice, anche in grado di appello, ai sensi dell’art. 437 cod. proc. civ., ove reputi insufficienti le prove già acquisite e le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, può ammettere, anche d’ufficio, le prove indispensabili ai fini della decisione della causa, purché con riferimento ai fatti allegati dalle parti ed emersi nel processo a seguito del contraddittorio delle stesse (v. Cass. n. 7694 del 2019; n. 11845 del 2018; n. 20055 del 2016; n. 12856 del 2010). Il giudice d’appello può acquisire e valutare i documenti esibiti nel corso del giudizio dall’appellato, sia pure non in contestualità con il deposito della memoria di costituzione, allorquando tali documenti siano indispensabili, perché idonei a decidere in maniera definitiva la questione controversa tra le parti (v. Cass. n. 33393 del 2019; n. 11994 del 2018).
27. Si è ulteriormente precisato che nel rito del lavoro, ai sensi di quanto disposto dagli artt. 421 e 437 cod. proc. civ., l’uso dei poteri istruttori da parte del giudice non ha carattere discrezionale, ma costituisce un potere-dovere del cui esercizio o mancato esercizio il giudice è tenuto a dar conto (v. Cass. n. 14731 del 2006; n. 6023 del 2009; n. 25374 del 2017).
28. Non ha rilievo la nuova formulazione dell’art. 345 cod. proc. civ., invocata dalla ricorrente incidentale, trovando applicazione nelle controversie di lavoro l’art. 437 cit. il cui contenuto è sovrapponibile, e addirittura più ampio, rispetto al testo dell’art. 345 cit. vigente prima delle modifiche apportate dal d.l. n. 83 del 2012, conv. in l. n. 134 del 2012. Proprio rispetto al previgente art. 345 cit., le Sezioni Unite di questa Corte hanno precisato che “nel giudizio di appello, costituisce prova nuova indispensabile, ai sensi dell’art. 345, comma 3, c.p.c., nel testo previgente rispetto alla novella di cui al d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, quella di per sé idonea ad eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio oppure provando quel che era rimasto indimostrato o non sufficientemente provato, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie del primo grado”. Nella sentenza appena citata si è precisato come l’art. 437 c.p.c. faccia riferimento a prove non solo indispensabili, ma anche “nuove”, quindi non dedotte in primo grado, sebbene debbano essere stati allegati in primo grado i fatti costitutivi, estintivi o impeditivi oggetto di prova.
29. Le restanti censure oggetto del motivo in esame sono parimenti inammissibili, in quanto volte a criticare l’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio (richiesta di informazioni alla Motorizzazione Civile di Milano) e la mancata ammissione di una prova dedotta dalla parte (richiesta di informazioni al Ministero dei Trasporti), che rientrano nel potere discrezionale del giudice del merito e il cui esercizio si sottrae al sindacato di legittimità, anche quando difetti un’espressa motivazione al riguardo, dovendo ritenersi implicita nell’ammissione o non ammissione del mezzo istruttorio la valutazione della sua rilevanza o irrilevanza, fatta salva, ai fini della censura dinanzi a questa Corte, la ricorrenza dei requisiti di cui all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., nella specie non dedotti e non ricorrenti.
30. Neppure il secondo motivo di ricorso incidentale merita accoglimento.
31. Si censura la sentenza d’appello per avere posto a base della statuizione di illegittimità del licenziamento le informazioni fornite dalla Motorizzazione Civile di Milano che, secondo la prospettazione della ricorrente incidentale, sarebbero incomplete oltre che errate. L’incompletezza delle informazioni deriverebbe dalla incompletezza della richiesta rivolta dalla Corte di merito alla Motorizzazione Civile, in quanto la prima avrebbe omesso una circostanza determinante per il giusto inquadramento della fattispecie da parte dell’Ufficio: la residenza anagrafica del sig. A. in Italia fin dal 2004. L’errore nella risposta della Motorizzazione, su circostanza decisiva, deriverebbe dalla mancata considerazione della residenza in Italia del lavoratore da più di un anno (a pag. 18 del ricorso incidentale è scritto per errore “da meno di un anno”), e dell’art. 135 del codice della strada, dalla cui corretta applicazione sarebbe derivato l’obbligo per il lavoratore, ai sensi del comma 3, di conseguire il certificato ADR in Italia, quale Stato che aveva rilasciato la patente di guida, oppure, ai sensi del comma 1, di convertire il Certificato di Formazione Professionale nel corrispondente titolo abilitativo italiano.
32. Il motivo in esame è inammissibile, anzitutto perché fa riferimento ad atti processuali, come la richiesta di informazioni della Corte d’appello alla Motorizzazione Civile di Milano, definita incompleta ed erronea, senza tuttavia che ne sia trascritto, almeno nelle parti rilevanti, il contenuto. Inoltre, perché fonda l’assunto di omesso esame di un fatto decisivo nonché la violazione delle disposizioni del Codice della Strada, sul dato della residenza in Italia del lavoratore dal 2004, senza specificare dove e in che termini questo dato e le relative questioni in diritto fossero stati prospettati nei gradi di merito, atteso che la sentenza impugnata non reca ad essi alcun riferimento (v. Cass. n. 11166 del 2018; n. 20703 del 2015; n. 18795 del 2015; n. 23675 del 2013).
33. Il terzo motivo di ricorso incidentale risulta assorbito, in conseguenza della ritenuta inammissibilità dei primi due motivi.
Esame dei motivi di ricorso principale
34. I primi cinque motivi di ricorso principale possono essere trattati congiuntamente in quanto affrontano, da diversi punti di vista, l’interpretazione dell’art. 18, l. n. 300 del 1970, nel testo anteriore alle modifiche apportate dalla l. n. 92 del 2012.
35. L’art. 18, nel testo di cui alla legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge n. 108 del 1990, stabilisce al comma 1 che “[…] il giudice con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell’articolo 2 della predetta legge o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro […], di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro”. Al comma 4, prevede che “il giudice con la sentenza di cui al primo comma condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata l’inefficacia o l’invalidità stabilendo un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegra e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell’effettiva reintegrazione; in ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità di rete di retribuzione globale di fatto”.
36. Questa Corte ha più volte affermato che, ai sensi dell’art. 18, primo comma, della legge 20 maggio 1970 n. 300, il giudice che accerta l’inefficacia o l’illegittimità del licenziamento deve ordinare la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, anche in mancanza di una esplicita domanda in tal senso del lavoratore licenziato, atteso che la reintegrazione – salvo il caso di espressa rinuncia ad essa – è compresa, come effetto tipico della tutela reale prevista dalla norma suddetta, nella domanda avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità od inefficacia del recesso del datore di lavoro (v. Cass. n. 4921 del 1997; n. 12294 del 1991, entrambe relative all’art. 18 cit., nel testo anteriore alle modifiche di cui alla l. n. 109 del 1990).
37. Tale soluzione interpretativa deve confermarsi anche in riferimento alla versione dell’art. 18, modificata dalla legge n. 108 del 1990, ma rimasta immutata nella parte in cui prevede che il giudice “ordina al datore di lavoro […] di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro”, dovendosi ribadire che la reintegra, in quanto effetto che la legge riconnette all’annullamento del licenziamento intimato, non abbisogna di una esplicita domanda.
38. Nella decisione di questa Corte n. 12944 del 2012, si è ribadito che “l’effetto legale tipico della sentenza di annullamento del licenziamento illegittimo nel campo della tutela reale è […] la reintegrazione nel posto di lavoro”. La pronuncia è stata adottata in una fattispecie in cui il ricorrente, sul presupposto della illegittimità del licenziamento disciplinare, si era limitato a domandare il risarcimento del danno, senza altra specificazione, e la S.C. ha puntualizzato che l’interpretazione della domanda era unicamente volta a stabilire se il lavoratore, attraverso il riferimento al solo risarcimento del danno, non avesse inteso esercitare l’opzione per l’indennità sostitutiva della reintegra.
39. Le Sezioni Unite, intervenute con la sentenza n. 141 del 2006, a dirimere il contrasto creatosi in tema di riparto dell’onere probatorio in ordine ai presupposti di applicazione della tutela reale o obbligatoria al licenziamento di cui sia accertata l’invalidità, hanno statuito che “fatti costitutivi del diritto soggettivo del lavoratore a riprendere l’attività e, sul piano processuale, dell’azione di impugnazione del licenziamento sono esclusivamente l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato e l’illegittimità dell’atto espulsivo, mentre le dimensioni dell’impresa, inferiori ai limiti stabiliti dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, costituiscono, insieme al giustificato motivo del licenziamento, fatti impeditivi del suddetto diritto soggettivo del lavoratore e devono, perciò, essere provati dal datore di lavoro” (v. in senso conforme Cass. n. 12907 del 2017; n. 9867 del 2017).
40. In ossequio a tale principio, si è affermato che, a fronte di una formulazione alternativa del dipendente, di richiesta di applicazione della tutela reale o obbligatoria, era onere del datore di lavoro, a differenza di quanto ritenuto dai giudici di seconde cure, provare il requisito dimensionale dell’impresa (v. Cass. n. 12907 del 2017).
41. Coerentemente a tale impostazione, si è esclusa la configurabilità del vizio di ultrapetizione nella pronuncia del giudice del merito che, di fronte alla domanda del lavoratore illegittimamente licenziato, dopo l’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori, di riassunzione al lavoro entro tre giorni oppure di risarcimento del danno ex art 8 legge 15 luglio 1966 n 604, ha accolto l’istanza di reintegra in servizio in base all’art 18 della legge n 300 del 1970, il quale esclude la possibilità, per il datore di lavoro, di scegliere fra la reintegrazione nel posto di lavoro ed il risarcimento del danno (v. Cass. n. 1654 del 1980).
42. In definitiva, una volta qualificata la domanda proposta dal lavoratore come diretta alla declaratoria di illegittimità del licenziamento e al suo annullamento, il giudice non può esimersi dall’applicare la tutela legale prevista dall’art. 18, l. n. 300 del 1970, a meno che non sia allegata e dimostrata, con onere a carico di parte datoriale, l’assenza del necessario requisito dimensionale e salvo l’esercizio del diritto di opzione, riconosciuto dalla medesima disposizione
43. Non si pone pertanto un problema di interpretazione della domanda giudiziale, correttamente inquadrata dai giudici di merito come volta alla declaratoria di illegittimità del licenziamento e al suo conseguente annullamento, bensì di violazione di legge nella individuazione della tutela applicabile, avendo la Corte di merito negato la tutela di cui all’art. 18, l. n. 300 del 1970, nel testo applicabile ratione temporis, unicamente per la mancanza di una esplicita domanda di reintegra.
44. A fronte della domanda del lavoratore, di risarcimento del danno quale conseguenza dell’annullamento del licenziamento illegittimo, il giudice, che accerti l’illegittimità, deve applicare la tutela di cui all’art. 18, l. n. 300 del 1970, nel testo anteriore alle modifiche apportate dalla l. n. 92 del 2012, a meno che non sia allegato e dimostrato, con onere a carico della parte datoriale, il fatto impeditivo della reintegra, cioè l’assenza del necessario requisito occupazionale, e salvo l’esercizio del diritto di opzione del lavoratore per l’indennità sostitutiva della reintegra.
45. La sentenza impugnata non si è attenuta ai principi esposti ed anzi, con motivazione perplessa e nella quale non è possibile cogliere i passaggi logici a sostegno del decisum, ha ritenuto applicabile la tutela di cui all’art. 8, l. n. 604 del 1966, senza avere previamente accertato l’inesistenza del requisito occupazionale rilevante ai fini dell’art. 18 cit., oppure l’inapplicabilità, per altre cause, della tutela reintegratoria.
46. Per le ragioni esposte, devono trovare accoglimento i primi cinque motivi del ricorso principale, risultando assorbiti il sesto e il settimo motivo del ricorso principale e inammissibile il ricorso incidentale. La sentenza impugnata deve essere cassata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio della controversia alla medesima Corte d’appello, in diversa composizione, che procederà ad un nuovo esame delle questioni, uniformandosi ai principi sopra esposti, oltre che alla regolazione delle spese del giudizio di legittimità.
47. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
P.Q.M.
accoglie i primi cinque motivi del ricorso principale, assorbiti gli altri motivi; dichiara inammissibile il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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