CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 01 febbraio 2019, n. 3149

Amministrazione straordinaria – Esclusione dallo stato passivo – Nullità dei contratti di lavoro a tempo determinato – Retribuzioni dovute – Diritto di precedenza

Fatti di causa

Con decreto del 12 agosto 2014, il Tribunale di Milano rigettava l’opposizione proposta da G.M. avverso l’esclusione dallo stato passivo dell’amministrazione straordinaria di V. s.p.a. del credito di € 80.975,53 insinuato in via privilegiata ai sensi dell’art. 2751 bis n. 1 c.c., per retribuzioni dovutegli per la nullità dei contratti di lavoro a tempo determinato stipulati tra le parti dal 2000 al 2010, in relazione a prestazioni lavorative svolte nel villaggio turistico di N.M. (Calabria), in difetto di specifiche ragioni giustificative e dei presupposti stabiliti dal d.lg. 368/2001, con la conseguente conversione del rapporto a tempo indeterminato, oltre che per risarcimento del danno subito per violazione del diritto di precedenza.

Disattesa la pregiudiziale eccezione di giudicato con altra sentenza dello stesso Tribunale (n. 3371/2012) di rigetto della stessa domanda dedotta dalla procedura resistente, il Tribunale riteneva la decadenza, ai sensi dell’art. 32 I. 183/2010, del credito relativo alla pretesa illegittimità del termine, in assenza di tempestiva impugnazione stragiudiziale (nei sessanta giorni dalla cessazione dell’ultimo contratto, quand’anche a tale ipotesi fosse applicabile la proroga del termine decadenziale al 1° marzo 2012, a norma dell’art. 2, comma 54 I. 10/2011 di conversione del d.l. 225/2010, cosiddetto “milleproroghe”), per la proposizione dell’insinuazione allo stato passivo il 22 novembre 2012 e l’inidoneità allo scopo del ricorso depositato il 7 luglio 2011 al Tribunale di Vibo Valentia in funzione di giudice del lavoro, per l’assoluta indeterminatezza dei contratti impugnati, così da non poterli riferire a quelli oggetto di insinuazione.

Esso escludeva, infine, la spettanza del diritto di precedenza (non soggetto a decadenza) asseritamente violato, non avendo la datrice alcun obbligo nei suoi confronti, sulla base del verbale del 29 gennaio 2010, né essendo stata specificata l’annualità della lamentata violazione, né in favore di quali lavoratori.

Con atto notificato il 11 settembre 2014, G.M. ricorreva per cassazione con cinque motivi, cui la società in a.s. resisteva con controricorso e memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.; il difensore della ricorrente rinunciava quindi al mandato con nota di comunicazione a mezzo PEC del 30 ottobre 2018, con sua sostituzione con il domiciliatario.

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo, la ricorrente deduce violazione dell’art. 32 I. 183/2010, per erronea applicazione del regime di decadenza previsto per l’azione di impugnazione del licenziamento illegittimo a quella di nullità del termine apposto a contratto di lavoro a tempo determinato, nonostante la diversità delle due fattispecie (per l’interruzione del rapporto di lavoro, nella prima e la sua vigenza invece, nella seconda), pure di allarme costituzionale, per la violazione dell’art. 3 Cost.

2. Con il secondo, la ricorrente deduce violazione dell’art. 116 c.p.c. nell’applicazione dei criteri di valutazione della prova in ordine alla ravvisata insufficienza, per genericità, dell’allegazione della successione dei contratti a termine stipulati tra le parti ai fini della ritenuta inidoneità quale atto di impugnazione nel rispetto del termine decadenziale, del ricorso depositato il 7 luglio 2011 al Tribunale di Vibo Valentia, ricevuto e bene inteso nel suo contenuto da V. s.p.a.

3. Con il terzo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 32, quarto comma I. 183/2010, 116 c.p.c., per la proposizione del ricorso suindicato al Tribunale di Vibo Valentia, notificato il 1° ottobre 2011 ed equipollente ad una idonea contestazione del licenziamento (idest: della nullità del termine) avendo con esso richiesto la conversione del rapporto da tempo determinato a indeterminato, entro il termine decadenziale prorogato ai sessanta giorni successivi al 31 dicembre 2011.

4. Con il quarto, la ricorrente deduce violazione dell’art. 116 c.p.c. ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione sul punto decisivo della controversia della mancata considerazione del valore probatorio della documentazione allegata al fascicolo della domanda di insinuazione allo stato passivo (ed in particolare del verbale di accordo sindacale), di cui aveva espressamente richiesto l’acquisizione nel giudizio di opposizione, nonché della mancata ammissione delle prove dedotte, in assenza di spiegazione, in riferimento al riconoscimento del diritto di precedenza della lavoratrice.

5. Con il quinto, la ricorrente deduce violazione degli artt. 91, 92 c.p.c., per la mancata compensazione delle spese del giudizio tra le parti, nella ravvisata insussistenza di giusti motivi nella complessità della regolamentazione della decadenza nella materia dei contratti a termine.

6. Il primo motivo, relativo a violazione dell’art. 32 I. 183/2010 per erronea applicazione del regime di decadenza previsto per l’azione di impugnazione del licenziamento illegittimo a quella di nullità del termine apposto a contratto di lavoro a tempo determinato, è infondato.

6.1. Il Tribunale ha correttamente ritenuto l’applicabilità (di cui tenuto conto al primo periodo di pg. 4 del decreto: “Quand’anche … ” ) dei principi regolanti la materia, secondo cui l’art. 32 comma 1 bis I. 183/2010, introdotto dal d.l. 225/2010, conv. con mod. dalla I. 10/2011, nel prevedere “in sede di prima applicazione” il differimento al 31 dicembre 2011 dell’entrata in vigore delle disposizioni relative al termine di sessanta giorni per l’impugnazione del licenziamento, opera per tutti i contratti ai quali tale regime risulta esteso e riguarda tutti gli ambiti di novità di cui al novellato art. 6 I. 604/1966. Sicché, in relazione ai contratti a termine, non solo in corso, ma anche con termine scaduto e per i quali la decadenza sia maturata nell’intervallo di tempo tra il 24 novembre 2010 (data di entrata in vigore del cd. “collegato lavoro”) e il 23 gennaio 2011 (scadenza del termine di sessanta giorni per l’entrata in vigore della novella introduttiva del termine decadenziale), si applica il differimento della decadenza mediante la rimessione in termini, rispondente alla ratio legis di attenuare, in chiave costituzionalmente orientata, le conseguenze legate all’introduzione ex novo del suddetto e ristretto termine di decadenza (Cass. 14 dicembre 2015, n. 25103; Cass. s.u. 14 marzo 2016, n. 4913).

6.2. Quanto alla questione di legittimità costituzionale, pure prospettata in modo assolutamente generico e pertanto inammissibile, essa è comunque infondata, essendo già stata ritenuta tale (Corte cost. 4 giugno 2014, n. 155).

7. Il secondo motivo (violazione dell’art. 116 c.p.c. nell’applicazione dei criteri di valutazione della prova in ordine alla ravvisata inidoneità quale atto di impugnazione, nel rispetto del termine decadenziale, del ricorso depositato il 7 luglio 2011 al Tribunale di Vibo Valentia) ed il terzo (violazione e falsa applicazione degli artt. 32, quarto comma I. 183/2010, 116 c.p.c. per la tempestiva proposizione del ricorso suindicato al Tribunale di Vibo Valentia) possono essere congiuntamente esaminati, per ragioni di stretta connessione.

7.1. Essi sono inammissibili.

7.2. Non si configura la prima violazione di legge denunciata, posto che, in tema di ricorso per cassazione, una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (Cass. 27 dicembre 2016, n. 27000). Quanto poi alla valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360, primo comma, n. 4 c.p.c., bensì errore di fatto, da censurare attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360, primo comma 1, n. 5 c.p.c., come riformulato dall’art. 54 d.l. 83/2012, conv. con modif. dalla I. 134/2012 (Cass. 12 ottobre 2017, n. 23940).

7.3. I due mezzi si risolvono allora in una sostanziale contestazione della valutazione probatoria alla base dell’accertamento operato dal Tribunale, con specifico riferimento al ricorso depositato presso il Tribunale di Vibo Valentia e pure adeguatamente argomentato (per le ragioni in particolare esposte a pg. 4 del decreto fino al secondo capoverso) e pertanto insindacabile in sede di legittimità (Cass. 19 marzo 2009, n. 6694; Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 4 novembre 2013, n. 24679).

7.4. In particolare, inoltre, il terzo motivo è generico, in mancanza di specifica confutazione del corretto ed argomentato ragionamento decisorio del Tribunale, sempre in riferimento al citato passaggio argomentativo del decreto: sicché, così come formulato, esso viola la prescrizione di specificità dell’art. 366, primo comma, n. 4 c.p.c., che esige l’illustrazione del motivo con esposizione degli argomenti invocati a sostegno della decisione assunta con il decreto impugnato e l’analitica precisazione delle considerazioni che, in relazione al motivo come espressamente indicato nella rubrica, giustificano la cassazione della sentenza (Cass. 3 luglio 2008, n. 18202; Cass. 19 agosto 2009, n. 18421; Cass. 22 settembre 2014, n. 19959).

8. Il quarto motivo, relativo a violazione dell’art. 116 c.p.c. ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia quale la mancata considerazione del valore probatorio della documentazione allegata e delle prove dedotte non ammesse in riferimento al diritto di precedenza del lavoratore, è inammissibile.

8.1. Al di là della possibilità di acquisizione da parte del Tribunale, nel giudizio di opposizione allo stato passivo, del fascicolo d’ufficio della procedura fallimentare contenente i documenti prodotti nella fase di verifica, sempre che, bene inteso, essi siano oggetto di “indicazione specifica” a norma dell’art. 99, secondo comma, n. 4 I. fall. (Cass. 18 maggio 2017, n. 12548 e n. 12549; Cass. 14 giugno 2018, n. 15627), risultante nel caso di specie in riferimento al verbale di conciliazione del 29 gennaio 2010, esso è stato oggetto di una specifica ed argomentata disamina (al p.to 3 di pg. 4 del decreto). Ma un tale scrutinio non è stato oggetto di confutazione alcuna, tanto meno specifica: sicché anch’esso si rivela generico (Cass. 3 luglio 2008, n. 18202; Cass. 19 agosto 2009, n. 18421; Cass. 22 settembre 2014, n. 19959) e si risolve pure in una contestazione della valutazione probatoria, incensurabile in sede di legittimità (Cass. 19 marzo 2009, n. 6694; Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 4 novembre 2013, n. 24679).

8.3. Ed una pari genericità, per difetto assoluto di confutazione, investe l’accertamento di mancata richiesta di prova (al quart’ultimo capoverso di pg. 4 del decreto: “La domanda è … sfornita di prova … nemmeno richiesta”), in assenza peraltro della relativa trascrizione, in violazione del principio di specificità del mezzo, in violazione dell’art. 366, primo comma, n. 4 e n. 6 c.p.c., anche sotto il profilo di difetto di autosufficienza (Cass. 22 febbraio 2007, n. 4178; Cass. 23 aprile 2010, n. 9748; Cass. 4 ottobre 2017, n. 23194; Cass. 4 aprile 2018, n. 8204).

8.4. Deve essere infine anche rilevata l’inconfigurabilità del vizio motivo alla luce del novellato testo dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c. (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439).

9. Il quinto motivo, relativo a violazione degli artt. 91, 92 c.p.c., per la mancata compensazione delle spese del giudizio tra le parti, è pure inammissibile.

9.1. E’ nota, infatti, in tema di regolazione delle spese processuali, la limitazione del sindacato di legittimità all’accertamento a che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possano essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa. Poiché nel caso di specie una tale violazione non sussiste, resta insindacabile, in quanto nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite: e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso di altri giusti motivi (Cass. 19 giugno 2013, n. 15317; Cass. 13 maggio 2016, n. 9904; Cass. 31 marzo 2017, n. 8421).

10. Dalle superiori argomentazioni discende coerente il rigetto del ricorso, con regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la lavoratrice alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in € 200,00 per esborsi e € 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.