CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 01 luglio 2020, n. 13411
Licenziamento disciplinare – Condotta di insubordinazione – Violazione delle regole di correttezza e e civiltà nei rapporti con i colleghi – Nozione di insubordinazione – Qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro della organizzazione aziendale – Insubordinazione non necessariamente limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori gerarchici – Carattere extralavorativo di un comportamento non ne preclude in via generale la sanzionabilità in sede disciplinare
Fatti di causa
1. La Corte di appello di Trento, con sentenza n. 55/2018, ha riformato la sentenza di primo grado e così respinto l’impugnativa del licenziamento disciplinare intimato in data 14 aprile 2017 dalla società U. al dipendente G. P., al quale era stata contestata una condotta di insubordinazione e la violazione delle regole di correttezza e minaccia nei confronti della collega M. Z..
2. Per quanto ancora di interesse in questa sede, la Corte d’appello ha accolto il terzo motivo dell’appello incidentale della società osservando -in sintesi – quanto segue.
Con lettera del 14 aprile 2017 a G. P. era stato contestato, ai sensi degli art. 7 I. 300/70, artt. 51, comma 1 e 52 CCNL e art. 17 del Regolamento interno, di avere minacciato la responsabile dell’amministrazione M. Z. nel corso di una discussione sorta per la restituzione di una chiavetta per l’uso del distributore del caffè di avere con tale condotta posto in essere una grave violazione delle regole di correttezza e civiltà nei rapporti con i colleghi, aggravata da atteggiamenti verbalmente minacciosi; di essere incorso nella recidiva rispetto a sei infrazioni nel biennio, di cui una di natura specifica.
Secondo la contestazione disciplinare, la minaccia era consistita nell’avere chiuso la porta dell’ufficio e nell’avere pronunciato la frase ” prima o poi, in sede più consona, dovrò farti un discorso “, puntando il dito contro l’interlocutrice; la minaccia inoltre sarebbe stata seria, tanto che la responsabile avrebbe invitato ripetutamente il P. ad uscire immediatamente dal suo ufficio, invito eseguito solo quando la Z. sollevò la cornetta del telefono per chiamare l’amministratore.
L’istruttoria svolta nella fase sommaria e nella fase dell’opposizione aveva consentito di ricostruire pienamente l’accaduto (nei termini descritti da pag. 12 a pag. 14 della sentenza), confermando le frasi che, lasciate incompiute e proferite immediatamente prima di allontanarsi, erano state pronunciate dal P., nel mentre bloccava con la mano la maniglia della porta dell’ufficio e puntava il dito contro l’impiegata. Sono infondati gli assunti dell’appellante secondo cui non vi sarebbe insubordinazione, in assenza di un rapporto gerarchico tra lui e M. Z., e neppure un’infrazione disciplinare, in quanto il diverbio si verificò a giornata lavorativa ormai conclusa: il rapporto gerarchico sussiste ogni qual volta vi sia una sovraordinazione sia pure non nell’ambito dell’esecuzione della prestazione lavorativa, ma anche in un ambito più peculiare, quale era nella specie quello proprio del settore amministrativo di cui la Z. era responsabile; la circostanza che il diverbio si fosse verificato fuori dell’orario di lavoro non esclude la riferibilità dello stesso a rapporti infraziendali, ossia alla violazione degli obblighi connessi alla corretta esecuzione del rapporto di lavoro, posto che lo stesso ebbe ad oggetto proprio obblighi e diritti connessi alla fruizione di servizi/beni aziendali.
In merito alla recidiva, vi erano due provvedimenti disciplinari riguardanti l’insubordinazione, uno risalente all’ottobre 2015, sanzionato con la sospensione di giorni uno, e l’altro del marzo 2017, ugualmente sanzionato la sospensione di giorni uno. Per quanto riguarda il diverbio e le minacce vi era un provvedimento del marzo 2017, di richiamo verbale.
In conclusione, in una valutazione complessiva delle circostanze acquisite al giudizio, deve ritenersi sussistente un inadempimento di gravità tale da non consentire la prosecuzione, nemmeno provvisoria, del rapporto di lavoro, avendo la condotta addebitata, nel contesto descritto e per la recidiva specifica, inciso irrimediabilmente sull’elemento fiduciario del rapporto.
3. Per la cassazione di tale sentenza G. P. ha proposto ricorso affidato a cinque motivi. Ha resistito la soc. U. con controricorso. Il ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ..
Ragioni della decisione
1. Il primo motivo denuncia “violazione degli artt. 3, commi 1 e 2, e 41, comma 2 Cost.” per avere l’interpretazione seguita dalla sentenza impugnata trascurato di considerare i principi di uguaglianza e di pari dignità sociale tra cittadini, da applicare anche nelle relazioni e nell’ambiente di lavoro, in particolare in assenza di un rapporto di subordinazione gerarchica; né una relazione gerarchica può estendersi ad attività e situazioni che non appartengono alla prestazione di lavoro in senso proprio.
2. Il secondo motivo denuncia violazione della medesime norme costituzionali, con riferimento al passaggio motivazionale della sentenza impugnata che ha affermato l’esistenza di un rapporto gerarchico tra la Z. e il P..
3. Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione CCNL e dell’art. 2106 cod. civ. per non avere la sentenza considerato la graduazione delle sanzioni prevista dal codice disciplinare, nonché il fatto che le parti sociali hanno contemplato come suscettibile di licenziamento disciplinare l’ipotesi del “diverbio litigioso, seguito da vie di fatto avvenuto nel recinto dello stabilimento e che rechi grave perturbamento alla vita aziendale” (art. 54 lett. i). Da ciò la Corte di appello avrebbe dovuto desumere che non è prevista la sanzione espulsiva nel caso di diverbio litigioso che non sia stato seguito da vie di fatto (situazione non si era registrata in occasione del colloquio tra il ricorrente e la signora Z.) e che non abbia arrecato perturbamento alla vita aziendale (l’alterco aveva creato turbamento solo alla Z.). Si era dunque in presenza di un diverbio litigioso privo delle caratteristiche che, secondo la valutazione compiuta dalle parti sociali, avrebbero potuto comportare la sanzione espulsiva e dunque la condotta concreta non rivestiva una gravità tale da giustificare il recesso datoriale, anche in relazione al criterio di proporzionalità fissato dall’art. 2106 cod. civ.
4. Il quarto motivo denuncia violazione del CCNL per essere stati addotti nella sentenza, a giustificazione del licenziamento, fatti non contestati dalla datrice di lavoro.
5. Il quinto motivo denuncia falsa applicazione degli artt. 2104 e 2105 cod. civ.. Si assume che non sarebbe comprensibile la violazione del dovere di diligenza e di fedeltà, atteso che la prestazione di lavoro era terminata e non ricorrevano i presupposti di fatto per ipotizzare un comportamento lesivo degli interessi dell’impresa.
6. Il ricorso è infondato.
7. Quanto ai primi due motivi, tra loro connessi, deve rilevarsi che il concetto di “insubordinazione” va determinato anche alla stregua dell’accezione lessicale e del significato del termine nel linguaggio giuridico ed in quello corrente. La nozione di insubordinazione, nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori, ma implica necessariamente anche qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro della organizzazione aziendale (cfr. Cass. n. 3521 del 1984 e n.5804 del 1987 e, da ultimo, Cass. n. 7795 del 2017). E’ dunque erronea in diritto la tesi per cui l’insubordinazione dovrebbe essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori gerarchici; la violazione dei doveri del prestatore riguarda non solo la diligenza in rapporto alla natura della prestazione, ma anche l’inosservanza delle disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore o dai suoi collaboratori (art. 2104 cod. civ.).
7.1. Nel caso di specie, la condotta oggetto dell’addebito disciplinare, quale ricostruita nella sentenza impugnata, seppure realizzatasi al di fuori dell’orario di lavoro, era stata tenuta dal P. in locali aziendali e si era rivolta in danno di una dipendente che, nel particolare contesto organizzativo, era preposta a rappresentare l’azienda in veste di responsabile amministrativo e la vicenda aveva riguardato aspetti che afferivano comunque all’osservanza di disposizioni interne dettate dal datore di lavoro circa l’uso di beni aziendali.
Per gli stessi motivi, non è pertinente il richiamo della giurisprudenza di questa Corte relativa a comportamenti extralavorativi tenuti dal dipendente, dovendosi – ad ogni buon conto – precisare che anche il carattere extralavorativo di un comportamento non ne preclude in via generale la sanzionabilità in sede disciplinare, in quanto gli artt. 2104 e 2105 cod. civ., richiamati dalla disposizione dell’art. 2106 cod. civ. relativa alle sanzioni disciplinari, non vanno interpretati restrittivamente e non escludono che il dovere di diligenza del lavoratore subordinato si riferisca anche ai vari doveri strumentali e complementari che concorrono a qualificare il rapporto di lavoro.
8. Il terzo motivo si incentra sul rilievo per cui la condotta tenuta dal ricorrente sarebbe consistita in un diverbio privo di vie di fatto, infrazione per la quale, secondo un’interpretazione sistematica del CCNL, le parti sociali avevano escluso il licenziamento per giusta causa. Il ricorrente richiama l’art. 54 CCNL di settore che punisce con il licenziamento senza preavviso il lavoratore che “commetta gravi infrazioni alla disciplina o alla diligenza nel lavoro o che provochi all’azienda grave nocumento morale o materiale o che compia azioni delittuose in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro” e che indica, in via esemplificativa, l’ipotesi (lettera i) del “diverbio litigioso, seguito da vie di fatto avvenuto nel recinto dello stabilimento e che rechi grave perturbamento alla vita aziendale”. Argomenta a contrario che il diverbio senza vie di fatto non potrebbe integrare la suddetta ipotesi e che quindi, nel sistema valoriale dettato dalle parti sociali, la condotta ascritta poteva integrare soltanto un’ipotesi punibile con sanzione conservativa.
8.1. Anche tale motivo è infondato. La scala valoriale recepita nel CCNL costituisce dunque uno dei parametri cui fare riferimento ai fini del giudizio sussuntivo della fattispecie concreta nella clausola generale di cui all’art. 2119 cod. civ.. Tuttavia, anche quando la condotta sia astrattamente corrispondente alla fattispecie tipizzata contrattualmente, occorre pur sempre che essa sia riconducibile alla nozione legale di giusta causa, attraverso un accertamento in concreto della proporzionalità tra sanzione ed infrazione, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo (v. Cass. nn. 9396 e 28492 del 2018, n. 14063 del 2019, nonché Cass. n. 8826 del 2017, n. 27004 del 2018 e n. 19023 del 2019). Inoltre, ai fini della valutazione di proporzionalità, l’indagine giudiziale deve essere diretta non solo a verificare se il fatto addebitato sia o meno riconducibile alle disposizioni della contrattazione collettiva che consentono l’irrogazione del licenziamento, ma anche, attraverso una valutazione in concreto, se il comportamento tenuto, per la sua gravità, sia suscettibile di ledere in modo irreparabile la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, con particolare attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza (v. Cass. 18195 del 2019).
8.2. Nel caso in esame, la Corte di appello di Trento ha evidenziato che la fattispecie integrava la violazione degli artt. 2104 e 2105 cod. civ. e delle regole di condotta dettate dagli artt. 51, primo comma, CCNL e 17 del Regolamento interno, per cui il licenziamento è comminato al lavoratore che commetta gravi infrazioni alla disciplina e alla diligenza nel luogo di lavoro: la palese minaccia verbale era stata accompagnata da un atteggiamento intimidatorio, con cui il colloquio si era concluso, minaccia che corrispondeva (anche se non letteralmente) a quella contestata, di voler chiedere “conto” della condotta della responsabile amministrativa fuori dell’azienda; la serietà del minaccia, per come percepita dalla persona offesa, era palesemente idonea ad incutere timore, anche volendo interpretarla solo come possibilità di affrontare la collega, in uno scontro verbale e non necessariamente fisico, fuori dai locali aziendali; la condotta di prevaricazione aveva turbato la serenità della dipendente, oltretutto gerarchicamente sovraordinata.
La Corte di appello ha argomentato che da tale complesso di elementi della vicenda era desumibile il completo disinteresse manifestato dal dipendente al rispetto di regole di correttezza nei rapporti interpersonali, situazione che integrava una “grave infrazione alla disciplina del luogo di lavoro”; ha pure evidenziato la gravità della condotta sotto il profilo soggettivo (v. pagg. 16 e 17 della sentenza), in considerazione del fatto che il P. aveva registrato la conversazione, comportamento che rivelava la consapevolezza e l’intenzionalità dello scontro verbale e la volontà dì provocarlo per procurarsi una qualche prova di condotta non corretta della collega.
A tali elementi occorreva poi aggiungere, come puntualmente evidenziato nella sentenza impugnata, la circostanza dei precedenti disciplinari riportati dal ricorrente anche per fatti specifici di insubordinazione e di diverbio e minacce, considerati come uno dei parametri di valutazione della gravità dell’illecito contestato, mediante un’operazione complessiva nel contesto del giudizio di proporzionalità.
9. E’ dunque da ritenere conforme a diritto il giudizio complessivo espresso dai giudici di merito, che hanno ritenuto la fattispecie non sussumibile in quella del mero diverbio tra colleghi senza vie di fatto, ma idonea ad integrare una irrimediabile violazione del vincolo fiduciario, ai sensi dell’art. 2119 cod. civ., non omettendo di considerare la scala valoriale del contratto collettivo, oltre che i valori fatti propri dalla coscienza sociale. Anche la considerazione della recidiva ben può rientrare nel giudizio di proporzionalità della sanzione, atteso che la reiterazione di infrazioni analoghe rivela, dal punto di vista soggettivo, una scarsa consapevolezza degli obblighi del dipendente nei confronti dei colleghi e dei preposti, e dal punto di vista oggettivo, una situazione idonea a turbare la serenità aziendale.
10. Il licenziamento era così intervenuto a sanzionare l’ennesimo episodio di insubordinazione e aggressione verbale, per cui – diversamente da quanto preteso dal ricorrente – il fatto commesso non poteva essere estrapolato dal contesto complessivo della contestazione disciplinare, né dalla valutazione globale che della gravità dello stesso ha compiuto la Corte di appello.
11. Il quarto motivo, che denuncia violazione del CCNL per essere stati addotti nella sentenza a giustificazione del licenziamento fatti non contestati dalla datrice di lavoro, è inammissibile, in quanto la sentenza ha motivato in ordine ai fatti di cui alla contestazione disciplinare. Non è comprensibile quali siano i fatti considerati a fondamento del decisum asseritamente estranei alla contestazione disciplinare.
12 Il quinto motivo è infondato, poiché il ricorrente assegna ai doveri del lavoratore una valenza restrittiva che non ha fondamento nell’ordinamento.
13. In conclusione, la sentenza impugnata resta immune dalle censure che le sono state mosse e il ricorso va rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi dell’art. 2 del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.
14. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1 – bis dello stesso art. 13 (v. Cass. S.U. n. 23535 del 2019).
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.500,00 per compensi, oltre 15% per spese generali e accessori di legge.
Ai sensi dell’art.13 comma 1 – quater del d.P.R. n.115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
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