CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 01 luglio 2021, n. 18724
Tributi – Accertamento analitico-induttivo – Legittimità – Incongruenza dei dati dichiarati con le risultanze degli studi di settore – Percentuale di ricarico inferiore al minimi dello studio di settore – Gestione antieconomica – Onere di prova cotnraria
Rilevato che
1. La Commissione tributaria regionale della Campania rigettava l’appello della Agenzia delle entrate avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Napoli, che aveva accolto il ricorso della O.L.P. s.r.l. contro l’avviso di accertamento emesso nei suoi confronti dalla Agenzia delle entrate, per l’anno 2007, con il metodo analitico-induttivo, ai sensi dell’art. 39, primo comma, lettera d), d.P.R. 600/1973. Il giudice di appello rilevava che la contabilità dell’azienda era regolare, mentre era onere della Agenzia dimostrare l’esistenza di elementi concreti di produzione del reddito, non essendo sufficienti gli indizi derivanti dalla applicazione degli studi di settore.
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate.
3. Questa Corte, con ordinanza del 3 novembre 2020, ha disposto la rinnovazione della notifica del ricorso per cassazione alla società contribuente.
4. L’Agenzia delle entrate ha provveduto alla rinnovazione della notifica del ricorso per cassazione ai soci della società estinta, per intervenuta cancellazione dal registro delle imprese, G.B. e R.B.
5. I soci sono rimasti intimati.
Considerato che
1. Con il primo motivo di impugnazione l’Agenzia delle entrate deduce la “violazione e falsa applicazione degli artt. 39, comma 1, lettera d) del d.P.R. n. 600/1973, 52, comma 5, e 54, comma 2, del d.P.R. n. 633/1972, nonché art. 62 sexies, d.l. n. 331/1993, art. 7 legge 212/2000 e 41 d.P.R. 600/1973 in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c.”, in quanto l’accertamento di cui all’art. 39, primo comma, lettera d) d.P.R. 600/1973 è stato innescato dallo scostamento delle risultanze degli studi di settore dai dati emergenti dalla contabilità della società.
Pertanto, i dati così ricavati potevano essere utilizzati anche in contrasto con le scritture contabili regolarmente tenute. La società sia nel 2007 che nei due anni di imposta precedenti (2005 e 2006) aveva applicato un ricarico inferiore a quello minimo previsto dallo studio di settore.
Sussisteva, dunque, una ipotesi di antieconomicità della gestione ripetuta negli anni. In caso di condotta antieconomica è consentito all’Amministrazione dubitare della veridicità delle scritture contabili.
Non è il solo mancato adeguamento agli studi di settore ad aver costituito la ragione dell’effettuazione dell’accertamento, ma anche il contesto di gestione antieconomica dell’impresa, stante l’esiguità dei redditi dichiarati dai soci negli anni dal 2005 al 2008. Lo studio di settore non era l’unico elemento, ma solo lo strumento per far emergere la situazione antieconomica. Il volume di affari del 2007 era stato di € 2.048.518,00, con una incidenza del costo del venduto pari a 0,97, con un indice di ricarico pari a 1,03, non idonea a garantire adeguata remunerazione dei fattori produttivi. Il giudice di appello, invece, ha ritenuto l’erroneità dello studio di settore in presenza di contabilità formalmente regolare, così incorrendo nella violazione delle norme tributarie.
2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente lamenta la “violazione e falsa applicazione degli artt. 62 sexies d.l. 331/93, 41 d.P.R. 600/73 nonché degli artt. 2727, 2697 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.”, in quanto, contrariamente a quanto affermato dal giudice di appello, sussisteva una “grave incongruenza” fra ricavi, compensi e corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle condizioni e dalle caratteristiche della attività. L’art. 39, primo comma, lettera d d.P.R. 600/1973 consente di desumere l’esistenza di attività non dichiarate sia facendo ricorso a presunzioni semplici di cui agli artt. 2727-2729 c.c., sia con gli altri parametri di cui all’art. 62 sexies d.l. 331/93, tra cui le “gravi incongruenze” tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche della specifica attività svolta o dagli studi di settore.
3. Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente deduce la “violazione dell’art. 2 d.lgs. 546/1992, 277 e 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c.”, in quanto il giudice tributario non può limitarsi alla determinazione degli effetti caducatori dell’atto impositivo, ma deve procedere alla determinazione dell’imposta dovuta. Il giudice di appello, invece, si sarebbe limitato a rigettare il gravame della Agenzia delle entrate, senza procedere alla autonoma valutazione e determinazione dell’imposta effettivamente dovuta dalla società.
3.1.Il primo motivo è fondato, con assorbimento dei restanti.
3.2.Invero, come emerge dagli atti, e segnatamente dal tenore dell’avviso di accertamento, ritualmente trascritto nel ricorso per cassazione nei suoi stralci essenziali, quest’ultimo è stato emesso a seguito di un accertamento induttivo che è scaturito dalle discordanze dei dati contabili della società rispetto a quelli degli studi di settore. L’accertamento non poggia solo sullo specifico studio di settore e sugli scostamenti rispetto ad esso, in quanto gli studi hanno rappresentato solo l’innesco dell’accertamento che si è poi dipanato attraverso il controllo dei redditi dell’impresa e della percentuale minima di ricarico, non idonea a consentire la remunerazione adeguata dei fattori produttivi.
3.3. Il fatto che l’accertamento sia basato sullo studio di settore non esclude, dunque, che esso possa trovare anche altre giustificazioni, come avvenuto nel caso in esame in cui si è evidenziato che i prodotti freschi venduti dalla contribuente, costituenti il 60 % di quelli complessivamente posti in vendita, erano caratterizzati da un ciclo di acquisto e di rivendita assolutamente breve, sicché i tempi di “stivaggio” delle marce nei magazzini era di pochi giorni, con quotidiana frequenza degli acquisti. Il costo del venduto in base al volume di affari annuo di € 2.048.518,00 era di pochissimo superiore al prezzo di acquisto delle materie prime, con un indice di ricarico di appena 1,03. Inoltre, nell’avviso si chiariva che era assolutamente anomalo il realizzo di percentuali di ricarico medio non idonee a garantire adeguata remunerazione dei fattori produttivi e redditività all’impresa.
3.4. L’avviso di accertamento era fondato anche sugli studi di settore, ma non si esauriva in essi, avendo preso in esame altri elementi, quali la bassa percentuale di ricarico la scarsa redditività dell’impresa.
3.5. Si è affermato, quindi, che un accertamento tributario può dirsi fondato su uno studio di settore solo nel caso in cui trovi in esso il suo fondamento prevalente. Ciò non si verifica quando, mediante l’utilizzo degli studi di settore siano emerse incongruenze nella contabilità di impresa che abbiano indotto l’Ente accertatore ad approfondire l’analisi, scoprendo altri, e prevalenti, indici rivelatori dell’esistenza di una operatività economica non dichiarata, raccogliendo l’Amministrazione finanziaria elementi gravi, precisi e concordanti, posti a fondamento dell’accertamento tributario (Cass., sez. 5, 13555/2020; Cass., 5 dicembre 2019, n. 31814, Cass., 6 giugno 2019, n. 15344).
3.6. Per questa Corte, a sezioni unite, la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sé considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente. In tale sede, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente.
L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli “standards” al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte. In tal caso, però, egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli “standards”, dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito (Cass., sez.un., 18 dicembre 2009, n. 26635).
3.7. Pertanto, poiché l’accertamento non è fondato in via esclusiva sugli studi di settore, è incorso in violazione di legge il giudice di appello che ha deciso la controversia sul presupposto errato che l’avviso fosse basato in via esclusiva sugli studi di settore.
4. La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Campania, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo ricorso; dichiara assorbiti il secondo ed il terzo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Campania, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
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