CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 01 ottobre 2018, n. 23780
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Ragioni oggettive e di crisi aziendale – Impossibilità di “repechage” del dipendente licenziato – Prova del datore di lavoro
Svolgimento del processo
La V. S. s.r.l. propose appello avverso la sentenza n.7340/14 del Tribunale di Roma con la quale era stata accolta l’impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo disposto dalla medesima società nei confronti di S. A. il giorno 20.10.09 e, per l’effetto, era stata dichiarata la illegittimità del recesso con ordine alla società resistente di immediata reintegrazione nel suo posto di lavoro, con le mansioni svolte “al momento del recesso, con condanna della società resistente al pagamento di tutte le retribuzioni globali di fatto instaurate dalla data del licenziamento sino alla effettiva reintegra, con gli interessi legali e la rivalutazione monetaria e con condanna alla regolarizzazione della sua posizione contributiva e previdenziale (detratto l’aliunde perceptum e quanto percepito dal ricorrente ai sensi dell’art. 423 c.p.c. a titolo di t.f.r.).
Lamentava che il primo giudice aveva erroneamente rilevato che entrambe le motivazioni poste a base del licenziamento (“Problemi meccanici, di usura e vetustà dell’autocarro da Lei condotto; Mancanza di lavoro, che ci costringe ad una riduzione del personale”), non erano state sufficientemente provate dalla società.
Si costituiva il S. resistendo al gravame.
Con sentenza depositata il 23.11.15, la Corte d’appello di Roma accoglieva il gravame, ritenendo sussistenti le ragioni oggettive e di crisi aziendale poste alla base del licenziamento, rigettando la domanda proposta dal S., che condannava al pagamento delle spese. Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso quest’ultimo, affidato a tre motivi. Resiste la società con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
1. -Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 116, 345, 437 c.p.c., 2697 e 2704 c.c., oltre ad omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.
Lamenta che la corte di merito ammise, in contrasto con le norme denunciate, la documentazione prodotta dalla società V. sol perché essa si era formata dopo la proposizione del gravame, mentre doveva considerarsi inammissibile perché mai prodotta in precedenza. Lamenta ancora che taluni documenti (autorizzazione al collocamento in CIG di taluni lavoratori, prodotto a fini conciliativi) vennero solo allegati al verbale di udienza di primo grado del 18.6.14.
Il motivo è infondato, avendo questa Corte a sezioni unite (sent. n. 8202/05) affermato il principio, successivamente consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui nel rito del lavoro, in base al combinato disposto degli artt. 416, terzo comma, cod.proc.civ., che stabilisce che il convenuto deve indicare a pena di decadenza i mezzi di prova dei quali intende avvalersi, ed in particolar modo i documenti, che deve contestualmente depositare – onere probatorio gravante anche sull’attore per il principio di reciprocità fissato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 13 del 1977 – e 437, secondo comma, cod.proc.civ, che, a sua volta, pone il divieto di ammissione in grado di appello di nuovi mezzi di prova – fra i quali devono annoverarsi anche i documenti -, l’omessa indicazione, nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, dei documenti, e l’omesso deposito degli stessi contestualmente a tale atto, determinano la decadenza del diritto alla produzione dei documenti stessi, salvo che la produzione non sia giustificata dal tempo della loro formazione o dall’evolversi della vicenda processuale successivamente al ricorso ed alla memoria di costituzione (ad esempio, a seguito di riconvenzionale o di intervento o chiamata in causa del terzo); e la irreversibilità della estinzione del diritto di produrre i documenti, dovuta al mancato rispetto di termini perentori e decadenziali, rende il diritto stesso insuscettibile di reviviscenza in grado di appello.
Tale rigoroso sistema di preclusioni trova peraltro un contemperamento – ispirato alla esigenza della ricerca della “verità materiale”, cui è doverosamente funzionalizzato il rito del lavoro, teso a garantire una tutela differenziata in ragione della natura dei diritti che nel giudizio devono trovare riconoscimento – nei poteri d’ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi del citato art. 437, secondo comma, cod. proc. civ., ove essi siano indispensabili ai fini della decisione della causa, poteri, peraltro, da esercitare pur sempre con riferimento a fatti allegati dalle parti ed emersi nel processo a seguito del contraddittorio delle parti stesse.
Nella specie i documenti ammessi sono risultati essersi formati successivamente alla sentenza di primo grado e riguardano fatti tempestivamente allegati dalle parti, sicché risultano ammissibili alla luce dei principi esposti.
Deve del resto rilevarsi che la pronuncia invocata dal ricorrente (Cass. S.U. n. 14475/15) ha affermato il principio per cui l’art. 345, terzo comma, cod. proc. civ. (nel testo introdotto dall’art. 52 della legge 26 novembre 1990, n. 353, con decorrenza dal 30 aprile 1995) va interpretato nel senso che i documenti allegati alla richiesta di decreto ingiuntivo e rimasti a disposizione della controparte, agli effetti dell’art. 638, terzo comma, cod. proc. civ., seppur non prodotti nuovamente nella fase di opposizione, rimangono nella sfera di cognizione del giudice di tale fase, in forza del principio “di non dispersione della prova” ormai acquisita al processo, e non possono perciò essere considerati nuovi, sicché, ove siano in seguito allegati all’atto di appello contro la sentenza che ha definito il giudizio di primo grado, devono essere ritenuti ammissibili.
A tal scopo è evidentemente irrilevante che il documento inerente l’autorizzazione alla CIG sia stato prodotto a (dedotti) soli scopi conciliativi, essendo stato allegato al verbale di udienza.
2. – Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 5 L. n. 604/66, 1362 e segg. c.c., oltre ad omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.
Lamenta che la sentenza impugnata, quanto al cd. obbligo di repechage, ritenne erroneamente che doveva esigersi dal lavoratore un onere di collaborazione nell’individuazione di altri posti di lavoro disponibili ed utili, mentre nella specie il S. si era limitato a dedurre, peraltro in modo del tutto generico, la possibilità di essere assegnato alla società presso altro posto di lavoro (pag. 4 sentenza impugnata).
Il motivo è infondato.
E’ vero infatti che questa Corte ha affermato (cfr. Cass. n. 5592/16) che in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di “repechage” del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i suddetti oneri. L’orientamento è stato confermato da Cass. n. 12101/16, Cass. n. 24882/17.
In quest’ultima pronuncia è stato tuttavia chiarito che, giusta i principi generali, il datore di lavoro può assolvere tale onere anche mediante il ricorso a presunzioni.
Sotto questo profilo ritiene il Collegio che l’impossibilità di repechage sia stata implicitamente accertata dalla sentenza impugnata attraverso l’esame della documentata crisi, la mancanza di successive assunzioni e soprattutto dall’accertamento che poco dopo il licenziamento tutto il personale venne collocato in CIG, escludendo così la possibilità di un utile diverso impiego del S.
3. – Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 5 L. n. 604/66, 1362 e segg. c.c., oltre ad omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.
Lamenta che le ragioni poste a base del licenziamento non erano state adeguatamente dimostrate dalla società datrice di lavoro (oltre al mancato deposito dei bilanci aziendali) e configgevano con altre circostanze indicate in ricorso.
Il motivo è inammissibile in quanto sostanzialmente diretto, nel regime di cui al novellato n. 5 dell’art. 360, comma 1, c.p.c. ad una rivalutazione dei fatti già accertati dal giudice del merito.
4. – Il ricorso deve essere pertanto rigettato.
Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in €.200,00 per esborsi, €.4.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e c.p.a. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/02, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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