CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 01 settembre 2022, n. 25845
Tributi – IRPEF – Previdenza integrativa aziendale – Prestazione in forma capitale – Tassazione
Fatti di causa
1. Con istanza in data 20 aprile 2005 L.P. chiedeva all’Agenzia delle entrate il rimborso della somma di € 68.503,63, oltre interessi legali. Esponeva che l’E., quale sostituto d’imposta, aveva indebitamente operato la ritenuta alla fonte IRPEF applicando l’aliquota media prevista dall’art. 16 T.U.I.R. sull’importo (pari ad € 494.952,71) erogatogli nell’anno d’imposta 2004 a titolo di previdenza integrativa sulla base dell’accordo E. – F. del 16 aprile 1986 (con riferimento all’importo maturato fino al 31 marzo 1998), e dell’accordo sindacale del 23 gennaio 1998 (con riferimento al restante importo maturato nel periodo dal 1° aprile 1998 al 30 novembre 2001), anziché l’aliquota del 12,50% sul capitale determinato al netto dei premi riscossi ridotto del 2% per ogni anno successivo al decimo dall’accordo.
2. Formatosi sull’istanza in questione il silenzio-rifiuto, il sig. L. adiva la Commissione tributaria provinciale del Lazio, chiedendo l’annullamento di tale silenzio-rifiuto e riproponendo la domanda di rimborso.
3. Con sentenza n. 56/21/2006 la Commissione tributaria provinciale di Roma accoglieva parzialmente il ricorso proposto da L.P. avverso il silenzio-rifiuto sulla domanda di rimborso di somme indebitamente trattenute dall’E., in qualità di sostituto d’imposta, dichiarando il diritto al rimborso nella misura di € 48.492,91.
4. Proposto gravame dall’Ufficio, la Commissione tributaria regionale del Lazio – sede di Roma, con sentenza n. 170/14/2008, accoglieva parzialmente l’appello dell’Agenzia delle entrate, dichiarando applicabile l’aliquota del 12,50% sul rendimento e l’aliquota del 35,74% nella parte eccedente.
5. Proposto ricorso per cassazione dall’Agenzia delle entrate, e ricorso incidentale dal contribuente, la S.C., con sentenza n. 3132 del 12 febbraio 2014, accoglieva parzialmente il ricorso principale ed il ricorso incidentale. La Corte, infatti, rilevava che «la sentenza impugnata ha ritenuto applicabile l’aliquota del 12,5% genericamente all’intero importo percepito dal contribuente a titolo di “rendimento”; mentre avrebbe dovuto applicare tale aliquota solo al rendimento imputabile alla gestione sul mercato, da parte del Fondo, del capitale accantonato, quantificando il relativo importo in base agli investimenti concretamente effettuati dal Fondo sul mercato finanziario, alla stregua delle norme contrattuali via via applicabili, e delle plusvalenze con essi realizzati»; rinviava, pertanto, alla C.T.R. del Lazio, in diversa composizione, affinché accertasse se e quando, sulla base delle norme contrattuali applicabili, i capitali rivenienti dalla contribuzione fossero stati effettivamente investiti sul mercato finanziario, quali fossero stati i risultati dell’investimento, ed in quale modo fosse stata determinata l’assegnazione delle eventuali plusvalenze alle singole posizioni individuali.
6. Riassunto quindi il giudizio nell’interesse del contribuente, la C.T.R. del Lazio – sede di Roma, con sentenza n. 4683/28/2015, depositata l’8 settembre 2015, in parziale accoglimento dell’appello principale proposto dall’Agenzia delle entrate, e dell’appello incidentale proposto da L.P., dichiarava dovuto il rimborso nella misura di € 51.077,04.
7. Avverso tale ultima sentenza propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate, sulla base di cinque motivi.
Resiste con controricorso L.P..
8. All’udienza pubblica dell’8 giugno 2022 il consigliere relatore ha svolto la relazione ed il P.M. ed i procuratori delle parti hanno rassegnato le proprie conclusioni ex art. 23, comma 8-bis, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, conv. in l. 18 dicembre 2020, n. 176.
La ricorrente ha depositato memoria.
Ragioni della decisione
9. Con il primo motivo di ricorso l’Agenzia delle entrate eccepisce violazione e falsa applicazione degli artt. 384 cod. proc. civ. e 63 d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in relazione all’art. 360, primo comma, num. 3) e 4), cod. proc. civ., per non essersi la C.T.R. conformata al principio di diritto espresso dalla precedente pronuncia di questa Corte n. 3132 del 12 febbraio 2014, e per avere erroneamente delineato la nozione di “rendimento”, sul quale applicare l’aliquota del 12,50%, facendo riferimento al mero rendimento di polizza (ossia alla differenza tra quanto versato dal datore di lavoro e dal dirigente e l’importo erogato al dirigente), e non già al rendimento derivante dall’impiego sul mercato dei capitali raccolti dal fondo.
Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 115 cod. proc. civ., nonché degli artt. 384 dello stesso codice e 63 d.lgs. n. 546/1992, in relazione all’art. 360, primo comma, num. 3) e 4) cod. proc. civ., per avere la C.T.R. deciso la controversia in totale difformità delle precise ed univoche allegazioni dello stesso contribuente, dalle quali emergeva che l’E. non aveva impiegato i contributi sul mercato finanziario, ma si era limitata ad accantonare in bilancio tali contributi, maggiorati della somma presumibilmente necessaria per far fronte ai gravosi impegni contrattuali secondo le tecniche assicurative (c.d. riserva matematica).
Con il terzo motivo di ricorso l’Agenzia delle entrate eccepisce violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, num. 3), cod. proc. civ., per essersi basata, la C.T.R., per la quantificazione del rendimento, sulla base della certificazione rilasciata dall’E., e su una perizia di parte, la cui valenza probatoria era stata sempre esclusa da questa Corte.
Con il quarto motivo di ricorso l’Agenzia delle entrate eccepisce violazione e falsa applicazione dell’art. 115 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, num. 3) e 4), dello stesso codice, per avere la C.T.R. ritenuta provata la misura del rendimento sulla base di materiale probatorio asseritamente non contestato dall’Ufficio, che invece aveva sempre contestato la sussistenza del diritto al rimborso.
Con il quinto motivo di ricorso, proposto in via subordinata, la ricorrente eccepisce l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, primo comma, num. 5), cod. proc. civ., non avendo la C.T.R. verificato se le somme affluite nel fondo previdenziale fossero state o meno impiegate sui mercati finanziari, e quale fosse stato, nell’ipotesi affermativa, l’importo del rendimento derivante da tale impiego.
10. I primi quattro motivi di ricorso possono essere esaminati congiuntamente, in quanto strettamente connessi, e sono fondati.
10.1. La sentenza di questa Corte n. 3132 del 12 febbraio 2014 ha cassato la precedente sentenza della C.T.R. del Lazio n. 170/14/2008, stabilendo che la ritenuta del 12,50%, prevista dall’art. 6 della legge 26 settembre 1985, n. 482, debba essere applicata solo sulle somme rivenienti dalla liquidazione del c.d. rendimento, per tale dovendo intendersi – secondo quanto stabilito dalla sentenza delle sezioni unite di questa Corte del 22 giugno 2011, n. 13642 – il “rendimento netto” imputabile alla gestione sul mercato da parte del Fondo del capitale accantonato.
Orbene, ciò posto, il problema che si pone, nella specie, è quello relativo alla individuazione di tale rendimento netto.
La elaborazione pretoria di questa Corte ha ritenuto che tale nozione debba essere individuata negli importi rivenienti dall’effettivo investimento sul mercato, da parte del fondo, del capitale accantonato (ex aliis, Cass. 29 dicembre 2011, n. 29583; Cass. 12 gennaio 2012, n. 280; Cass. 04 aprile 2012, n. 5376; Cass. 25 maggio 2012, n. 8320; Cass. 27 marzo 2013, nn. 7724-7728; Cass. 22 maggio 2013, nn. 12491-12496; Cass. 2 ottobre 2013, n. 22492; Cass. 9 ottobre 2013, n. 22950; Cass. 12 febbraio 2014, n. 3132; Cass. 12 febbraio 2014, n. 3136; Cass. 19 marzo 2014, n. 6380; Cass. 9 aprile 2014, n. 8310; Cass. 4 febbraio 2015, n. 1977; Cass. 22 maggio 2015, n. 10604; Cass. 13 gennaio 2017, n. 720); con la precisazione che l’assoggettamento di detto “rendimento” al più favorevole trattamento impositivo previsto dall’art. 6 della legge n. 482/1985 non discende da una diretta riconduzione a detta norma della fattispecie, ma è giustificato dalla equiparazione tra i capitali corrisposti in dipendenza di contratti di assicurazione sulla vita e (quelli corrisposti in dipendenza di contratti) di capitalizzazione sancita dall’art. 41 (ora 44, comma 1, lett. g quater), e art. 42 (ora 45), comma 4, del T.U.I.R. (Cass. 26 aprile 2017, n. 10285; Cass. 18 ottobre 2017, n. 24525; Cass. 2 marzo 2018,n. 4941; Cass. 7 marzo 2018, n. 5436).
Più specificamente, si è ritenuto che integrino il c.d. rendimento netto «le somme derivanti dall’effettivo investimento del capitale accantonato sul mercato, non anche quelle calcolate attraverso l’adozione di riserve matematiche e di sistemi tecnico-attuariali di capitalizzazione, al fine di garantire la copertura richiesta dalle prestazioni previdenziali concordate» (così, oltre alle citate Cass. n. 10285 del 2017 e Cass. n. 24525 del 2017, Cass. 2 aprile 2018 n. 4943; Cass. 19 giugno 2018 n. 16116; Cass. 24 luglio 2018 n. 19621; Cass. 30 ottobre 2018 n. 27585).
Di recente, poi, si è altresì puntualizzato che, da un lato, il “rendimento” è configurabile pure in relazione ai capitali maturati ed agli investimenti effettuati anteriormente alla trasformazione (avvenuta nell’anno 1998) del fondo da P.I.A. a FondE. e che, dall’altro, il requisito del “rendimento” non va circoscritto ai soli (eventuali) investimenti nel mercato finanziario (valori mobiliari, strumenti finanziari), potendo assumere rilievo a tale scopo anche altri tipi di mercato, quale quello immobiliare. (Cass. 18 aprile 2019, n. 10907; Cass. 3 maggio 2019, n. 11637; Cass. 7 novembre 2019, n. 28688).
Resta in ogni caso esclusa l’operatività della minore tassazione rispetto alle somme versate dal contribuente a fondi previdenziali che non abbiano mai investito sul mercato; del pari, non può qualificarsi come “rendimento” quello corrispondente alla redditività sul mercato dell’intero patrimonio E. (rapporto tra il margine operativo lordo e il capitale investito), poiché tale coerenza rappresenta il risultato di un predeterminato calcolo di matematica attuariale e non già il frutto dell’investimento di accantonamenti sul libero mercato (Cass. 19 giugno 2018, n. 16116-16117-16118 che, in motivazione, richiamano la relazione n. 32/1999 della Corte dei Conti – sezione del controllo sugli enti – proprio sul bilancio consuntivo dell’E. relativo all’esercizio finanziario 1997; Cass. 15 giugno 2018, n. 15853; Cass. 30 ottobre 2018, n. 27610; Cass. 12 novembre 2019, n. 29205).
10.2. Ora, dal punto di vista processuale, il contribuente che impugna il rigetto dell’istanza di rimborso è attore in senso sostanziale, come tale onerato di provare il fondamento della pretesa azionata, cioè a dire tenuto a dimostrare: i) se il fondo abbia impiegato sul mercato il capitale accantonato; ii) quale (e quanto) sia stato il rendimento di gestione conseguito da tale impiego; iii) in qual modo sia stata determinata l’assegnazione delle eventuali plusvalenze alle singole quote individuali del fondo attribuite al dipendente, onde individuare la parte dell’indennità ricevuta da ascrivere a rendimenti da investimenti sul mercato (oltre alle pronunce citate sopra, vedi Cass. 2 aprile 2020, n. 7660; Cass. 28 febbraio 2020, n. 5494; Cass. 18 novembre 2020, n. 26198; Cass. 23 novembre 2020, n. 26543).
E, come ha espressamente precisato questa Corte, siffatto onere probatorio non può ritenersi sufficientemente assolto tramite il mero rinvio «al conteggio proveniente dall’E., prodotto dal contribuente, che non contiene alcuna specificazione sui criteri utilizzati per la quantificazione della voce rendimento, così da chiarire se si tratta effettivamente di incremento della quota individuale del Fondo attribuita al dipendente in forza di investimenti effettuati dal gestore sul mercato» (Cass. 15 marzo 2017, n. 13278; Cass. 16 marzo 2017, n. 13281; Cass. 26 marzo 2019, n. 8429; Cass. 20 ottobre 2020, n. 22847).
Nella specie, la stessa deduzione del contribuente, che pone a fondamento dell’istanza il c.d. rendimento di polizza, esclude in radice la prova che il rendimento ottenuto sulle somme accantonate nel fondo di previdenza integrativa sia stato ricavato dal loro investimento sul mercato.
10.3. Così tratteggiato il perimetro della causa, è evidente che la sentenza impugnata non si è attenuta ai principi di diritto enunciati dalla precedente sentenza di questa Corte, poiché, in sostanza, senza spiegarne la ragione, ha ritenuto provato tout court il diritto al rimborso, mentre questo aspetto cruciale avrebbe dovuto essere oggetto di puntuale dimostrazione, nel giudizio di merito, con onere della prova a carico del contribuente. In altri termini, l’errore commesso dalla C.T.R. sta nell’avere dato per non contestato, in aderenza alla tesi dell’attore sostanziale, che esistesse un rendimento del capitale accantonato nel Fondo P.I.A., senza verificare, da un lato, l’an dell’investimento, ossia l’effettivo impiego sul mercato (finanziario o dei valori mobiliari) del capitale accantonato (nel Fondo PIA); dall’altro, ove appurata una simile destinazione del capitale, il quantum del rendimento, visto che soltanto tale importo era assoggettabile alla tassazione agevolata del 12,50%.
10.4. Proprio con riferimento al tema della prova, del tutto negletto dal giudice d’appello, merita ricordare l’ormai consolidato indirizzo sezionale, del quale in parte si è dato conto in precedenza, che esclude che la prova del rendimento del capitale accantonato possa consistere nella certificazione E. della redditività, sul mercato, dell’intero patrimonio netto dell’impresa, poiché tale evidenza esprime una mera operazione matematica e non è il frutto dell’investimento di quegli accantonamenti sul libero mercato. In particolare, nel solco della giurisprudenza di questa Corte, si rileva che dalla certificazione E. non è possibile trarre elementi probatori idonei a dimostrare che il capitale accantonato del contribuente ha costituito una “posizione individuale” ed è stato investito sul mercato di riferimento (finanziario, mobiliare, o altro mercato).
Questa Corte, infatti, ha ripetutamente precisato che né la certificazione E. né la consulenza di parte assolvono all’onere probatorio, spettante al contribuente che agisca per vedere riconosciuto il suo diritto al rimborso, poiché non recano alcuna specificazione dei criteri utilizzati per la quantificazione della voce “rendimento”, sì da chiarire se si tratti effettivamente di incremento della quota individuale del Fondo attribuita al dipendente in forza di investimenti effettuati dal gestore sul mercato (Cass. 4 maggio 2021, nn. 11611, 11612; Cass. 28 aprile 2021, n. 11171; Cass. 19 luglio 2021, n. 20617). Il prospetto E. certifica esclusivamente la differenza tra il totale del capitale lordo da liquidare e la somma di dotazione iniziale. Quello indicato nella certificazione E., allora, è il rendimento ottenuto corrispondente alla redditività conseguita sul mercato dell’intero patrimonio dell’E.. In relazione a questo aspetto della lite, è decisiva la sottolineatura di Cass. 21 ottobre 2021, n. 29479, che ricorda, con estrema chiarezza, come «nella nota del 28 aprile 2014 dell’E. si afferma che la P.I.A. “non ha potuto né, tantomeno, avrebbe potuto svolgere – quale Fondo interno con accantonamento a bilancio E. – un’attività di investimento sui mercati finanziari. Pertanto, nessun rendimento derivante dall’investimento, da parte del Fondo P.I.A., sui mercati finanziari è ipotizzabile”. La configurabilità di un “rendimento netto”, imputabile alla gestione sul mercato da parte del Fondo del capitale accantonato risulta incompatibile con il tenore letterale dell’accordo E./F. del 16 aprile 1986, in quanto l’importo della prestazione spettante al dirigente era predeterminato in anticipo sulla base del rapporto tra l’ultima retribuzione e la pensione. Il rendimento altro non è che la mera differenza da quanto affluito nel Fondo PIA e quanto erogato in concreto ai dirigenti». Simili conclusioni, del resto, sono asseverate dalla relazione n. 32/1999 della Corte dei conti – sezione del controllo sugli enti – proprio sul bilancio consuntivo di E., relativo all’esercizio finanziario 1997 (Cass. 19 giugno 2018, n. 16116; Cass. 13 novembre 2019, n. 29396; Cass. 23 novembre 2020, n. 26543).
10.5. In conclusione, deve ritenersi che la C.T.R., in sede di rinvio, non abbia fatto corretta applicazione del principio di diritto formulato da questa Corte. Infatti, ha affermato, in modo del tutto contraddittorio, che il rendimento netto derivante dalla gestione sul mercato del capitale accantonato fosse da identificare con il rendimento della polizza. In particolare, la Commissione regionale ha ritenuto che «lo specifico riferimento al rendimento di polizza e la provenienza di tale affermazione dalla corte di legittimità non lascia dubbi di alcun genere circa l’individuazione di tale forma di rendimento con quello che i capitali raccolti dal fondo pensionistico possano avere avuto dall’investimento sul mercato finanziario. E’ dunque chiara l’identificazione del rendimento netto, imputabile alla gestione sul mercato da parte del fondo del capitale accantonato con le somme corrispondenti a rendimento di polizza (nella fattispecie P.I.A.)».
A tal proposito, va rilevato che è del tutto contraddittorio affermare che vi sarebbe stata una gestione del capitale accantonato nei fondi sul mercato finanziario, per poi determinare tale rendimento facendo una equiparazione al rendimento di polizza, posto che non risultano effettuati investimenti nel mercato finanziario, mentre il “rendimento” è stato determinato con la tecnica attuariale propria del regime assicurativo.
Pertanto, il giudice del rinvio, non si è attenuto al principio di diritto enucleato da questa Corte, limitandosi ad affermare che l’importo corrisposto al contribuente avesse natura di “rendimento”, senza però specificare le ragioni per cui vi sarebbe stata la prova che parte del capitale accantonato era stato investito nei “mercati finanziari”.
10.6. In particolare, la Commissione regionale, in sede di rinvio, ha affermato che «nel caso in esame va assoggettata alla ritenuta del 12,50% la parte di capitale erogato al contribuente, riferibile al rendimento. Il contribuente ha perciò diritto al rimborso delle somme che il sostituto d’imposta gli trattenne sul capitale erogato a suo tempo, in eccedenza rispetto a quanto dovuto: sull’importo complessivo erogato dal Fondo per € 259.934, costituente la componente di rendimento abbattuto del 2% annuo per ogni anno di iscrizione successivo al decimo (…) deve quindi applicarsi la tassazione nella misura del 12,50, pari a € 30.542,24, in luogo della aliquota maggiore applicata nella misura del 31,40% (…) con conseguente diritto al rimborso in favore del contribuente».
La Commissione regionale, in sede di giudizio di rinvio, non ha, dunque, provveduto, in alcun modo, all’esame degli elementi di fatto, idonei a verificare se gli accantonamenti del fondo fossero stati investiti nel mercato finanziario o in quello di “riferimento”, né nei mercati mobiliari o immobiliari. E’, però, certo da escludere che tale requisito possa considerarsi soddisfatto dall’essere il rendimento ottenuto corrispondente alla redditività ottenuta sul mercato dell’intero patrimonio dell’E., poiché tale valore costituisce il risultato di una mera operazione matematica e non effettivamente il frutto dell’investimento di quegli accantonamenti nel libero mercato.
10.7. La Commissione tributaria, inoltre, non ha tenuto conto del fatto che grava sul contribuente che impugna una istanza di rimborso l’onere di provare quale sia la parte dell’indennità ricevuta ascrivibile a rendimenti frutto d’investimento sui mercati di riferimento, senza che detto onere probatorio possa ritenersi sufficientemente assolto tramite il mero rinvio al conteggio proveniente dall’E., prodotto dal contribuente, che non contiene alcuna specificazione sui criteri utilizzati per la quantificazione della voce rendimento, così da chiarire se si tratta effettivamente di incremento della quota individuale del Fondo attribuita al dipendente in forza di investimenti effettuati dal gestore sul mercato (Cass. n. 16116/2018).
Inoltre, effettivamente il contribuente, sin dal ricorso introduttivo, non ha neppure allegato che i contribuiti affluiti nel fondo P.I.A. fossero stati investiti nel mercato finanziario o di riferimento. Peraltro, è pacifico, in quanto ammesso dallo stesso contribuente, che nella vigenza della P.I.A. l’E. non ha impiegato i contributi sul mercato finanziario, ma si è limitata ad accantonare in bilancio, secondo le tecniche assicurative, la somma presumibilmente necessaria per far fronte agli obblighi derivanti dall’accordo del 16 aprile 1986. Il rendimento, quindi, non discende da uno specifico investimento sul mercato dei capitali affluiti del fondo P.I.A., in relazione alla singola e specifica posizione del contribuente, ma la redditività della riserva matematica deriva dal risultato della complessiva attività produttiva svolta dall’E..
10.8. Per tale ragione, erra il giudice d’appello quando afferma che l’Agenzia delle entrate non avrebbe contestato in alcun modo “l’ammontare del rendimento”. In realtà, come detto, lo stesso contribuente, nel ricorso introduttivo sostanzialmente esclude l’avvenuta gestione sul mercato finanziario dei capitali accantonati presso il fondo, facendo riferimento ad un rapporto di “tipo assicurativo”. Inoltre, nel ricorso in appello l’Ufficio ha contestato in modo espresso l’assoggettabilità degli emolumenti all’aliquota del 12,5% (cfr. atto di appello riportato in stralcio a pagina 15 del ricorso per cassazione ove l’Ufficio ha dedotto «l’inesistenza del presupposto applicativo del citato art. 42 e cioè del contratto di assicurazione sulla vita», precisando che «non risulta che sia stata fornita la prova della stipula di contratti di capitalizzazione»). Pertanto, una volta contestato lo stesso diritto del contribuente, alla restituzione delle somme, in assenza del requisito fondamentale della gestione sul mercato dei capitali accantonati, è evidente che perde rilevanza la mancata contestazione specifica del quantum nel relativo conteggio predisposto dall’E.. L’Agenzia delle entrate ha, quindi, contestato la stessa configurabilità, alla stregua dell’accordo stipulato tra E. e F. nel 1986, di redditi di capitale produttivi rendimenti assoggettabili al regime fiscale con aliquota del 12,5%.
11. In conclusione, accolti i primi quattro motivi di ricorso, la sentenza deve essere cassata; il quinto motivo resta assorbito, in quanto proposto in via subordinata.
Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, poiché la vicenda fiscale è stata sviscerata anche sul piano dell’apprezzamento del materiale probatorio da parte dei giudici di merito, e in ossequio al principio della ragionevole durata del processo, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384, secondo comma, cod. proc. civ., con il rigetto del ricorso introduttivo.
12. In ragione dell’epoca di formazione dell’indirizzo giurisprudenziale di riferimento, debbono essere compensate, tra le parti, le spese dei gradi di merito e quelle del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetto il ricorso proposto in primo grado da L.P..
Compensa integralmente tra le parti le spese di tutti i gradi di giudizio.
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