CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 02 marzo 2022, n. 6796
Licenziamento – Fruizione di permessi 104 per lo svolgimento di attività estranee all’assistenza del soggetto disabile – Valutazione degli elementi probatori – Accertamento del difetto di proporzionalità del recesso datoriale
Fatti di causa
1. La Corte di appello di Perugia, con la sentenza n. 66/2019, in parziale riforma della pronuncia resa dal Tribunale di Spoleto n. 163/2018, ha dichiarato risolto il rapporto di lavoro intercorrente tra I.C. spa e G.A. a decorrere dalla data del licenziamento (18.2.2015) e ha condannato la società al pagamento, in favore del lavoratore, di una indennità risarcitoria onnicomprensiva di cui all’art. 18 co. 5 legge n. 300/1970 pari a 18 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori.
2. Il recesso era stato irrogato in base a tre addebiti, con i quali l’azienda aveva contestato al dipendente di avere fruito di tre permessi, corrispondenti all’intero turno lavorativo di otto ore, concessi ai sensi della legge n. 104/1992 per dedicarsi ad attività estranee alla assistenza della madre, soggetto portatore di handicap grave.
3. L’adito Tribunale, in sede di opposizione al provvedimento sommario, ha dichiarato illegittimo il licenziamento intimato, con reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro e con condanna al pagamento di un’indennità risarcitoria pari a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
4. La Corte territoriale, per ciò che interessa in questa sede, in sintesi ha rilevato, attraverso una valutazione degli elementi probatori ed una ricostruzione dei tre episodi contestati, che gli accadimenti del 20.12.2014 si erano rivelati diversi da quelli contestati, mentre le condotte dei giorni 13 e 31 gennaio 2015, in cui erano stati accertati comportamenti del lavoratore estranei alle esigenze di assistenza dei disabili per le quali erano stati concessi i permessi, quantitativamente avevano interessato solo tre ore delle sedici complessive, per cui l’abuso del diritto, seppure sussistente, non era tale da giustificare la misura disciplinare adottata e, quindi, per mancanza di proporzionalità, il fatto non integrava una giusta causa. Quanto alla tutela, i giudici di seconde cure hanno ritenuto che il fatto non fosse passibile di alcuna sanzione conservativa e che andava applicata la sanzione prevista dall’alt. 18 co. 5 della legge n. 300 del 1970.
5. Avverso la sentenza di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione G.A. affidato a tre motivi, cui ha resistito con controricorso la I.C. spa, formulando, a sua volta, ricorso incidentale sulla base di un solo motivo.
6. Le parti hanno presentato memorie.
Ragioni della decisione
1. I motivi possono essere così sintetizzati.
2. Con il primo motivo G.A. denuncia la violazione dell’art. 33 co. 3 della legge n. 104/92, come sostituito dall’art. 24 co. 1 lett. a) legge n. 183/2010 e dall’art. 6 D.lgs. n. 119/2011, nonché la violazione dell’art. 3 co. 7 bis legge n. 104/1992, introdotto dall’art. 24 legge n. 183/2010, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c. Deduce, dopo avere ripercorso tutta la vicenda, che il comportamento di esso lavoratore non integrava la giusta causa o il giustificato motivo soggettivo di licenziamento, come sottolineato dalla Corte di merito che, però, aveva poi ritenuto sproporzionata la misura non applicando la tutela reintegratoria.
3. Con il secondo motivo si censura la violazione e falsa applicazione dell’art. 51 e dell’art. 52 del CCNL Chimici farmaceutici, dell’art. 18 co. 4 legge n. 300/1970 e degli artt. 1362 e ss. cc, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c., per avere la Corte territoriale ritenuto che alla fattispecie in esame non potesse applicarsi una sanzione di carattere meramente conservativo.
4. Con il terzo motivo il ricorrente principale lamenta la violazione dell’art. 2119 cc, la violazione dell’art. 18 commi 1, 2, 3, 4 e 5 della legge n. 300/1970, così come modificati dall’art. 1 della legge n. 92/2012, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c., per avere la Corte d’appello ritenuto applicabile, al caso di specie, solo il rimedio indennitario in luogo della tutela reintegratoria sul posto di lavoro, sebbene avesse affermato l’insussistenza della giusta causa del licenziamento a seguito di un giudizio di sproporzionalità della suddetta sanzione rispetto al fatto addebitato al lavoratore.
5. Con l’unico motivo del ricorso incidentale la società si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 7 legge n. 300/1970, in riferimento all’art. 360 n. 3 c.p.c., per avere la Corte di merito erroneamente ritenuto preclusa, per il principio di immutabilità della contestazione, la valutazione della condotta tenuta dal ricorrente il 20.12.2014, quando, invece, il fatto fondamentale, e cioè avere il lavoratore sottratto parte del permesso concessogli ex lege n. 104/92 per il giorno 20.12.2014 nell’arco temporale dalle 14 alle 17,10 per dedicarsi ad attività diversa da quella della assistenza alla madre, era chiaro a prescindere dalla circostanza che fosse stata contestata una sua partecipazione ad attività venatoria, anziché il suo essersi recato dalla cugina veterinaria per prestare assistenza al cane che era stato male.
6. I motivi primo e terzo del ricorso principale, da trattare congiuntamente per reciproca connessione, sono entrambi infondati.
7. Il giudice del reclamo è pervenuto all’accertamento del difetto di proporzionalità del recesso datoriale sulla base di una complessiva considerazione delle circostanze concrete, alla stregua delle quali ha ritenuto non giustificata la sanzione espulsiva. In particolare, la Corte territoriale ha ritenuto provata la condotta del lavoratore, che ha fruito dei permessi previsti dalla legge n. 104/1992 per lo svolgimento di attività estranee alle finalità proprie dell’istituto, ma ha concluso che essa non presentasse una gravità tale da determinare la sanzione del licenziamento. Infatti, la fruizione di tali permessi per finalità diverse rispetto a quelle contemplate dal legislatore è avvenuta, secondo la ricostruzione dei giudici di seconde cure, per un arco di tempo limitato, ossia per il 18.75% del tempo e, pertanto, l’abuso del diritto, seppur configurabile, non aveva assunto, a loro parere, con un accertamento in fatto adeguatamente motivato e quindi insindacabile in questa sede, una gravità tale da determinare il venire meno dell’elemento fiduciario alla base del rapporto di lavoro, tale da non rendere possibile nemmeno la prosecuzione temporanea dello stesso.
8. La Corte di appello ha, dunque, ritenuto sussistenti, nella loro materialità, alcuni dei fatti contestati e giudicato gli stessi rilevanti, in via astratta, sul piano disciplinare, in quanto condotte integranti violazioni di disposizioni contrattuali; tuttavia, in concreto, ha escluso l’idoneità dell’inadempimento a configurare giusta causa o giustificato motivo soggettivo sotto il profilo della proporzionalità tra licenziamento e condotta così come effettivamente realizzata e ha conseguentemente applicato il sistema sanzionatorio della legge n. 300 del 1970, art. 18, comma 5, piuttosto che quello reintegratorio stabilito dal precedente comma 4.
9. E’ opportuno ribadire che, in tema di licenziamento per giusta causa, l’accertamento dei fatti ed il successivo giudizio in ordine alla gravità e proporzione della sanzione espulsiva adottata sono demandati all’apprezzamento del giudice di merito, che – anche qualora riscontri l’astratta corrispondenza dell’infrazione contestata alla fattispecie tipizzata contrattualmente – è tenuto a valutare la legittimità e congruità della sanzione inflitta, tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda, con giudizio che, se sorretto da adeguata e logica motivazione, è incensurabile in sede di legittimità (Cass. n. 26010/2018) e che la giusta causa di licenziamento integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall’interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici e giuridici (Cass. n. 6498/2012).
10. L’impianto decisorio dei giudici di seconde cure è, dunque, conforme a quanto statuito in sede di legittimità (Cass. n. 31529/2019) secondo cui, nel caso di licenziamento disciplinare intimato per una pluralità di distinti ed autonomi comportamenti, solo alcuni dei quali risultino dimostrati, la “insussistenza del fatto” si configura qualora possa escludersi la realizzazione di un nucleo minimo di condotte che siano astrattamente idonee a giustificare la sanzione espulsiva, o se si realizzi l’ipotesi dei fatti sussistenti ma privi del carattere di illiceità, ferma restando la necessità di operare, in ogni caso, una valutazione di proporzionalità tra la sanzione ed i comportamenti dimostrati, con la conseguenza che, nell’ipotesi di sproporzione tra sanzione e infrazione, va riconosciuta la tutela risarcitoria se la condotta dimostrata non coincida con alcuna delle fattispecie per le quali i contratti collettivi o i codici disciplinari applicabili prevedono una sanzione conservativa, ricadendo la proporzionalità tra le “altre ipotesi” di cui all’art. 18, comma 5, della l. n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, della l. n. 92 del 2012, per le quali è prevista la tutela indennitaria cd. forte.
11. Il secondo motivo di ricorso attinente alla mancata applicazione della sanzione conservativa è inammissibile per difetto di interesse (Cass. n. 22753/2011).
12. La Corte territoriale, invero, relativamente alla questione se la condotta tenuta dal lavoratore fosse passibile di sanzione conservativa ha, in primo luogo, rilevato che la statuizione negativa, su tale punto, del primo giudice non aveva formato oggetto di censure; la stessa Corte ha, poi, attraverso il procedimento della sussunzione della fattispecie concreta in quella contrattuale, precisato che oggetto della contestazione disciplinare mossa all’A. non era l’inadempimento della prestazione lavorativa, bensì l’abuso nella fruizione dei permessi di cui alla legge n. 104/1992, per cui si trattava di un comportamento tenuto durante la sospensione dell’obbligazione principale di rendere la prestazione, così escludendo la ravvisabilità della fattispecie di assenza ingiustificata dal servizio invocata dal lavoratore e punita con sanzione conservativa.
13. Come può rilevarsi, si tratta di due distinte rationes deciderteli, adottate dalla Corte di merito, ciascuna idonea a sorreggerne il dictum.
14. Orbene, qualora nella sentenza impugnata ricorrano due distinte rationes decidendi, ciascuna di per sé sufficiente a sorreggere la soluzione adottata, il ricorrente ha l’onere di impugnarle entrambe, a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione (Cass. n. 10815/2019; Cass. n. 13880/2020): ciò non è avvenuto relativamente al rilevato profilo processuale della mancata formulazione di censure in sede di appello.
15. Pertanto, il presunto errore di sussunzione in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale nel ritenere non applicabile alla condotta in esame la sanzione conservativa non risulta vagliabile in questa sede, il quanto una sua eventuale caducazione lascerebbe intatta l’altra ratio decidendi (quella appunto della mancanza di censure, che non è stata con il motivo adeguatamente contrastata) né tale affermazione potrebbe essere sindacata per il suo eventuale contrasto con la prima, operando, al riguardo, il principio secondo cui la “sentenza del giudice di merito che, dopo aver aderito ad una prima ragione di decisione, esamini ed accolga anche una seconda ragione, al fine di sostenere la decisione anche nel caso in cui la prima possa risultare erronea, non incorre nel vizio di contraddittorietà della motivazione, il quale sussiste nel diverso caso di contrasto di argomenti confluenti nella stessa ratio deciderteli“. (Cass. n 21490/2005; Cass. n. 6045/2010; Cass. n. 10815/2019).
16. L’unico motivo del ricorso incidentale è infondato.
17. In tema di licenziamento disciplinare, il principio di immutabilità della contestazione attiene al complesso degli elementi materiali connessi all’azione del dipendente e può dirsi violato nell’ipotesi in cui venga adottato un provvedimento sanzionatorio che presupponga circostanze di fatto nuove o diverse rispetto a quelle contestate, così da determinare una concreta menomazione del diritto di difesa dell’incolpato (cfr. Cass. n. 6499 del 2011; Cass. n. 3079/2020; Cass. n. 11540/2020).
18. La ratio giustificativa alla base del divieto di cui all’art. 7 della l. n. 300/1970 osta alla possibilità per il datore di lavoro di far valere, a sostegno della legittimità del licenziamento stesso, circostanze nuove o diverse rispetto a quelle inizialmente contestate, dovendosi garantire l’effettivo diritto di difesa che la normativa sul procedimento disciplinare di cui all’art. 7, della legge n. 300 del 1970 assicura al lavoratore incolpato.
19. Invero, in tema di licenziamento disciplinare, la necessaria correlazione dell’addebito con la sanzione deve essere garantita e presidiata, in chiave di tutela dell’esigenza difensiva del lavoratore, anche in sede giudiziale, ove le condotte in contestazione sulle quali è incentrato l’esame del giudice di merito non devono nella sostanza fattuale differire da quelle poste a fondamento della sanzione espulsiva, pena lo sconfinamento dei poteri del giudice in ambito riservato alla scelta del datore di lavoro (Cass. n. 3079/2020).
20. Considerando tali principi giurisprudenziali, non può, dunque, essere accolta la ricostruzione proposta dalla società controricorrente, secondo cui il divieto di cui all’art. 7 non sarebbe stato violato nel caso di specie, giacché deve essere considerata rilevante la circostanza del mero accertamento dello svolgimento di attività diverse rispetto a quelle originariamente contestate e poste alla base del licenziamento, perché anche lo svolgimento di tali attività incidono sulla sostanza fattuale del fatto addebitato in relazione al quale il lavoratore si è difeso.
21. Alla stregua di quanto sopra esposto, il ricorso principale e quello incidentale vanno rigettati.
22. La soccombenza reciproca induce a compensare le spese del presente giudizio.
23. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso principale e quello incidentale. Compensa tra le parti le spese del presente giudizio. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale e per quello incidentale, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.