CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 02 ottobre 2019, n. 24627
Infortunio sul lavoro – Accertamento del comportamento omissivo ed inadempiente agli obblighi di legge tenuto dal datore – Danno patrimoniale – Determinazione
Fatti di causa
L’Inail propose azione di regresso innanzi al giudice del lavoro del Tribunale di Udine nei confronti della società A.P. s.p.a. e di A.M. per recuperare le prestazioni economiche erogate al dipendente R.M., infortunatosi mentre era al lavoro nel cantiere della stessa società. Il giudice adito, nell’accogliere la domanda di rivalsa, condannò i resistenti al pagamento di quanto versato dall’Inail al M. nei limiti della somma di € 321.442,81. Impugnata tale sentenza da parte della società A.P. s.p.a., la Corte d’appello di Trieste (sentenza del 6.3.2014) ha rigettato il gravame dopo aver rilevato che era stato definitivamente accertato il comportamento omissivo ed inadempiente agli obblighi di legge tenuto dalla società in occasione dell’infortunio occorso al M. e che non vi era stato alcun errore nel conteggio delle somme riconosciute dal primo giudice all’Inail.
Per la cassazione della sentenza ricorre la società A.P. s.p.a. con un solo motivo, articolato in più punti, cui resiste l’Inail con controricorso. Rimangono solo intimati M.A., la società R. & S.A. e la A.T. S.p.A (già T.A. S.p.A.).
Ragioni della decisione
1. Con un solo motivo, dedotto per violazione e falsa applicazione degli artt. 10, 11 d.p.r. n. 1124/65, 1223, 1226 e 1227 cod. civ., nonché delle tabelle allegate al R.D. 9 ottobre 1922, n. 1403 e dell’art. 429 cod. proc. civ. (art. 360 n. 3 c.p.c.), la ricorrente, dopo essersi doluta del fatto che la Corte d’appello di Trieste le aveva rigettato il motivo col quale si contestava la decisione del primo giudice di calcolare il danno patrimoniale attraverso l’applicazione delle tabelle di capitalizzazione del R.D. 9.10.1922 n. 1403, senza alcuna riduzione per lo scarto tra vita fisica e vita lavorativa, formula le seguenti censure:- a) Il dipendente M. aveva 54 anni all’epoca dell’infortunio e, quindi, avrebbe potuto lavorare ancora per 11 anni, prima del raggiungimento dell’età pensionabile, mentre il coefficiente di capitalizzazione “12.548” applicato nell’impugnata sentenza portava ad un risultato reddituale superiore di almeno il 10% della vita lavorativa, per cui la somma finale determinata dal giudice di primo grado, quale danno per la perdita reddituale (€ 197.487,07), avrebbe dovuto essere ridotta almeno di un 10% e, quindi, ricondotta ad € 177.738,37, tenuto conto anche del fatto che nessun rilievo poteva avere il riferimento al tasso di interessi legali, posto che la somma capitalizzata oggetto di regresso era stata rivalutata all’attualità; b) il primo giudice, una volta effettuata la capitalizzazione del danno patrimoniale, aveva poi erroneamente provveduto ad attualizzare la somma col cumulo degli interessi legali e della rivalutazione monetaria, quando, invece, trattandosi di credito risarcitorio e non retributivo, non poteva trovare applicazione la norma di cui all’art. 429 c.p.c.; tra l’altro, l’attualizzazione sembrava essere stata eseguita con riferimento alla data dell’infortunio e non della messa in mora, rappresentata dalla diffida dell’Inail; c) inoltre, dalla somma capitalizzata andava detratto l’importo di € 14.332,75, corrisposto dalla società al M. nel 1999, in quanto costituente anticipazione della rendita non conguagliata dall’Inail e non anticipazione per il periodo di malattia (inabilità temporanea) come, invece, affermato nell’impugnata sentenza.
2. Il motivo è infondato.
Invero, la Corte d’appello, i cui argomenti, immuni da rilievi di ordine logicogiuridico, resistono alle predette censure, ha sostanzialmente affermato quanto segue:- In primo grado il Ctu aveva escluso qualsiasi errore di conteggio e di duplicazione da parte dell’Inail e tale giudizio era stato condiviso dal primo giudice; oltretutto, questi, a fronte di una richiesta dell’Inail di condanna al pagamento della somma di € 392.395,12 aveva provveduto, ai fini del danno differenziale, a determinare l’ammontare del danno patrimoniale che sarebbe spettato al M. attualizzandolo al momento della sentenza; inoltre, nell’eseguire tale operazione aveva dato seguito all’orientamento per il quale non va applicata alcuna riduzione in relazione allo scarto tra vita fisica e vita lavorativa in considerazione del considerevole aumento, rispetto alle tabelle approvate col R.D. del 9.10.1922 n. 403, della vita media e, nel contempo, di una notevole diminuzione del tasso d’interesse legale; la rivalutazione e gli interessi legali, riferiti al momento del sinistro, erano stati computati ai sensi dell’art. 429 c.p.c., dovendosi determinare non l’importo spettante all’Inail, già considerato, ma la somma spettante al lavoratore a titolo di danno patrimoniale; l’importo di € 14.332,75 non era stato sottratto perché lo stesso ineriva al periodo di malattia (inabilità temporanea) e non era ricollegabile alla rendita da incapacità lavorativa; l’importo finale di € 321.442,81, riconosciuto a titolo di danno patrimoniale da incapacità lavorativa specifica, inferiore a quello richiesto dall’Inail, aveva rappresentato il limite quantitativo dell’ammontare riconosciuto all’Inail per l’azione di regresso.
3. Orbene, la correttezza delle argomentazioni logico-giuridiche svolte nell’impugnata sentenza della Corte d’appello trova puntuale riscontro nei precedenti di legittimità delineatisi in siffatta materia.
Si è, infatti, affermato (Cass. Sez. 3, sentenza n. 4186 del 2.3.2004) che <<In tema di liquidazione dei danni patrimoniali da invalidità permanente in favore del soggetto leso o da morte in favore dei superstiti, ove il giudice di merito utilizzi il criterio della capitalizzazione del danno patrimoniale futuro, adottando i coefficienti di capitalizzazione della rendita fissati nelle tabelle di cui al R.D. 9 ottobre 1922, n. 1403, egli deve adeguare detto risultato ai mutati valori reali dei due fattori posti a base delle tabelle adottate, e cioè deve tenere conto dell’aumento della vita media e della diminuzione del tasso di interesse legale e, onde evitare una divergenza tra il risultato del calcolo tabellare ed una corretta e realistica capitalizzazione della rendita, prima ancora di “personalizzare” il criterio adottato al caso concreto, deve “attualizzare” lo stesso, o aggiornando il coefficiente di capitalizzazione tabellare o non riducendo più il coefficiente a causa dello scarto tra vita fisica e vita lavorativa>> (in senso conf. v. Cass. Sez. 3, n. 15738 del 2.7.2010, nonché Cass. sez. 3, n. 12124 del 19.8.2003, in cui si è precisato che il giudice del merito può far ricorso alle tabelle di cui al R.D. n. 1403 del 1922, oppure ricorrere alle regole di equità di cui agli artt. 1226 e 2056 cod. civ., trattandosi di criteri, peraltro integrabili tra loro, non tassativi e costituendo tale scelta un giudizio di merito che, se congruamente motivato, è insindacabile in sede di legittimità).
4. Pertanto, correttamente i giudici del merito hanno determinato l’ammontare del danno patrimoniale che sarebbe spettato al M. attualizzandolo al momento della sentenza, senza applicare alcuna riduzione in relazione allo scarto tra vita fisica e vita lavorativa, proprio in ragione del considerevole aumento, rispetto alle tabelle approvate col R.D. del 9.10.1922 n. 403, della vita media, oltre che della notevole diminuzione del tasso d’interesse legale.
5. L’impugnata sentenza è altresì immune da rilievi di legittimità nella parte in cui nella determinazione della somma spettante all’Inail a titolo di regresso sono stati considerati gli accessori di legge degli interessi legali e della rivalutazione monetaria, trattandosi di credito sorto per effetto delle prestazioni di natura indennitaria erogate al lavoratore a causa di infortunio riconducibile a responsabilità datoriale e del conseguente diritto dell’infortunato a vedersi risarcito per intero il danno patrimoniale subito. Si è, infatti, statuito (Cass. Sez. Lav. n. 14507 dell’1.7.2011) che <<La domanda proposta dal lavoratore contro il datore di lavoro volta a conseguire il risarcimento del danno sofferto per la mancata adozione, da parte dello stesso datore, delle misure previste dall’art. 2087 cod. civ., non ha natura previdenziale perché non si fonda sul rapporto assicurativo configurato dalla normativa in materia, ma si ricollega direttamente al rapporto di lavoro, dando luogo ad una controversia di lavoro disciplinata quanto agli accessori del credito dal secondo comma dell’art. 429 cod. proc. civ.. Ne consegue che non opera il divieto di cumulo di interessi e rivalutazione stabilito per i crediti previdenziali dall’art. 16, sesto comma, della legge n. 412 del 1991>>.
6. Al riguardo si è, altresì, precisato (Cass. sez. lav. n. 17960 del 9.8.2006) che <<In tema di azione di regresso, il datore di lavoro è estraneo al rapporto tra l’infortunato e l’istituto assicuratore pubblico e non può contestarne il fondamento; tuttavia, nei confronti dell’INAIL, è obbligato nei limiti dei principi che informano la responsabilità civile per il danno civilistico subito dal lavoratore. Conseguentemente, il giudice del merito deve calcolare il danno civilistico (artt. 1221, 2056 cod.civ.) in relazione alla percentuale riconosciuta dal consulente tecnico d’ufficio, che costituisce il limite massimo del diritto di regresso dell’INAIL, senza entrare nel merito della valutazione effettuata dall’istituto a mezzo dei suoi sanitari ai fini del danno infortunistico, stabilendo, quindi, se l’importo richiesto dall’istituto rientra o meno nel predetto limite>>. In definitiva, i giudici del merito bene hanno operato allorquando hanno tenuto conto del cumulo degli interessi legali e della rivalutazione monetaria, in quanto ai fini del calcolo dell’indennizzo erogato dall’Inail, fatto poi oggetto di azione di regresso, occorreva considerare il credito base del lavoratore, al quale non poteva non applicarsi il meccanismo di cui all’art. 429 c.p.c. per i crediti di lavoro.
7. Infine, quanto alla mancata sottrazione, dal credito vantato dall’Inail, dell’importo di € 14.332,75, data la sua imputazione giudiziale al periodo di malattia per inabilità temporanea conseguente al sofferto infortunio, si osserva che l’imputazione operata nell’impugnata sentenza rappresenta null’altro che il frutto di una valutazione di merito adeguatamente motivata alla luce dei dati fattuali della vicenda, a fronte della quale la pretesa della ricorrente di voler diversamente imputare tale somma alla rendita per inabilità specifica definitiva, in modo da vederla scomputata dal credito oggetto dell’azione di regresso, rappresenta solo una mera contrapposizione argomentativa, non suffragata nemmeno da elementi sufficienti a far ritenere meritevole di considerazione una tale prospettazione.
7. In definitiva, il ricorso va rigettato.
Le spese di lite seguono la soccombenza della ricorrente e vanno liquidate come da dispositivo. Non va adottata alcuna statuizione in ordine alle spese nei confronti degli altri soggetti rimasti solo intimati.
Ricorrono i presupposti per la condanna della ricorrente al pagamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese nella misura di € 12.200,00, di cui € 12.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
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