CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 02 ottobre 2020, n. 21111
Tributi – Costi riferiti ad operazioni soggettivamente inesistenti – Interposizioni fittizie trilaterali – Deducibilità – Criteri generali – Detraibilità dell’IVA – Accertamento della consapevolezza o meno della frode da parte della ditta cessionaria
Fatti di causa
1. A.M. S.r.l. ricorre, con 8 motivi, per la cassazione della sentenza, indicata in epigrafe, di rigetto dell’appello dalla stessa proposto avverso la sentenza n. 115/07/2009 emessa dalla CTP di Milano che, a sua volta, aveva rigettato l’impugnazione di due avvisi di accertamento IVA, IRPEG ed IRAP, relativi agli esercizi 2003 e 2004 e notificati nel 2008.
2. Per quanto ancora rileva nel presente giudizio, si trattava di avvisi di accertamento, fondanti su notizia di reato, con i quali l’Agenzia delle Entrate («A.E.»), nei confronti della società contribuente esercente attività di commercio di veicoli, recuperò a tassazione importi per accertato maggior reddito d’impresa, a causa di indebita deduzione di costi e detrazione di IVA, in relazione ad operazioni ritenute soggettivamente inesistenti perché relative ad importazioni di (cinque) veicoli per il tramite di una società fittiziamente interposta nell’acquisto dall’effettivo cedente.
3. La CTR ritenne gli atti impositivi congruamente motivati, in quanto tali da porre la contribuente nelle condizioni di conoscere la pretesa tributaria ed i suoi elementi essenziali, emergendo dall’esposizione dei fatti di cui agli avvisi la fattispecie di reato attribuita alla contribuente e dalla stessa indicata nell’atto d’appello.
Quanto alla indeducibilità dei costi, il Giudice di secondo grado ritenne correttamente fondanti gli atti impositivi sull’art. 14, comma 4-bis, della l. 24 dicembre 1993, n. 537, non essendo ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato.
La CTR, infine, rigettò anche la doglianza relativa all’assenza di prova, da parte dell’Amministrazione, dell’inesistenza soggettiva delle fatture e della consapevolezza della situazione illecita da parte della contribuente.
Il Giudice d’appello in particolare, richiamando esplicitamente Cass. sez. 5, 19/01/2010, n. 735, Rv. 611260-01, argomentò dal principio per il quale: «in tema di IVA, è indebita la detrazione d’imposta relativa a fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, anche se la merce sia stata realmente acquistata ed i costi risultino effettivamente sostenuti, non essendo la provenienza della merce stessa da soggetto diverso da quello figurante sulle fatture una circostanza indifferente ai fini dell’IVA: da un lato, infatti, la qualità del venditore può incidere sulla misura dell’aliquota e, per conseguenza, sull’entità dell’imposta legittimamente detraibile dall’acquirente e, dall’altro, il diritto alla detrazione non sorge comunque per il solo fatto dell’avvenuta corresponsione dell’imposta formalmente indicata in fattura, richiedendosi, altresì, l’inerenza all’impresa, requisito mancante in relazione all’IVA corrisposta al soggetto interposto, trattandosi di costo non inerente all’attività istituzionale dell’impresa, in quanto potenziale espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse, tali da rompere il detto nesso di inerenza».
4. Contro la sentenza d’appello la contribuente ricorre con otto motivi mentre l’A.E. si difende con controricorso (prospettando anche profili di inammissibilità di talune censure).
Ragioni della decisione
1. I motivi del ricorso meritano accoglimento ad eccezione del n. 2, che necessita di trattazione prioritaria per ragioni di ordine logico.
2. Con il motivo n. 2 del ricorso, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (nella sua formulazione, ratione temporis applicabile, antecedente alla sostituzione operata con il d.l. 83 del 2012), si deduce il vizio motivazionale (in termini di insufficienza e/o contraddittorietà) con riferimento alla dedotta carenza motivazionale dei provvedimenti impositivi.
2.1. Il motivo è infondato, avendo sul punto la CTR congruamente e non contraddittoriamente esplicitato le ragioni logico-giuridiche e fattuali dal rigetto della doglianza. Essa, difatti, ha ritenuto gli atti impositivi congruamente motivati, in quanto tali da porre la contribuente nelle condizioni di conoscere la pretesa tributaria ed i suoi elementi essenziali, emergendo dall’esposizione dei fatti di cui agli avvisi la fattispecie di reato attribuita alla contribuente e dalla stessa difatti indicata nell’atto d’appello.
3. Con il motivo n. 1 del ricorso, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., si deducono, con riferimento a quanto statuito in merito ai costi ritenuti non deducibili, «violazione o falsa applicazione» dell’art. 14, comma 4-bis, della I. n. 537 del 1993, come sostituito dall’art. 8, comma 1, del d.l. 2 marzo 2012, n. 16. In sostanza la ricorrente evidenzia il detto ius superveniens, rispetto alla stessa sentenza di secondo grado, e ne invoca l’applicazione in quanto nella specie più favorevole.
3.1. Il motivo è fondato nei termini che seguono. Deve, al riguardo, rilevarsi, che il citato art. 8, comma 1, del d.l. n. 16 del 2012 (conv., con modif., dalla I. 26 aprile 2012, n. 44) ha sostituito il comma 4-bis dell’art. 14 della I. n. 537 del 1993 nei seguenti termini: «… nella determinazione dei redditi di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986 n. 917 non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’art. 425 del codice di procedura penale ovvero la sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’articolo 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’articolo 157 del codice penale….».
Tale disposizione normativa ha diretta rilevanza nel presente giudizio, operando quale ius superveniens, che trova applicazione d’ufficio anche in sede di legittimità, in quanto il rapporto tributario controverso (proprio in merito allo specifico rilievo) non è ancora esaurito (ex plurimis, Cass. sez. 5, 30/10/2018, n. 27566, Rv. 651269-02; si veda altresì Cass. sez. 5, 24/07/2018, n. 19617, Rv. 649858-01). Il comma 3 dello stesso art. 8 ha difatti stabilito che le disposizioni di cui al citato comma 1 «si applicano, in luogo di quanto disposto dal comma 4-bis dell’articolo 14 della legge 24 dicembre 1993 n. 537, previgente, anche per fatti, atti o attività posti in essere prima dell’entrata in vigore» dello stesso comma 1, «ove più favorevoli, tenuto conto degli effetti in termini di imposte o maggiori imposte dovute, salvo che i provvedimenti emessi in base al citato comma 4-bis previgente non si siano resi definitivi». In merito, questa Corte ha già rilevato, sulla scorta della relazione al disegno di legge di conversione del d.l. n. 16 del 2012, che la nuova normativa comporta che, poiché nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti, i beni acquistati – di regola – non sono stati utilizzati direttamente per commettere il reato ma, nella maggior parte dei casi, per essere commercializzati, non è più sufficiente il coinvolgimento, anche consapevole, dell’acquirente in operazioni fatturate da soggetto diverso dall’effettivo venditore perché non siano deducibili, ai fini delle imposte dirette, i costi relativi a dette operazioni; ferma restando, tuttavia, la verifica della concreta deducibilità dei costi stessi in relazione ai requisiti generali di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità (ex plurimis: Cass., n. 27566 del 30/10/2018, cit.; Cass., n. 17788 del 06/07/2018; Cass., n. 16528 del 22/06/2018; Cass., n. 25249 del 07/12/2016; Cass., n. 13803 del 18/06/2014; Cass., n. 24426 del 30/10/2013; Cass., n. 12503 del 22/05/13; Cass., n. 10167 del 20/06/12).
3.2. Ne consegue che ai soggetti coinvolti nelle «frodi carosello», oltre che nelle interposizioni fittizie trilaterali come quella di specie, non è più contestabile, alla luce della nuova norma, la deducibilità dei costi, in quanto i beni acquistati non sono stati utilizzati direttamente «al fine di commettere il reato» ma, salva prova contraria, per essere commercializzati e venduti (Cass., n. 27566 del 30/10/2018, cit.).
3.3. Poiché nel caso in esame non è in contestazione l’oggettività delle operazioni commerciali in oggetto, risulta del tutto irrilevante l’accertamento della consapevolezza o meno della frode da parte della ditta cessionaria, anche se rimangono fermi i criteri ordinari, previsti dall’art. 109 del Testo Unico delle imposte dirette, che impongono la verifica della sussistenza dei principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza e deternninabilità dei componenti negativi che possono essere portati in deduzione dal reddito imponibile.
4. Gli altri motivi di ricorso (dal n. 3 al n. 8) sono suscettibili di trattazione congiunta, in ragione della connessione delle questioni inerenti i relativi oggetti.
4.1. Il ricorrente, in particolare, sindaca la statuizione della CTR circa la ritenuta indetraibilità dell’IVA con i motivi nn. 3, 5 e 7, sotto i profili della violazione e falsa applicazione di legge (artt. 2697, 2727, 2728 e 2729 c.c. nonché artt. 19 e 21 del d.P.R. n. 633 del 1972), e, con i motivi nn. 4, 6 e 8, in termini di vizio motivazionale.
4.2. I motivi sono fondati, nei termini che seguono. Come già sintetizzato al punto 3 della precedente ricostruzione dei «fatti di causa», la CTR ha rigettato la doglianza relativa all’assenza di prova, da parte dell’Amministrazione, dell’inesistenza soggettiva delle fatture e della consapevolezza della situazione illecita da parte della contribuente limitandosi a richiamare esplicitamente Cass. sez. 5, 19/01/2010, n. 735, Rv. 611260-01. Essa ha in particolare fatto riferimento al principio per il quale: «in tema di IVA, è indebita la detrazione d’imposta relativa a fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, anche se la merce sia stata realmente acquistata ed i costi risultino effettivamente sostenuti, non essendo la provenienza della merce stessa da soggetto diverso da quello figurante sulle fatture una circostanza indifferente ai fini dell’IVA: da un lato, infatti, la qualità del venditore può incidere sulla misura dell’aliquota e, per conseguenza, sull’entità dell’imposta legittimamente detraibile dall’acquirente e, dall’altro, il diritto alla detrazione non sorge comunque per il solo fatto dell’avvenuta corresponsione dell’imposta formalmente indicata in fattura, richiedendosi, altresì, l’inerenza all’impresa, requisito mancante in relazione all’IVA corrisposta al soggetto interposto, trattandosi di costo non inerente all’attività istituzionale dell’impresa, in quanto potenziale espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse, tali da rompere il detto nesso di inerenza». Statuendo nei termini di cui innanzi, peraltro con motivazione in punto di fatto perlomeno insufficiente, il Giudice di merito non ha però fatto corretta applicazione di consolidato principio statuito in materia da questa Corte, anche alla luce della giurisprudenza unionale. Per esso, difatti: «In tema di IVA, l’Amministrazione finanziaria, se contesta che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi (ex plurimis: Cass. sez. 5, n. 27566 del 2018, cit.; Cass. sez. 5, 30/10/2018, n. 27555, Rv. 651004-01; Cass. sez. 5, 20/04/2018, n. 9851, Rv. 647837-01).
5. In conclusione, tutti i motivi di ricorso, ad eccezione che per il n. 2, meritano accoglimento, nei termini di cui innanzi, con cassazione della sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti, e rinvio alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, che provvederà anche alla regolazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie i motivi nn. 1, 3, 4, 5, 6, 7 e 8 del ricorso, rigettando il solo motivo n. 2, cassa la sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti, e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, che provvederà anche alla regolazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
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