CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 03 agosto 2018, n. 20497
Licenziamento per sopravvenuta idoneità fisica del lavoratore – Obbligo di repechage – Prassi della società di assumere i familiari dei dipendenti che spontaneamente lasciano il posto di lavoro – Rileva – Bilanciamento di opposti interessi costituzionalmente protetti – Conservazione del posto di lavoro e libertà di iniziativa economica – Ricollocazione del dipendente non più fisicamente idoneo non può implicare modifiche delle scelte organizzative
Fatti di causa
1. Con sentenza n. 1750/2015 la Corte di appello di Messina, pronunziando in sede di reclamo, ha confermato la sentenza di primo grado che aveva respinto la opposizione avverso la ordinanza emessa ai sensi dell’art. 1, comma 49, Legge 28/06/2012 n. 92 con la quale era stata accertata la illegittimità del licenziamento intimato a G. D. L. in data 20 marzo 2013 da G. s.p.a. e quest’ultima società condannata alla reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno.
1.1. Il giudice d’appello, per quel che ancora rileva, ha confermato la violazione da parte della società datrice dell’obbligo di “repechage”, violazione desumibile dalla circostanza, in relazione alla quale si palesava inutile l’espletamento della prova orale, che, poco prima dell’intimazione del licenziamento, giustificato con la sopravvenuta incompatibilità dello stato di salute della D. L. – riconosciuta invalida al 100% e portatrice di handicap in situazione di gravità – con le mansioni della qualifica di ausiliaria socio sanitaria, la società aveva proceduto ad assumere altro soggetto in mansioni compatibili con la situazione della dipendente poi licenziata. Secondo la sentenza impugnata il fatto che l’assunzione de qua fosse giustificata dalla prassi della società di assumere i familiari dei dipendenti che spontaneamente lasciavano il posto di lavoro, non poteva che assumere natura recessiva rispetto al diritto della D. L.; né poteva obiettarsi che la madre della nuova assunta non avrebbe reso le proprie dimissioni se non per consentire l’assunzione della figlia in quanto il datore di lavoro, consapevole della necessità di verificare la possibilità di utile ricollocazione lavorativa della D. L., non avrebbe dovuto assumere alcun impegno in tal senso; una volta rese le dimissioni si era, infatti, verificata una scopertura di organico che dava diritto alla dipendente ad essere ricollocata nelle mansioni pacificamente compatibili con il suo stato di salute; infine, la prevalenza riconosciuta al diritto della lavoratrice licenziata non poteva configurarsi quale violazione della libertà imprenditoriale garantita dall’art. 41 Cost.
2. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso G. s.p.a. sulla base di due motivi; la parte intimata ha resistito con tempestivo controricorso.
3. Parte ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 12 delle Preleggi al codice civile in relazione agli artt. 1340 e 2078 cod. civ., dell’art. 41 Cost. e dell’art. 42 d. Igs 09/04/2008 n. 81. Censura la sentenza impugnata per essere stata adottata in violazione del principio secondo il quale gli usi negoziali, ai quali gli usi aziendali sono riconducibili, integrano il contratto in ragione della prevalenza accordata dalla legge alla manifestazione di autonomia privata e possono derogare al diritto dispositivo. Secondo la G. s.p.a., la prassi più favorevole ai lavoratori, quale quella adottata dalla G. s.p.a., di assumere i figli dei dipendenti che spontaneamente lasciavano il posto di lavoro, non poteva recedere di fronte al diritto alla ricollocazione del lavoratore invalido divenuto inidoneo alla propria mansione, tale diritto non configurandosi come assoluto bensì come relativo in quanto condizionato alla effettiva disponibilità di un posto di lavoro compatibile con lo stato di salute del dipendente e con la sua professionalità, secondo la insindacabile discrezionalità e libertà del datore di lavoro, di organizzare la propria attività imprenditoriale, oggetto di copertura costituzionale ai sensi dell’art. 41 Cost. Parte ricorrente denunzia, inoltre, che il giudice di appello non aveva svolto la indispensabile attività istruttoria destinata ad accertare se la posizione lavorativa, con riferimento alla quale era stata ritenuta la violazione dell’obbligo di <<repechage>>, fosse effettivamente compatibile con lo stato di salute della D. L. Si duole, infine, che la verifica della esistenza di posizione di lavoro utili alla ricollocazione lavorativa fosse stata condotta anche con riferimento a posizioni di lavoro già occupate al momento del licenziamento.
2. Con il secondo motivo di ricorso deduce, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 12 delle Preleggi in relazione agli artt. 2118, 1256, 1463 cod. civ. e violazione dell’art. 1362 cod. civ. in relazione all’art. 17 del c.c.n.I. Case di Cura Private – Personale non medico, nonché, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 5, cod. proc. civ., mancata considerazione di un fatto decisivo per il giudizio. Sostiene che, secondo quanto statuito dal giudice di legittimità nella pronunzia espressamente richiamata (Cass. 02/08/2013 n. 18535, in motivazione), in caso di licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore allo svolgimento delle mansioni di adibizione, l’obbligo di <<repechage>> in mansioni diverse o non equivalenti è subordinato alla manifestazione di disponibilità ad accettarle da parte del lavoratore; richiama, inoltre, l’art. 17 c.c.n.I. applicato in tema di necessità di richiesta del dipendente inidoneo ai fini dell’assegnazione a mansioni diverse o non equivalenti a quelle di originaria assegnazione.
3. Il primo motivo di ricorso è fondato in ordine alla censura relativa alla corretta verifica dell’assolvimento dell’obbligo di “repechage”. Si premette che l’assenza in rubrica di formale enunciazione del motivo destinato a veicolare la censura in oggetto, non ne preclude l’esame nel merito. Secondo l’insegnamento di questa Corte, infatti, la indicazione, ai sensi dell’art. 366 n. 4 cod. proc. civ., delle norme che si assumono violate non si pone come requisito autonomo ed imprescindibile ai fini dell’ammissibilità del ricorso per cassazione, ma come elemento richiesto al fine di chiarire il contenuto delle censure formulate e di identificare i limiti della impugnazione; la mancata od erronea indicazione delle disposizioni di legge non comporta, pertanto, l’inammissibilità del motivo ove gli argomenti addotti dal ricorrente, valutati nel loro complesso, consentano di individuare le norme o i principi di diritto che si assumono violati e rendano possibile la delimitazione del “quid disputandum” e purché si faccia valere un vizio della decisione astrattamente idoneo ad inficiare la pronuncia (Cass. 21/01/2013 n. 1370; Cass. 03/08/2012 n. 14026; Cass. n. 04/06/2007 n. 12929).
Nel caso di specie, le argomentazioni in diritto formulate nella illustrazione del primo motivo chiariscono che parte ricorrente ha inteso denunziare, oltre alle violazioni di legge o di contratto collettivo puntualmente riportate in rubrica, anche la non conformità alla previsione legale di cui agli artt. 1 e 3 della Legge 15/07/1966 n. 604 della verifica in ordine alla possibilità di utile ricollocazione lavorativa in mansioni compatibili della dipendente divenuta inidonea all’espletamento di quelle di assegnazione. In particolare si deduce l’errore della Corte di merito per avere condotto la prescritta verifica della effettività dell’esistenza di posizioni lavorative compatibili con lo stato di salute della odierna ricorrente con riferimento ad un epoca, per come pacifico, antecedente all’intimazione del licenziamento.
3.1. Ciò premesso si osserva che l’onere del “repechage” del lavoratore inidoneo alle mansioni di adibizione costituisce principio pacificamente espresso da questa Corte a partire da Cass. Sez. Un. 07/08/1998 n. 7755 che, a composizione dei contrasti esistenti sulla questione, ha affermato che in caso di sopravvenuta infermità permanente del lavoratore, l’impossibilità della prestazione lavorativa, quale giustificato motivo di recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato, non è ravvisabile per effetto della sola ineseguibilità dell’attività attualmente svolta dal prestatore di lavoro; tale impossibilità, infatti, viene meno ove il lavoratore possa essere adibito ad una diversa attività che sia riconducibile – alla stregua di un’interpretazione del contratto secondo buona fede – alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti (art. 2103 cod. civ.) o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori, purché tale diversa attività sia utilizzabile nell’impresa, secondo l’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore. Nell’ottica del bilanciamento di opposti interessi costituzionalmente protetti (artt. 4, 32, 36, 41 Cost.), quale quello connesso alla conservazione del posto di lavoro e quello connesso alla libertà di iniziativa economica, è stato ritenuto non potersi pretendere che il datore di lavoro, per ricollocare il dipendente non più fisicamente idoneo, proceda a modifiche delle scelte organizzative escludendo, da talune posizioni lavorative, le attività incompatibili con le condizioni di salute del lavoratore. Vero è che, nell’ipotesi di licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore, il giustificato motivo oggettivo consiste non soltanto nella fisica inidoneità del lavoratore all’attività attuale, ma anche nell’inesistenza in azienda di altre attività (anche diverse, ed eventualmente inferiori) compatibili con lo stato di salute del lavoratore ed a quest’ultimo attribuibili senza alterare l’organizzazione produttiva, (v., in particolare, oltre Cass. Sez. Un. n. 7755/1998 cit., Cass. 06/12/2017 n. 29250; Cass. 02/07/2009 n. 15500; Cass. 28/10/2008 n. 25883; Cass 22/08/2003 n. 12362 Cass. 15/11/2002 n. 16141; Cass. 05/08/2000 n. 10339). La verifica della esistenza nell’organico aziendale di posizioni adeguate allo stato di salute del dipendente, al fine della corretta applicazione del principio del <<repechage>>, esistenza che costituisce onere della parte datoriale allegare e provare, non può che essere contestuale all’intimazione del licenziamento cioè al momento nel quale il datore di lavoro decide di recedere dal rapporto in ragione della rilevata incompatibilità del dipendente con le mansioni di originaria adibizione.
3.2. Le medesime ragioni per le quali, in base alle esigenze di tutela della libertà di impresa ex art. 41 Cost., la condivisibile giurisprudenza di questa Corte sopra richiamata ha escluso, con riferimento all’onere del << repechage>> del lavoratore in mansioni compatibili, l’obbligo di alterazione dell’organizzazione tecnico produttiva al fine di consentire l’inserimento del lavoratore divenuto inidoneo, escludono, salvo il limite del rispetto della correttezza e buona fede ex art. 1375 cod. civ., l’obbligo per la parte datoriale di prefigurarsi, in un momento antecedente al suo realizzarsi, la possibile, futura, eventuale situazione di incompatibilità e di modulare le proprie scelte tecnico organizzative in funzione di tale ipotesi.
3.3. La sentenza impugnata non ha fatto corretta applicazione di tale principio laddove ha anticipato la prescritta verifica delle posizioni aziendali compatibili con la situazione del lavoratore divenuto inidoneo, ad un periodo notevolmente anteriore a quello della intimazione del licenziamento.
4. A tanto consegue, in accoglimento della censura ora esaminata, assorbito il secondo motivo di ricorso, la cassazione della sentenza impugnata con rinvio ad altro giudice di secondo grado che si indica nella Corte di appello di Messina, in diversa composizione, alla quale è demandato, altresì, il regolamento delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo nei sensi di cui in motivazione, assorbito il secondo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’appello di Messina, in diversa composizione, alla quale è demandato il regolamento delle spese del giudizio di legittimità.
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