CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 03 gennaio 2019, n. 23
Contratto di agenzia – Anticipi provvigionali a titolo di corrispettivi fissi garantiti – Restituzione
Fatti di causa
1. Con sentenza n. 3888/2013, depositata il 26 settembre 2013, la Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza del Tribunale della stessa sede, ha condannato L.B. alla restituzione, a favore di C.C. S.A., della somma di euro 402.143,54 quale differenza tra gli anticipi provvigionali corrisposti all’agente nel corso del rapporto e le provvigioni dal medesimo effettivamente maturate, osservando come non potesse condividersi la tesi, secondo la quale gli anticipi in questione erano stati erogati a titolo di corrispettivi fissi garantiti: tesi che non aveva trovato adeguato riscontro in giudizio, tenuto conto delle prove testimoniali assunte, dell’analisi delle pattuizioni intercorse al riguardo fra le parti e della condotta processuale dell’agente, il quale, convenuto in primo grado, non aveva opposto, alle allegazioni della società, contestazioni specifiche né in tema di an della pretesa restitutoria, né di quantum.
2. Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza il B. con due motivi, cui ha resistito la società con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo viene dedotto: (a) il vizio di cui all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ. in relazione al principio di non contestazione, avendo la Corte di appello esclusivamente fondato su di esso il proprio convincimento, sebbene il giudice di primo grado avesse ammesso ed espletato specifica prova testimoniale sulla natura degli emolumenti versati all’agente e sul titolo della loro erogazione; (b) il vizio di cui all’art. 360 n. 5, per avere la Corte, con motivazione insufficiente, ritenuto che il ricorrente non avesse contestato di dovere le somme richieste sulla base dell’interpretazione del contratto fatta propria dalla società né dedotto l’insussistenza del diritto della stessa ad ottenere la restituzione delle somme erogate nella misura indicata; (c) il vizio di cui all’art. 360 n. 3 in relazione all’art. 2697 cod. civ., per avere la Corte, in presenza di una domanda di ripetizione di indebito, trascurato di valutare che la società, nonostante l’onere a suo carico, non aveva fornito alcuna prova circa l’ammontare effettivo del credito vantato.
2. Con il secondo motivo é dedotto ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ. il vizio di violazione e falsa applicazione dei criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 ss. cod. civ. con riferimento al contratto denominato “Appendice n. 2” al contratto di agenzia, nonché dedotto il vizio ex art. 360 n. 5, per avere la Corte adottato, di tale testo contrattuale, un’interpretazione divergente rispetto al senso letterale delle espressioni usate e carente nell’esame di una sua locuzione.
3. Le censure sub (a) e (b) del primo motivo, da esaminarsi congiuntamente per la loro connessione, sono inammissibili.
4. Premesso, infatti, che il giudice di appello non si è limitato, diversamente da quanto dedotto, a porre alla base del proprio convincimento il principio di non contestazione, ma ha preso in considerazione anche il materiale probatorio documentale e testimoniale, espressamente sottoponendo a rilievo critico la mancata valutazione di esso da parte del giudice di primo grado (cfr. sentenza impugnata, p. 9) e di conseguenza fondando la propria decisione su di un complessivo esame delle risultanze di causa, si osserva che, nelle parti ora in esame, il primo motivo propone una censura di ordine motivazionale, sotto il profilo della “insufficienza”, che non risulta conforme al modello legale del vizio ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ. ratione temporis applicabile, quale risultante – a fronte di sentenza di appello depositata il 26 settembre 2013 – a seguito delle modifiche introdotte con il d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito nella I. 7 agosto 2012, n. 134.
5. Come più volte precisato da questa Corte, l’art. 360 n. 5, come riformulato a seguito di tale intervento legislativo , introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); con la conseguenza che nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6 e 369, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (cfr., fra le pronunce più recenti, Cass. n. 19987/2017; n. 23238/2017; n. 16703/2018).
6. D’altra parte, l’apprezzamento del giudice di merito, che abbia ritenuto pacifica e non contestata una circostanza di causa, ove si ricolleghi ad una valutazione e interpretazione degli atti del processo e del comportamento processuale delle parti, è sindacabile in sede di legittimità soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione (cfr. Cass. n. 1427/2005 e successive conformi).
7. Parimenti inammissibile risulta la censura sub (c) del primo motivo.
8. Nella formulazione di essa il ricorrente non si è invero attenuto al principio, per il quale “in tema di ricorso per cassazione, qualora siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorrente deve, a pena di inammissibilità della censura, non solo allegarne l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito ma, in virtù del principio di autosufficienza, anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente ciò sia avvenuto, giacché i motivi di ricorso devono investire questioni già comprese nel thema decidendum del giudizio di appello, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito né rilevabili di ufficio” (Cass. n. 20694/2018; conforme Cass. n. 15430/2018).
9. Anche il secondo motivo non può trovare accoglimento.
10. Si osserva in proposito che è consolidato il principio di diritto, per il quale “la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 e ss. cod. civ., avendo invece l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra” (Cass. n. 28319/2017; conforme, fra le molte, Cass. n. 16987/2018).
11. In conclusione, il ricorso deve essere respinto.
12. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Respinge il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
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