CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 03 luglio 2018, n. 17363
Ruolo di amministratore delegato – Pagamento degli emolumenti spettanti e risarcimento del danno per la revoca, ante tempus e senza giusta causa, dalla carica – Prescrizione di onerosità delle attività degli amministratori – Norme statutarie e potere dell’assemblea dei soci – Delibere di approvazione dei bilanci – lnterpretazione di clausola statutaria – Sindacabilità, in sede di legittimità, solo per illogicità o difetto di motivazione o violazione dei canoni ermeneutici previsti dal Codice civile per l’interpretazione dei contratti
Rilevato che
La Corte d’Appello di Genova, con sentenza resa pubblica il 18/3/2013 e notificata in data 11/4/2013, in riforma della pronuncia del giudice di prima istanza, rigettava la domanda proposta da M. C. nei confronti del N. L. E.F. s.r.l. con la quale – premesso di aver svolto il ruolo di amministratore delegato della società per il quale non aveva mai percepito alcun compenso – aveva chiesto il pagamento degli emolumenti a lui spettanti per il titolo descritto oltre al risarcimento del danno risentito per la revoca, avvenuta ante tempus e senza giusta causa, della carica rivestita.
La Corte distrettuale a fondamento del decisum argomentava, in estrema sintesi, che le norme statutarie non recavano alcuna prescrizione di onerosità delle attività degli amministratori, rimettendo esclusivamente alla assemblea dei soci il potere di assegnare agli amministratori un compenso ulteriore rispetto ai rimborsi spese comunque spettanti. Escludeva poi, che le delibere di approvazione dei bilanci recanti la voce “compensi per gli amministratori” potessero valere quali equipollenti della delibera dei soci prevista dallo statuto. In ogni caso, rimarcava che la presunzione di onerosità della carica era vinta da plurimi elementi di prova desumibili dal comportamento assunto dal ricorrente, il quale durante l’espletamento del mandato non aveva mai richiesto alcun compenso, circostanza incompatibile con la posizione rivestita, considerato altresì che era in procinto di acquistare la società, sicché la mancata pattuizione del compenso era logico corollario della più ampia operazione in corso fra le parti.
La cassazione di tale pronuncia è domandata da M. C. sulla base di unico motivo, successivamente illustrato da memoria. Resiste con controricorso la società intimata.
Considerato che
1. Con unico motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt.1362 e 2475 c.c. in relazione all’art. 360 comma primo n.3 c.p.c..
Lamenta che la Corte abbia ritenuto di poter affermare la gratuità dell’incarico rivestito dall’amministratore delegato sulla scorta del mero tenore letterale della previsione, che è il primo strumento ermeneutico per ricercare la comune intenzione delle parti, ai sensi della disposizione di cui all’art.1362 c.c.; la natura prioritaria di tale strumento di interpretazione è tuttavia utilmente invocabile allorquando la comune volontà emerga in modo certo ed immediato dalle espressioni adoperate e sia talmente chiara da precludere la ricerca di una volontà diversa, ipotesi questa non verificatasi nel caso in esame, in cui la clausola contrattuale si palesava suscettibile di diverse interpretazioni, sicché la Corte avrebbe dovuto far ricorso ai criteri ermeneutici sussidiari, primo fra tutti quello del comportamento tenuto in esecuzione dello stesso art. 20 dello statuto societario dai soci i quali, quanto meno dall’anno 2006, avevano riconosciuto a tutti gli amministratori muniti di delega un regolare compenso. Discostandosi da tale modus procedendi, i giudici del gravame sarebbero incorsi nella denunciata violazione di legge.
La ricorrente richiama altresì le prescrizioni di cui all’art. 2475 c.c., interpretata dalla dottrina nel senso che l’incarico svolto dagli amministratori si presume a titolo oneroso reputando, anche sotto tale profilo, non conforme a diritto la pronuncia impugnata.
2. L’articolato motivo non è fondato per quanto di seguito esposto.
Occorre premettere, per un ordinato iter motivazionale, che è principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui, in tema di società, l’interpretazione di una clausola statutaria è sindacabile, in sede di giudizio di legittimità, solo per illogicità o difetto di motivazione o violazione dei canoni ermeneutici previsti dal codice civile per l’interpretazione dei contratti (vedi Cass. 4/9/2012 n. 14775).
Invero, l’esegesi dell’atto costitutivo e dello statuto di una società, così come quella di ogni atto contrattuale, richiedendo l’accertamento della volontà degli stipulanti, in relazione al contenuto del negozio, si traduce in un’indagine di fatto affidata in via esclusiva al giudice di merito, ed è pertanto censurabile in sede di legittimità soltanto nel caso in cui la motivazione risulti talmente inadeguata da non consentire di ricostruire l'”iter” logico seguito dal giudice per attribuire all’atto negoziale un determinato contenuto, oppure nel caso di violazione delle norme ermeneutiche (cfr. Cass.13/12/2006 n.26683).
In definitiva, il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sé, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma afferisce solo alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica e della coerenza e logicità della motivazione addotta, con conseguente inammissibilità di ogni critica alla ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati (in tali sensi vedi Cass. 10/2/2015 n.2465).
3. Nella fattispecie qui delibata, l’attività ermeneutica risulta condotta in conformità a canoni di coerente ricostruzione della volontà negoziale. Facendo leva sui dettami della norma statutaria la Corte di merito argomenta in ordine all’assenza di qualsivoglia disposizione che preveda la remunerazione della attività degli amministratori. L’art.20 prevedeva infatti esclusivamente l’erogazione di un rimborso delle spese sostenute per ragioni di ufficio e la facoltà di assegnare al Presidente Onorario e agli amministratori un’indennità annuale in misura fissa, ovvero un compenso proporzionale agli utili netti di esercizio, dando atto che, ove l’Assemblea dei soci lo avesse ritenuto opportuno, sarebbe stato applicabile l’art. 2389.
Nello specifico l’Assemblea dei soci non aveva deliberato negli anni 2009- 2011 alcun compenso in favore degli amministratori, né aveva disposto applicazione della disposizione codicistica invocata.
All’inequivoco tenore delle disposizioni statutarie, aveva fatto riscontro, coerente, la condotta delle parti, essendo dato incontroverso che, all’atto di assunzione della carica di amministratore delegato, così come in precedenza, non era stato pattuito né richiesto dal medesimo ricorrente, alcun compenso. E’ stato poi rimarcato come quest’ultimo avesse esercitato un’opzione di acquisto sulla società Nuovo Lido EI.Fra, cui era seguita la stesura di un contratto preliminare di vendita. Nell’ottica descritta, la mancata pattuizione del compenso si atteggiava quale “logico corollario della più ampia operazione inter partes, posto che i compensi non percepiti quale amministratore, sarebbero comunque a lui confluiti in termini di utili ovvero di minori uscite della società che stava acquistando”.
4. L’accertato correttezza della ratio decidendi basata sul positivo accertamento della volontà delle parti di non riconoscere compensi per l’attività prestata da M. C. rende ininfluente ogni ulteriore discorso sulla ravvisabilità o meno della presunzione di onerosità invocata dal ricorrente. Valga in proposito il costante insegnamento di questa S.C. secondo il quale, ove una decisione di merito, impugnata in sede di legittimità, si fondi su distinte ed autonome rationes decidendi ognuna delle quali sufficiente, da sola, a sorreggerla, affinché possa giungersi alla cassazione della pronuncia è indispensabile, da un lato, che il soccombente censuri tutte le riferite rationes e, dall’altro, che tali censure risultino tutte fondate. Ne consegue che, rigettato o dichiarato inammissibile il motivo che investe una delle argomentazioni addotte a sostegno della sentenza impugnata, risultano poi inammissibili, per difetto di interesse, i restanti motivi, atteso che anche se questi ultimi dovessero risultare fondati, non per questo potrebbe mai giungersi alla cassazione della sentenza impugnata, che rimarrebbe pur sempre ferma sulla base della ratio ritenuta corretta (cfr., per tutte, Cass. 24/05/2006 n. 12372).
5. In definitiva, al lume delle superiori argomentazioni, il ricorso è respinto.
Le spese del presente giudizio seguono il principio della soccombenza, liquidate come da dispositivo.
Essendo stato il presente ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1 quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida euro 200,00 per esborsi ed in euro 7.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115\02, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13.
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