CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 03 luglio 2019, n. 17786
Rapporto di lavoro – Cessione di ramo d’azienda – Trasferimento – Accertamento dell’esistenza del rapporto di lavoro con la datrice cedente
Fatti di causa
Con sentenza 26 novembre 2013, la Corte d’appello di Roma, rigettava l’appello di Telecom Italia s.p.a. avverso la sentenza di primo grado di rigetto della sua opposizione avverso i decreti dello stesso Tribunale di Roma che le ingiungevano il pagamento, in favore di M. P., M. S., R. M., S. A., M. G. e C. B. a titolo di retribuzioni maturate nel periodo successivo all’accertamento di illegittimità del loro trasferimento, nell’ambito della cessione di ramo d’azienda a HP DCS s.r.l. dalla predetta società, con la conseguente condanna della cedente alla loro riammissione in servizio, con sentenze dello stesso Tribunale n. 4793/2007 e n. 5627/2007 (non ancora in giudicato).
A motivo della decisione, la Corte territoriale riteneva il diritto dei lavoratori di agire in via monitoria sulla base delle suddette sentenze, siccome esecutive in quanto recanti l’accertamento di esistenza del loro rapporto di lavoro con la datrice cedente il ramo e l’ordine del suo ripristino.
Essa argomentava quindi dall’ingiustificato rifiuto della società di accettare l’offerta della prestazione dei lavoratori che l’avevano così costituita in mora credendi, ravvisando infine la natura retributiva dei crediti, con la conseguente indetraibilità dell’aliunde perceptum, pari alle somme da ciascuno percepite, a titolo di retribuzione, nel medesimo periodo lavorato alle dipendenze della cessionaria del ramo d’azienda, il cui trasferimento era stato dichiarato illegittimo dalle sentenze citate.
Con atto notificato il 22 maggio 2014, la società datrice ricorreva per cassazione con tre motivi, cui i lavoratori resistevano cori controricorso; entrambe le parti comunicavano memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
M. S. nominava quale proprio ulteriore difensore, con procura speciale autenticata in data 6 giugno, l’avv. M. O..
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo, i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione degli artt. 431, 282 c.p.c., per erroneo assunto dell’idoneità delle sentenze, non ancora in giudicato, del Tribunale di Roma n. 4793/2007 e n. 5627/2007 a costituire titolo idoneo ad ottenere decreto ingiuntivo, siccome aventi natura di accertamento e non di condanna, pertanto insuscettibili di provvisoria esecutorietà.
2. Con il secondo, essi deducono violazione e falsa applicazione degli artt. 1206, 1208, 1217 c.c., per erronea individuazione di una costituzione della società datrice in mora credendi, per effetto dell’offerta da parte dei lavoratori della loro prestazione, in realtà non validamente eseguita, per avere essi lavorato alle dipendenze della società cessionaria, essendone regolarmente retribuiti.
3. Con il terzo, i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione degli artt. 1206, 1207, 1217, 1223 , 1256, 1453, 1463 c.c., per non corretta ricostruzione degli effetti della mora credendi, di natura risarcitoria e non retributiva, come erroneamente assunto dalla Corte territoriale, in assenza del presupposto dell’effettiva prestazione lavorativa, per la natura sinallagmatica del contratto di lavoro e la corrispettività delle prestazioni: con la conseguente applicabilità dell’istituto della compensatio lucri cum damno, in particolare per detrazione di aliunde perceptum, comportante la non spettanza ai lavoratori delle retribuzioni rivendicate.
4. Il primo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione degli artt. 431, 282 c.p.c.per inidoneità delle sentenze, non ancora in giudicato, del Tribunale di Roma n. 4793/2007 e n. 5627/2007 a costituire titolo per decreto ingiuntivo, siccome aventi natura di accertamento e non di condanna, è infondato.
4.1. Secondo consolidato orientamento di questa Corte (recentemente ribadito da: Cass. 25 giugno 2018, n. 16694), prima ancora del passaggio in giudicato, qualsiasi pronuncia giurisdizionale è dotata di propria autorità, dato che la sentenza esplica un’efficacia di accertamento al di fuori del processo. La stabilità della sentenza impugnata, anche se provvisoria, costituisce naturale proprietà dell’atto giurisdizionale, che esprime la volontà della legge nel caso concreto, e con questa l’esigenza di una sua immediata, anche se provvisoria, attuazione, nell’attesa del formarsi del giudicato e indipendentemente da questo (Cass. 26 luglio 2004, n. 14060). Quanto al rapporto tra i procedimenti di accertamento del diritto e del quantum conseguente, se pur pendenti contemporaneamente davanti a due giudici diversi, in gradi differenti, già è stato affermato che sussiste solo un rapporto di pregiudizialità in senso logico, e non anche in senso tecnico-giuridico, sicché non ricorre un’ipotesi di sospensione necessaria, ai sensi dell’art. 295 c.p.c., essendo eventualmente applicabile l’art. 337, secondo comma c.p.c., che, in caso di impugnazione di una sentenza la cui autorità sia stata invocata in un separato processo, ne prevede soltanto la possibilità della sospensione facoltativa, con esclusione del rischio di un conflitto di giudicati in quanto, a norma dell’art. 336, secondo comma c.p.c., la riforma o la cassazione della sentenza sull’an debeatur determina l’automatica caducazione di quella sul quantum (Cass. 21 febbraio 2017, n. 4442).
4.2. La Corte territoriale ha applicato i suenunciati principi di diritto, sia pure con estrema concisione (in particolare al primo periodo di pg. 3 della sentenza).
5. Il secondo e il terzo motivo (relativi a violazione e falsa applicazione delle norme suindicate per erronea individuazione di costituzione della società datrice in mora credendi per offerta dai lavoratori della prestazione non validamente eseguita, in ogni caso comportante effetti di natura risarcitoria e non retributiva, con la conseguente detraibilità dell’aliunde perceptum alla stregua di compensano lucri cum damno, possono essere congiuntamente esaminati, in quanto strettamente connessi.
5.1. Anch’essi sono infondati.
5.2. Le questioni devolute a questa Corte riguardano: a) la natura, se retributiva ovvero risarcitoria, dei crediti che i lavoratori hanno ingiunto in pagamento a Telecom Italia s.p.a. a titolo di emolumenti loro dovuti per effetto del mancato ripristino del rapporto da parte della società predetta, nonostante l’emissione di un tale ordine del Tribunale con la sentenza di accertamento della illegittimità della cessione del ramo d’azienda (cui essi erano addetti) a HP DCS s.r.l., con decorrenza dalla messa in mora operata dai lavoratori medesimi; b) la detraibilità o meno, una volta tanto accertato, di quanto percepito dai lavoratori a titolo di retribuzione per l’attività prestata alle dipendenze della predetta società, già cessionaria del ramo d’azienda. 6. La prima questione trova soluzione nel senso della natura retributiva e non più risarcitoria (come invece secondo un indirizzo precedente: Cass. 17 luglio 2008 n. 19740; Cass. 9 settembre 2014 n. 18955; Cass. 25 giugno 2018, n. 16694) sulla scorta dell’insegnamento posto recentemente dalle Sezioni unite civili di questa Corte (sent. 7 febbraio 2018, n. 2990).
6.1. Come noto, detta pronuncia ha sancito il seguente testuale principio di diritto:
“in tema di interposizione di manodopera, ove ne venga accertata l’illegittimità e dichiarata l’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, l’omesso ripristino del rapporto di lavoro ad opera del committente determina l’obbligo di quest’ultimo di corrispondere le retribuzioni, … , a decorrere dalla messa in mora“.
A tale indirizzo è stato riconosciuto valore di diritto vivente sopravvenuto dalla Corte costituzionale con la sentenza 28 febbraio 2019, n. 29, anche avuto riguardo alla fattispecie della cessione del ramo d’azienda. Infatti la Corte d’Appello di Roma, sezione lavoro, con ordinanza di rimessione del 2 ottobre 2017, aveva sollevato questione di legittimità costituzionale del “combinato disposto” degli artt. 1206, 1207 e 1217 c.c., in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU, censurando le citate disposizioni sulla mora del creditore, sul presupposto che limitassero la tutela del lavoratore ceduto – secondo l’interpretazione giurisprudenziale all’epoca accreditata – al risarcimento del danno, anche dopo la sentenza che avesse accertato l’illegittimità o l’inefficacia del trasferimento d’azienda. La Corte costituzionale ha preso atto (al p.to 6.3. del Considerato in diritto) “che l’indirizzo interpretativo, indicato come diritto vivente allorché sono state proposte le questioni di legittimità costituzionale, risulta disatteso dalla suddetta pronuncia delle Sezioni unite, successiva all’ordinanza di rimessione. Tale pronuncia mira a ricondurre a razionalità e coerenza il tormentato capitolo della mora del creditore nel rapporto di lavoro e consente di risolvere in via interpretativa i dubbi di costituzionalità prospettati”. Dalla “qualificazione retributiva dell’obbligazione del datore di lavoro moroso” il Giudice delle leggi ha tratto la conseguenza di “privare di fondamento, …, le questioni di legittimità costituzionale insorte sulla base di un’interpretazione di segno antitetico”, spettando “alla Corte rimettente rivalutare la questione interpretativa dibattuta nel giudizio principale, che investe il diritto del lavoratore ceduto, già retribuito dal cessionario> di rivendicare la retribuzione anche nei confronti del cedente”.
7. Da tali esiti interpretativi, costituenti premesse che il Collegio non intende rimettere in discussione, occorre necessariamente muovere per la soluzione della seconda questione devoluta a questa Corte. Ovvero se dalle retribuzioni spettanti al lavoratore dal datore di lavoro, che abbia operato un trasferimento di (ramo di) azienda dichiarato illegittimo e che abbia rifiutato il ripristino del rapporto senza una giustificazione, sia detraibile quanto il lavoratore medesimo nello stesso periodo abbia percepito, pure a titolo di retribuzione, per l’attività prestata alle dipendenze dell’imprenditore già cessionario, ma non più tale, una volta dichiarata giudizialmente la non opponibilità della cessione al dipendente ceduto. Infatti, una volta escluso che la richiesta di pagamento del lavoratore abbia titolo risarcitorio, non trova applicazione il principio della compensano lucri cum damno su cui si fonda la detraibilità dell’aliunde perceptum dal risarcimento.
Si tratta di questione che impegna evidentemente l’esercizio della funzione nomofilattica di questa Corte, a norma dell’art. 375, ult. comma c.p.c., come anche richiamato dall’art. 380bis, ult. comma, c.p.c.
7.1. La sua soluzione richiede un’attenta disamina degli effetti realizzati dalla suddetta qualificazione di retribuzione di quanto spettante al lavoratore dal proprio originario datore di lavoro sul corrispettivo ricevuto per l’attività prestata dal soggetto alle dipendenze del quale, pure avendo offerto la propria prestazione al primo, abbia tuttavia continuato a lavorare. E ciò anche per dare conto di un’istintiva perplessità, in realtà frutto di un’equivoca suggestione, in ordine ad una presunta duplicazione indebita di retribuzione a fronte di un’unica attività prestata dal lavoratore, che così conseguirebbe una locupletazione non dovuta.
7.2. Giova allora chiarire subito come soltanto un legittimo trasferimento d’azienda comporti la continuità di un rapporto di lavoro che resta unico ed immutato, nei suoi elementi oggettivi, esclusivamente nella misura in cui ricorrano i presupposti di cui all’art. 2112 c.c. che, in deroga all’art. 1406 c.c., consente la sostituzione del contraente senza consenso del ceduto. Ed è evidente che l’unicità del rapporto venga meno, qualora, come appunto nel caso di specie, il trasferimento sia dichiarato invalido, stante l’instaurazione di un diverso e nuovo rapporto di lavoro con il soggetto (già, e non più, cessionario) alle cui dipendenze il lavoratore “continui” di fatto a lavorare.
D’altro canto, è insegnamento consolidato nella giurisprudenza di legittimità che l’unicità del rapporto presupponga la legittimità della vicenda traslativa regolata dall’art. 2112 c.c. Sicché, accertatane l’invalidità, il rapporto con il destinatario della cessione è instaurato in via di mero fatto, tanto che le vicende risolutive dello stesso non sono idonee ad incidere sul rapporto giuridico ancora in essere, rimasto in vita con il cedente (sebbene quiescente per l’illegittima cessione fino alla declaratoria giudiziale). In sintesi, il trasferimento del medesimo rapporto si determina solo quando si perfeziona una fattispecie traslativa conforme al modello legale; diversamente, nel caso di invalidità della cessione (per mancanza dei requisiti richiesti dall’art. 2112 c.c.) e di inconfigurabilità di una cessione negoziale (per mancanza del consenso della parte ceduta quale elemento costitutivo della cessione), quel rapporto di lavoro non si trasferisce e resta nella titolarità dell’originario cedente (cfr. da ultimo: Cass. 28 febbraio 2019, n. 5998; in senso conforme, tra le altre: Cass. 18 febbraio 2014, n. 13485; Cass. 7 settembre 2016, n. 17736; Cass. 30 gennaio 2018, n. 2281, le quali hanno pure ribadito il consolidato orientamento circa l’interesse ad agire del lavoratore ceduto nonostante la prestazione di lavoro resa in favore del cessionario).
7.3. Si potrebbe però obiettare come, a fronte di una duplicità di rapporti (uno, de iure, ripristinato nei confronti dell’originario datore di lavoro, tenuto alla corresponsione delle retribuzioni maturate dalla costituzione in mora del lavoratore; l’altro, di fatto, nei confronti del soggetto, già cessionario, effettivo utilizzatore della prestazione lavorativa), questa resti (apparentemente) unica.
In proposito occorre invece osservare come, accanto ad una prestazione materialmente resa in favore del soggetto con il quale il lavoratore, illegittimamente trasferito con la cessione di ramo d’azienda, abbia instaurato un rapporto di lavoro di fatto, ve ne sia un’altra giuridicamente resa in favore dell’originario datore, con il quale il rapporto di lavoro è stato de iure (anche se non de facto, per rifiuto ingiustificato del predetto) ripristinato, non meno rilevante sul piano del diritto.
Ed infatti, al dipendente la retribuzione spetta tanto se la prestazione di lavoro sia effettivamente eseguita, sia se il datore di lavoro versi in una situazione di mora accipiendi nei suoi confronti (Cass. 23 novembre 2006, n. 24886; Cass. 23 luglio 2008, n. 20316). Una volta offerta la prestazione lavorativa al datore di lavoro giudizialmente dichiarato tale, il rifiuto di questi rende giuridicamente equiparabile la messa a disposizione delle energie lavorative del dipendente alla utilizzazione effettiva, con la conseguenza che il datore di lavoro ha l’obbligo di pagare la controprestazione retributiva. Non si dubita, ad esempio, che in base agli artt. 1218 e 1256 c.c. la “sospensione unilaterale” del rapporto da parte del datore di lavoro sia giustificata ed esoneri il medesimo datore dall’obbligazione retributiva solo quando non sia imputabile a fatto dello stesso (Cass. 22 ottobre 1999, n. 11916; Cass. 10 aprile 2002, n. 5101; Cass. 16 aprile 2004, n. 7300; Cass. 9 agosto 2004, n. 15372).
A tale proposito vale la pena rammentare pure il tradizionale orientamento (formatosi antecedentemente alla modifica dell’art. 18 I. 300/1970 con la l. 108/1990) secondo il quale la pronuncia che dichiarava l’illegittimità del licenziamento e ordinava la reintegrazione nel posto di lavoro faceva insorgere l’obbligo del datore, che non ottemperasse a tale ordine, di corrispondere la retribuzione dovuta, in ragione della riaffermata vigenza della ex contractus e della ininterrotta continuità del rapporto di lavoro, con la correlativa equiparazione, alla effettiva utilizzazione delle energie lavorative del dipendente, della mera utilizzabilità di esse, in relazione alla disponibilità del lavoratore a riprendere servizio (Cass. S.U. 13 aprile 1988, n. 2925).
7.4. La conseguenza che si è tratta è pure coerente con il diritto generale delle obbligazioni, che, non a caso, ha collocato, nel capo (II del Titolo I del libro IV) “Dell’adempimento delle obbligazioni” , la disciplina della mora del creditore (sezione III). Per comprensibili ragioni di diversa coercibilità, essa differenzia le obbligazioni aventi ad oggetto prestazioni fungibili da quelle relative a prestazioni infungibili (cui evidentemente appartengono quelle inerenti la prestazione di lavoro).
Sicché, per le prime la costituzione in mora credendi (e la conseguente offerta di restituzione) vale unicamente a stabilire il momento di decorrenza degli effetti della mora, specificamente indicati dall’art. 1207 c.c., ma non anche a determinare la liberazione del debitore, che la legge subordina (art. 1210 c.c.) all’esecuzione del deposito accettato dal creditore o dichiarato valido con sentenza passata in giudicato (Cass. 29 aprile 2014, n. 8711). Per le seconde, dovendo l’adempimento della prestazione di fare essere preceduto da atti preparatori, la cui esecuzione richiede la collaborazione del creditore, basta invece che il debitore, che intenda conseguire la liberazione dal vincolo, costituisca il primo in mora mediante l’intimazione prevista dall’art. 1217 c.c.: integrando insindacabile valutazione di merito l’accertamento della necessità della collaborazione del creditore, affinché il debitore possa adempiere la propria obbligazione di fare (Cass. 12 luglio 1968, n. 2474).
Dai principi di diritto suenunciati discende allora, siccome coerente precipitato logicogiuridico, che, mediante l’intimazione del lavoratore all’impresa cedente di ricevere la prestazione con modalità valida ai fini della costituzione in mora credendi del medesimo datore (il quale la rifiuti senza giustificazione), il debitore del tacere infungibile abbia posto in essere quanto è necessario, secondo il diritto comune, per far nascere il suo diritto alla controprestazione del pagamento della retribuzione, equiparandosi la prestazione rifiutata alla prestazione effettivamente resa per tutto il tempo in cui il creditore l’abbia resa impossibile non compiendo gli atti di cooperazione necessari.
Sicché da quel momento l’attività lavorativa subordinata resa in favore del non più cessionario equivale a quella che il lavoratore, bisognoso di occupazione, renda in favore di qualsiasi altro soggetto terzo: così come la retribuzione corrisposta da ogni altro datore di lavoro presso il quale il lavoratore impiegasse le sue energie lavorative si andrebbe a cumulare con quella dovuta dall’azienda cedente, parimenti anche quella corrisposta da chi non è più da considerare cessionario, e che compensa un’attività resa nell’interesse e nell’organizzazione di questi, non va detratta dall’importo della retribuzione cui il cedente è obbligato.
Né tale prestazione lavorativa in fatto resa per un terzo esclude una valida offerta di prestazione all’originario datore (Cass. 8 aprile 2019, n. 9747), considerato che, una volta che l’impresa cedente, costituita in mora, manifestasse la volontà di accettare la prestazione, il lavoratore potrebbe scegliere di rendere la prestazione non più soltanto giuridicamente, ma anche effettivamente, in favore di essa e, ove ciò non facesse, verrebbero automaticamente meno gli effetti della mora credendi.
8. Acclarato che dopo la sentenza che ha dichiarato insussistenti i presupposti per il trasferimento del ramo d’azienda, in uno alla messa in mora operata del lavoratore, vi è l’obbligo dell’impresa (già) cedente di pagare la retribuzione e non di risarcire un danno, non vi è norma di diritto positivo che consenta di ritenere che tale obbligazione pecuniaria possa considerarsi, in tutto o in parte, estinta per il pagamento della retribuzione da parte dell’impresa originaria destinataria della cessione.
8.1. Invero la più approfondita disamina giuridica qui svolta induce al superamento di un primo orientamento di ritenuta detraibilità, dal credito retributivo spettante al lavoratore validamente offerente all’originario datore la propria prestazione ingiustificatamente rifiutata, della retribuzione percepita dal datore (già cessionario), sul presupposto dell’unicità di prestazione lavorativa e di obbligazione, con la qualificazione del relativo pagamento alla stregua di un adempimento del terzo, a norma dell’art. 1180 c.c. (Cass., sez. VI, 31 maggio 2018, n. 14019; Cass., sez. VI, 1 giugno 2018, n. 14136: p.to 6 in motivazione).
Già si sono illustrate le ragioni di un’effettiva duplicità dei rapporti in essere: il nuovo datore di lavoro (già cessionario nel trasferimento dichiarato illegittimo) è l’utilizzatore effettivo (e non meramente apparente come nelle fattispecie, di certo differenti, di interposizione nelle prestazioni di lavoro) dell’attività del lavoratore cui in via corrispettiva corrisponde la retribuzione dovuta e così adempie ad un’obbligazione propria, non sicuramente estinguendo un debito altrui (come nel caso di interposizioni fittizie: Cass. 3 settembre 2015, n. 17516; Cass. 31 luglio 2017, n. 19030). Sicché l’esistenza di un debito proprio, generato dall’obbligo di retribuire le prestazioni del lavoratore ceduto di cui ha concretamente fruito, esclude in radice la possibilità di configurare un adempimento in qualità di terzo da parte del destinatario dell’originaria cessione; in relazione all’adempimento del terzo ex art. 1180 c.c., infatti, si è ritenuto che deve mancare nello schema causale tipico la controprestazione in favore di chi adempie, pagando il terzo per definizione un debito non proprio e non prevedendo la struttura del negozio alcuna attribuzione patrimoniale a suo favore (Cass. s.u. 18 marzo 2010, n. 6538; Cass. 7 marzo 2016, n. 4454; Cass. 6 ottobre 2017, n. 23439), mentre nella specie il non più cessionario compensa un’attività lavorativa direttamente resa a vantaggio dell’impresa di cui è titolare.
8.2. Parimenti non sono applicabili le disposizioni contenute nel d. Igs. n. 276 del 2003 laddove all’art. 27, secondo comma (previsto in materia di somministrazione irregolare ma richiamato anche dall’art. 29, comma 3bis, in tema di appalto illecito) stabilisce che “tutti i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale, valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal debito corrispondente fino a concorrenza della somma effettivamente pagata”.
Il meccanismo che consente l’incidenza liberatoria degli adempimenti comunque posti in essere dal somministratore o dall’appaltatore è stato richiamato dalla sentenza n. 2990 del 2018 delle Sezioni unite limitatamente ai “pagamenti effettuati a vantaggio del soggetto che ha utilizzato effettivamente la prestazione” (Cass. 31 ottobre 2018, n. 27976).
Il testo delle disposizioni, che espressamente si riferisce alle fattispecie della somministrazione e dell’appalto, non ne consente l’applicazione diretta alla diversa ipotesi del trasferimento d’azienda.
Il dato testuale che connette l’effetto liberatorio del pagamento esclusivamente in favore del soggetto che “ha effettivamente utilizzato la prestazione” esclude altresì ogni interpretazione estensiva (men che meno analogica) che consenta l’applicazione al caso della cessione di ramo d’azienda, ove l’impresa cedente, che dovrebbe beneficiare del pagamento altrui, non utilizza affatto la prestazione del lavoratore ceduto. E’ che i fenomeni interpositori rappresentati dalla somministrazione irregolare o dall’appalto illecito risultano strutturalmente incomparabili con le cessioni di ramo d’azienda dichiarate illegittime nei confronti del lavoratore ceduto. Nel primo caso il soggetto che ha utilizzato le prestazioni è il datore di lavoro reale al quale è imputabile la titolarità dell’unico rapporto, mentre nel secondo caso l’impresa cedente non è il soggetto che utilizza la prestazione, invece effettuata a vantaggio di una diversa organizzazione d’impresa che diventa titolare di un altro rapporto e che paga un debito proprio.
9. La conclusione raggiunta è coerente con l’interpretazione costituzionalmente orientata propugnata dalla sentenza della Corte cost. 11 novembre 2011, n. 303, posta a fondamento del révirement giurisprudenziale operato da Cass. S.U. n. 2990/18 cit.. La Consulta, scrutinando la legittimità costituzionale dell’art. 32, quinto, sesto e settimo comma I. 183/2010, ha tra l’altro affermato: “il danno forfettizzato dall’indennità in esame copre soltanto il periodo cosiddetto “intermedio”, quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto”; sicché, “a partire dalla sentenza con cui il giudice, rilevato il vizio della pattuizione del termine, converte il contratto di lavoro che prevedeva una scadenza in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, è da ritenere che il datore di lavoro sia indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva. Diversamente opinando, la tutela fondamentale della conversione del rapporto in lavoro a tempo indeterminato sarebbe completamente svuotata. Se, infatti, il datore di lavoro, anche dopo l’accertamento giudiziale del rapporto a tempo indeterminato, potesse limitarsi al versamento di una somma compresa tra 2,5 e 12 mensilità di retribuzione, non subirebbe alcun deterrente idoneo ad indurlo a riprendere il prestatore a lavorare con sé. E lo stesso riconoscimento della durata indeterminata del rapporto da parte del giudice sarebbe posto nel nulla. ” (sub 3.3 del Considerato in diritto).
E questa interpretazione, che fa perno sull’esigenza di effettività della giurisdizione come valore costituzionalmente tutelato, è con altrettanto vigore ribadita dalla sentenza di questa Corte a sezioni unite n. 2990/2018 più volte citata, che ha trovato autorevole conferma nella Corte costituzionale che, con la sentenza n. 29 del 2019, in proposito ha affermato: “Secondo le Sezioni unite, una prospettiva costituzionalmente orientata impone di rimeditare la regola della corrispettività nell’ipotesi di un rifiuto illegittimo del datore di lavoro di ricevere la prestazione lavorativa regolarmente offerta. Il riconoscimento di una tutela esclusivamente risarcitoria diminuirebbe, difatti, l’efficacia dei rimedi che l’ordinamento appresta per il lavoratore. Sul datore di lavoro che persista nel rifiuto di ricevere la prestazione lavorativa, ritualmente offerta dopo l’accertamento giudiziale che ha ripristinato il vinculum iuris, continua dunque a gravare l’obbligo di corrispondere la retribuzione.
Nella ricostruzione delle Sezioni unite la disciplina del licenziamento illegittimo, che ascrive all’area del risarcimento del danno le indennità dovute dal datore di lavoro, si configura in termini derogatori e peculiari. Acquistano per contro valenza generale le affermazioni contenute nella sentenza n. 303 del 2011 di questa Corte, relative alle conseguenze dell’illegittima apposizione del termine (art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n. 183 … ). Infatti, come precisato nella suddetta pronuncia, per effetto della sentenza che rileva il vizio della pattuizione del termine e instaura un contratto a tempo indeterminato, il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al lavoratore, «in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in caso di mancata riammissione effettiva» (sentenza n. 303 del 2011, punto 3.3.1. del Considerato in / diritto). Da tali principi le Sezioni unite evincono, con portata tendenzialmente generale, l’obbligo del datore di lavoro moroso di corrispondere le retribuzioni al lavoratore che non sia stato riammesso in servizio, neppure dopo la pronuncia del giudice che abbia ripristinato la vigenza dell’originario rapporto di lavoro. In questa prospettiva, riveste un ruolo primario l’accertamento del giudice, che ristabilisce la lex contractus, accertamento che non può essere sminuito nella sua forza cogente dal protrarsi dell’inosservanza” (sub 5 del Considerato in diritto).
Al termine del percorso argomentativo svolto, si comprende allora come la soluzione della questione devoluta sia l’inevitabile approdo di un coerente percorso logicogiuridico di effettività del dictum giurisdizionale, nella sua soggezione esclusivamente alla legge (art. 101, secondo comma Cost.), che non ammette svuotamenti di tutela per la mancanza di ogni deterrente idoneo ad indurre il datore di lavoro a riprendere il prestatore a lavorare ovvero affievolimenti della forza cogente della pronuncia giudiziale che risulterebbe in concreto priva di efficacia per il protrarsi dell’inosservanza senza reali conseguenze. Ciò senza avallare alcuna indebita duplicazione di retribuzione, né tanto meno veicolare strumenti di coercizione indiretta (neppure applicandosi, per espressa previsione, alle controversie di lavoro subordinato pubblico e privato ed ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, regolati dall’art. 409 c.p.c., l’art. 614 bis c.p.c., come novellato dall’art. 13 d.l. 83/2015, conv. con modif. dalla I. 132/2005, che ne ha mutato la rubrica originaria con quella di “Misure di coercizione indiretta”, ampliandone l’ambito applicativo, ricomprendendovi oltre agli obblighi di fare infungibile, anche gli obblighi di fare, non fare e di dare, diversi dal pagamento di somme di denaro) finalizzati ad una tutela satisfattoria a fronte di un esercizio improprio delle prerogative datoriali.
10. Conclusivamente deve essere affermato il seguente principio di diritto:
“In caso di cessione di ramo d’azienda, ove su domanda del lavoratore ceduto venga giudizialmente accertato che non ricorrono i presupposti di cui all’art. 2112 c.c., le retribuzioni in seguito corrisposte dal destinatario della cessione, che abbia utilizzato la prestazione del lavoratore successivamente alla messa a disposizione di questi delle energie lavorative in favore dell’alienante, non producono un effetto estintivo, in tutto o in parte, dell’obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione lavorativa”.
6. Dalle superiori argomentazioni discende il rigetto del ricorso con la compensazione tra le parti delle spese del giudizio per la rivisitazione dell’indirizzo giurisprudenziale sulla questione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e dichiara compensate le spese del giudizio tra le parti.
Ai sensi dell’art. 13 comma l quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.