CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 03 maggio 2019, n. 11631
Tributi – Dazi doganali – Applicazione di aliquota ridotta riconosciuta ad una società produttrice cinese – Certificati di origine falsi – Relazione dell’OLAF, suffragata da prove supplementari fornite dall’autorità doganale – Esclusione del legittimo affidamento dell’importatore – Imputabilità dei maggiori diritti doganali dovuti
Fatti di causa
Emerge dalla sentenza impugnata che, in esito all’adozione di misure istitutive di dazi antidumping per le importazioni di lampade fluorescenti compatte integrali CFL-i a basso consumo energetico, e al conseguente sensibile aumento di importazioni di esse non soggette all’imposizione di questi dazi, furono promosse diverse missioni dell’OLAF, allo scopo di accertare la reale origine delle lampade in questione.
Risultò in particolare dalla missione dell’OLAF in Tunisia che il controllo svolto nei confronti della s.r.l. P. Italia in relazione alle importazioni negli anni 2007 e 2008 aveva evidenziato l’effettiva origine cinese delle lampade, in luogo della tunisina dichiarata; laddove, quanto a quelle dichiarate di origine cinese, aveva evidenziato la scorretta applicazione dell’aliquota ridotta del dazio antidumping.
In effetti, con riguardo alla dichiarazione doganale IM Z n. 10485/P del 25 marzo 2008, presentata alla Dogana di Livorno dalla s.r.l. CAD Servizi doganali per conto della P., i risultati della missione dell’Olaf, suffragati dagli esiti degli accertamenti dei funzionari doganali, avevano evidenziato, si legge in sentenza, che la merce era stata fabbricata da società cinesi diverse dalla Sanex Electronics Co. Ltd, alla quale il regolamento CE n. 1470/01 ha riconosciuto l’applicazione di un’aliquota agevolata del dazio antidumping. Sicché l’indicazione nel certificato FORM A che corredava le merci della produzione di esse da parte della Sanex era da ritenere falsa.
Ne seguì l’emanazione di numerosi avvisi di rettifica per il recupero dei maggiori diritti doganali dovuti, tra i quali quello dall’impugnazione del quale è scaturito l’odierno giudizio.
La Commissione tributaria provinciale di Livorno ha accolto il ricorso proposto dalla CAD e quella regionale ha rigettato il successivo appello proposto dall’Agenzia.
Ad avviso del giudice d’appello per un verso l’irregolarità del certificato FORM A andava verificata mediante la procedura di cooperazione regolata dall’art. 94 del regolamento n. 2454/93; per altro verso, l’Ufficio non ha provato l’imputabilità dell’affermata irregolarità del certificato a fatto dell’esportatore. Per conseguenza, ha concluso, emerge la buona fede della società contribuente, rimasta estranea ai fatti addotti dall’Agenzia a fondamento del recupero.
Contro questa sentenza propone ricorso l’Agenzia delle dogane per ottenerne la cassazione, che affida a due motivi, cui la contribuente reagisce con controricorso.
Ragioni della decisione
1. – Va preliminarmente respinta l’eccezione d’inammissibilità del ricorso, in quanto, contrariamente a quanto sostenuto dalla contribuente, l’Agenzia ha preso le mosse giustappunto dalla ricostruzione dei fatti operata in sentenza per affermare l’erroneità della soluzione giuridica applicata.
2. – Parimenti infondata è l’eccezione di acquiescenza tacita proposta dalla società, in base alla considerazione che la ricorrente non avrebbe impugnato la statuizione contenuta in sentenza in base alla quale la mancata attivazione della procedura di verifica prevista dall’art. 94 del regolamento n. 2454/93 è stata rilevante per la distribuzione del carico probatorio ai fini dell’eccezione di buona fede.
Ciò perché, perché si possa configurare giudicato interno per acquiescenza, occorre che l’omessa impugnazione riguardi una «minima unità suscettibile di acquisire la stabilità del giudicato interno», ossia la statuizione che affermi l’esistenza di un fatto sussumibile sotto una norma che a esso ricolleghi un dato effetto giuridico (in termini, fra varie, Cass., ordd. 8 ottobre 2018, n. 24783 e 16 maggio 2017, n. 12202); sicché l’impugnazione motivata anche in ordine a uno dei profili di applicazione dell’art. 94 del regolamento n. 2454/93, ai fini dell’affermazione della legittimità dell’azione di recupero dei maggiori diritti doganali, è idonea a riaprire, com’è accaduto nel caso in esame, la cognizione sull’intera statuizione.
3. – Col primo motivo di ricorso, l’Agenzia delle dogane lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 26, 80, 81, 84, 85, 94 del regolamento CEE della Commissione 2 luglio 1993 n. 2454/93 (nel testo modificato dal regolamento n. 1602/2000), e degli artt. 2699 e 2700 c.c., là dove il giudice d’appello ha affermato l’ineludibilità della procedura di verifica stabilita dall’art. 94 del regolamento n. 2454/93 per poter affermare la falsità del certificato FORM A quanto all’indicazione della società produttrice delle lampade importate per conto della P. dalla s.r.l. CAD.
Il motivo è fondato.
3.1. – Va premesso che la riduzione daziaria invocata dalla contribuente è riconosciuta dall’art. 2, 1° co., del regolamento CE del Consiglio 16 luglio 2001, n. 1470/2001 ed è qualificata dal considerando 53 del regolamento come trattamento individuale, giacché, vi si legge, <<Queste aliquote (a differenza del dazio istituito per il paese, applicabile a “tutte le altre società”) sono applicabili esclusivamente alle importazioni di prodotti originari del paese interessato e fabbricati dalle società in questione e precisamente dalle specifiche persone giuridiche menzionate. I prodotti importati fabbricati da qualsiasi altra società non specificamente menzionata con indicazione della ragione sociale e della sede nel disposto del presente regolamento, comprese le società collegate a quelle specificamente menzionate, non possono beneficiare delle aliquote in questione e sono soggetti all’aliquota dei dazio applicabile a “tutte le altre società “>>.
3.2. – Benché, dunque, le riduzioni in questione non rientrino nel novero della “preferenze generalizzate”, ossia <<delle disposizioni relative alle preferenze tariffarie concesse dalla Comunità per taluni prodotti originari di paesi in via di sviluppo (in appresso denominati «paesi beneficiari» (art. 67 del regolamento n. 2454/93), occorre pur sempre che il presupposto al quale è ancorata la riduzione sia documentato; sicché al cospetto di un certificato inesatto le autorità doganali devono procedere alla contabilizzazione a posteriori dei dazi dovuti e non riscossi (da ultimo, in generale, Cass., ord. 8 febbraio 2019, n. 3739).
3.3. – In questo contesto la sentenza impugnata si muove logicamente su tre piani, sia pure frammisti:
-il primo, concernente la falsità del certificato che correda le lampade quanto all’indicazione della società produttrice delle lampade fluorescenti;
-il secondo, relativo all’imputabilità della falsità alle dichiarazioni dell’esportatore;
-il terzo, riguardante la ripartizione dei carichi probatori in ordine a tale imputabilità, col conseguente riverbero sulla sussistenza della buona fede dell’importatore.
4. – Quanto al primo profilo, il giudice d’appello non dubita che il certificato fosse effettivamente falso quanto all’indicazione della società produttrice. Chiara espressione di questa convinzione è la puntigliosa ricostruzione delle indagini che hanno preceduto l’accertamento e degli esiti della missione dell’Olaf in Tunisia.
Questo convincimento è poggiato sull’inequivocabile risultato degli accertamenti svolti: si legge difatti in sentenza che <<…per le spedizioni dirette dalla Cina, è stata riscontrata l’elusione del dazio antidumping in termini di scorretta applicazione dell’aliquota ridotta riconosciuta alla società produttrice cinese SANEX ELECTRONICS Co.LTD>>.
Sicché non è emerso alcun presupposto perché l’autorità doganale assumesse iniziative idonee a comprovare l’identità della società produttrice.
4.1. – Norma di riferimento è l’art. 26 del codice doganale comunitario (regolamento CEE del Consiglio 12 ottobre 1992, n. 2913/92), secondo cui <<1. La normativa doganale o altre normative comunitarie specifiche possono prevedere che l’origine delle merci debba essere comprovata mediante presentazione di un documento. 2. Nonostante la presentazione di detto documento l’autorità doganale può richiedere, in caso di seri dubbi, qualsiasi altra prova complementare per accertarsi che l’origine indicata risponda alle regole stabilite dalla normativa comunitaria».
Nel caso in esame, dunque, non v’erano seri dubbi, poiché v’era certezza della falsità del certificato per l’aspetto in esame.
La valutazione sulla serietà dei dubbi spetta d’altronde al giudice nazionale (Corte giust. 30 giugno 2016, causa C-416/15, Selena Romania SRL, punto 38) e si mostra coerente con la disciplina della procedura di cooperazione amministrativa.
4.2. – Il legislatore dell’Unione richiede difatti a tal fine la sussistenza di un «ragionevole motivo di dubitare dell’autenticità dei documenti, del carattere originario dei prodotti in questione o dell’osservanza degli altri requisiti…>> (art. 94 del regolamento n. 2454/93, relativo ai certificati di origine, nonché, nei medesimi termini, art. 122 del medesimo regolamento, quanto ai certificati di circolazione delle merci EUR 1, nel testo modificato dal regolamento n. 1602/00, applicabile all’epoca dei fatti).
4.3. – Né, come pare sostenere la controricorrente, l’acquisizione della certezza della falsità postula comunque l’espletamento della procedura.
Da un lato, difatti, il certificato di corredo delle merci non è precostituito a garanzia della pubblica fede (tra varie, con riguardo al certificato FORM A, Cass. 6 marzo 2013, n. 5531; 15 marzo 2013, n. 6637 e 30 ottobre 2013, n. 24439); sicché per superarne le risultanze non è ineludibile il ricorso a procedure formali.
D’altro lato, sicura rilevanza probatoria va riconosciuta alla relazione dell’Olaf, ufficio europeo per la lotta antifrode, a meno che essa non si limiti a contenere una mera descrizione dei fatti (Corte giust. 16 marzo 2017, causa C-47/16, Veloserviss SIA, punto 48; nella giurisprudenza interna, tra varie, Cass. 21 aprile 2017, n. 10118).
Dall’art. 9, paragrafo 2, del regolamento relativo alle indagini dell’Olaf (regolamento CEE del Parlamento europeo e del Consiglio 25 maggio 1999, n. 1073/99) risulta difatti che le relazioni in questione costituiscono, al medesimo titolo e alle medesime condizioni di quelle redatte dagli ispettori amministrativi nazionali, elementi di prova ammissibili nei procedimenti amministrativi o giudiziari dello Stato membro nel quale risulti necessario avvalersene. Sicché soltanto se esse abbiano contenuto generico e quindi insoddisfacente le autorità doganali sono tenute a ricercare elementi di prova supplementari (Corte giust. 26 ottobre 2017, causa C-407/16, <<Aqua Pro>> SIA, punto 60); nella giurisprudenza interna, cfr., da ultimo, Cass. ord. 12 gennaio 2018, n. 615).
4.4. – Nel caso in esame, si riferisce in sentenza che la < <missione OLAF svolta in Tunisia nel periodo compreso tra il 29 febbraio e il 18 marzo 2008>> aveva consentito di accertare che «varie società produttrici di lampade usavano, in allegato alle dichiarazioni doganali, documenti della società SANEX ELECTRONICS CO. LTD al fine di poter usufruire del dazio antidumping ridotto riconosciuto a quest’ultima>>.
Ciononostante, l’autorità doganale ha ricercato prove supplementari, che ha reperito, prosegue il giudice d’appello, per il tramite di controlli svolti nei confronti della società P. Italia Srl, le quali hanno consentito di acclarare, appunto, la «scorretta applicazione dell’aliquota ridotta riconosciuta alla società produttrice cinese SANEX ELECTRONICS CO. LTD>>, escludendo, per mezzo della certezza così evidenziata, qualunque dubbio sulla falsità del certificato. E tanto ha fatto, l’autorità doganale, nell’esercizio del proprio potere discrezionale: <</e autorità doganali possono essere indotte a fornire elementi di prova supplementari a tal fine, segnatamente per quanto riguarda il comportamento rilevante dell’esportatore o delle autorità doganali dello Stato di esportazione, in particolare effettuando controlli a posteriori> (Corte giust. in causa C- 407/16, punto 60; Corte giust. in causa C-416/15, cit., punto 36).
5. – Il primo motivo di ricorso, che affronta questo primo aspetto, va dunque accolto, perché è erronea la statuizione della sentenza impugnata secondo cui <<le irregolarità dei certificati attestanti l’origine vanno -sempre- verificate con la procedura prescritta all’articolo 94 Regolamento 2454/1993 di attuazione del Codice Doganale Comunitario>>.
6. – Ciò di cui il giudice d’appello dubita, e che investe il secondo piano di rilevanza della vicenda, è l’imputabilità all’esportatore della falsità dell’indicazione contenuta nel certificato.
Al cospetto del dubbio, il giudice d’appello, passando al terzo piano di rilevanza della vicenda, ha applicato una regola di giudizio in virtù della quale grava sull’autorità doganale il relativo onere probatorio; sicché, in mancanza di tale prova, ha reputato operante l’eccezione di buona fede dell’importatore prevista dall’art. 220 del regolamento CEE del Consiglio 12 ottobre 1992, n. 2913/92.
Queste statuizioni sono state aggredite col secondo motivo di ricorso, col quale l’Agenzia denuncia la violazione dell’art. 220, paragrafo 2, lettera b), del regolamento n. 2913/92 e dell’art. 5, 1° co., del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472: la ricorrente ha sostenuto che la circostanza che la contribuente sia rimasta inerte, nonostante avesse l’obbligo di assicurarsi dell’effettiva origine di prodotti importati, ne escluda in radice la possibilità di far valere la propria buona fede.
Anche questo motivo è fondato.
6.1. – In generale la Corte di giustizia (da ultimo con la sentenza resa in causa C-47/16, cit.) ha chiarito che la disciplina sul legittimo affidamento del debitore compendiata nell’art. 220 del codice doganale comunitario scaturisce dalla condivisione del rischio derivante da errori o da irregolarità che viziano una dichiarazione doganale in funzione del comportamento e della diligenza di ciascuno dei soggetti coinvolti, ossia le autorità competenti dello Stato di esportazione e quelle dello Stato di importazione, l’esportatore nonché l’importatore.
6.2. – In particolare, però, va segnalato che nel caso in esame non si dibatte l’origine della merce, ossia la sua provenienza da uno dei paesi beneficiari di un sistema di preferenze daziarie, ma si discute della sola identità del soggetto che ha prodotto le merci in virtù del regolamento n. 1470/01, che ha riconosciuto per tali merci l’aliquota agevolata del dazio antidumping invocata in giudizio, richiamando le misure previste in via provvisoria dal regolamento CE della Commissione 7 maggio 2001, n. 255/01.
6.3. – La circostanza che l’aliquota agevolata non scaturisca da un accordo internazionale fra l’Unione e uno Stato terzo, sibbene da un provvedimento autonomo dell’Unione conforma anche la fisionomia dell’obbligo delle amministrazioni doganali di accettare le valutazioni compiute dalle autorità dello Stato esportatore.
Sicché le autorità dello Stato di esportazione non possono vincolare l’Unione e gli Stati membri alla loro valutazione relativa ai certificati allorché le autorità doganali dello Stato d’importazione seguitino a nutrire dubbi, nonostante che i certificati non siano stati dichiarati invalidi (per l’affermazione di un principio analogo, sia pure in relazione all’origine delle merci, si veda il punto 36 della sentenza Lagura della Corte di giustizia).
6.4. – Si confà pienamente alla vicenda, allora, il principio più volte fissato dalla giurisprudenza unionale, secondo il quale è compito degli operatori economici adottare, nell’ambito dei loro rapporti contrattuali, i provvedimenti necessari per premunirsi contro i rischi di un’azione di recupero a posteriori e che una simile prevenzione può consistere, in particolare, nel fatto che il debitore ottenga dall’altro contraente, al momento della conclusione del contratto o successivamente, tutti gli elementi di prova idonei a ottenere il trattamento preferenziale (Corte giust. in causa C- 407/16, cit., punto 82; in causa C-438/11, Lagura Vermögensverwaltung, punti 30 e 31, nonché in causa C-407/16, cit., punto 38).
7. – Né incide la circostanza, sulla quale punta la controricorrente, che non vi sarebbe stato contatto diretto con la società produttrice, ma soltanto con l’intermediaria MF Industry: e ciò ancora in base alla giurisprudenza unionale, secondo cui i principi summenzionati si applicano anche nel caso in cui l’importatore non ha alcun rapporto contrattuale diretto con l’esportatore di tali merci (Corte giust. in causa C-407/16, punto 86).
8. – Non sussiste, dunque, nel caso in esame legittimo affidamento della contribuente che, pur assumendo di aver importato merci prodotte dalla Sanex, non sia stata in grado di superare gli elementi di prova che, invece, hanno escluso che la merce fosse stata prodotta da quella società.
9. – In definitiva, in accoglimento del ricorso, la sentenza impugnata va cassata, con rinvio, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale della Toscana in diversa composizione, che esaminerà anche le questioni rimaste assorbite di cui dà conto il controricorso, se ritualmente proposte, con l’affermazione del seguente principio di diritto:
“In tema di dazi, non può essere riconosciuto il legittimo affidamento del debitore qualora la relazione dell’OLAF, suffragata dalle prove supplementari fornite dall’autorità doganale, accerti la falsità del certificato prodotto al fine di fruire dell’aliquota daziaria ridotta, quanto all’indicazione del produttore delle merci per le quali l’aliquota ridotta è riconosciuta dal regolamento CE del Consiglio 16 luglio 2001, n. 1470/01, non risultando necessario il ricorso alla procedura di cooperazione interstatuale“.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale della Toscana in diversa composizione.
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