CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 03 maggio 2019, n. 11700
Rapporto di lavoro – Contestazione disciplinare – Licenziamento – Assenza dal lavoro – Mancanza di ulteriori certificazioni sanitarie
Fatti di causa
Il Tribunale di Venezia accoglieva parzialmente l’opposizione proposta da W. T. A., nei confronti della Agenzia Distribuzione Giornali di B. S.r.l. & C. S.a.s. – presso la quale il medesimo aveva prestato la propria opera, in qualità di aiuto magazziniere, dal 12.2.2011 -, avverso l’ordinanza del Tribunale della stessa sede, adito dal lavoratore con ricorso depositato ai sensi dell’art. 1, comma 48, della I. n. 92 del 2012, e dichiarava risolto il rapporto di lavoro alla data del recesso intimato il 14.1.2014; ritenendo, inoltre, la violazione, da parte della società, dell’art. 7 della I. n. 300 del 1970 per tardiva contestazione disciplinare rispetto ai fatti addebitati al lavoratore, condannava la datrice di lavoro a corrispondere a quest’ultimo dieci mensilità della retribuzione globale di fatto, ai sensi del comma sesto del novellato art. 18 della I. n. 300 del 1970, citata.
La Corte territoriale di Venezia, con sentenza pubblicata il 3.5.2016, in accoglimento del gravame interposto dalla società reclamante, avverso la pronunzia di prime cure, rigettava integralmente il ricorso proposto dal lavoratore in prima istanza, dichiarava la legittimità del licenziamento allo stesso intimato il 14.1.2014 e lo condannava a restituire alla reclamante le somme corrisposte in esecuzione della sentenza impugnata.
Per la cassazione della sentenza ricorre W. T. A. articolando cinque motivi, ulteriormente illustrati da memoria depositata ai sensi dell’art. 378 del codice di rito.
La società datrice resiste con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo si denunzia la violazione dell’art. 2119 c.c. per inesistenza di una giusta causa di recesso e si lamenta che la Corte distrettuale non abbia verificato in concreto il comportamento di ambedue le parti secondo i fondamentali principi della correttezza e buona fede, e che non abbia considerato che il ricorrente ha consegnato tutti i certificati attestanti la malattia che ne ha provocato l’assenza dal luogo di lavoro.
2. Con il secondo motivo si censura ancora la violazione dell’art. 2119 c.c. e della I. n. 300 del 1970 <<per intempestiva reazione del datore di lavoro al fatto già contestabile della mancanza di ulteriori certificazioni sanitarie>> e si deduce testualmente (v. pag. 20 del ricorso) che <<deve trovare applicazione al rapporto non la sanzione al lavoratore per un fatto che non ha mai commesso (assenza di giustificazioni e certificazioni), ma la sanzione dalla legge prevista per la non tempestività o non immediatezza della contestazione, essendo solamente di comodo affermare che il periodo occorso alla B. per la sua missiva del 6.12.2013 è stato ragionevole …. Perciò conclusivamente su tale secondo motivo che, per quanto di significato relativo, risulta essere assolutamente carente tale requisito della immediatezza nel caso dell’A. per tre mesi di tempo (peraltro tali solo a seguito della riapparizione del lavoratore in Azienda) rispetto ad una semplicissima e persino doverosa attivazione del datore di lavoro>>.
3. Con il terzo motivo si deduce la violazione dell’art. 2106 c.c. per la mancata proporzionalità tra i fatti e la sanzione comminata e si sostiene che la sanzione disciplinare irrogata al lavoratore sia stata sproporzionata rispetto ai fatti di cui si tratta, posto che al medesimo è stato contestata l’assenza ingiustificata dal luogo di lavoro dal 13.9.2013 al 6.12.2013, senza considerare che, il 18.12.2013, l’A. ha presentato le sue giustificazioni e la società lo ha licenziato il 14.1.2014.
4. Con il quarto motivo si censura <<l’omesso esame circa il fatto delle avvenute consegne dei certificati medici ulteriori relative al “refill” di necessaria continuazione di cura ad opera della sig.ra M. N’., moglie del lavoratore, come fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti>>, perché <<la Corte di Appello di Venezia non ha nemmeno minimamente considerato la circostanza pur portata in causa della consegna degli ulteriori certificati relativi al secondo semestre a cura sempre della sig.ra M. N’.>>,
mentre avrebbe dovuto prendere in considerazione il certificato <<portato dall’A. il 18.12.2013 in Azienda>>.
5. Con il quinto motivo si lamenta <<l’omesso esame della falsità dei motivi di licenziamento come fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti>>, per non avere <<la Corte di Appello di Venezia minimamente considerato neanche la falsità delle ragioni spiegate dalla B. con la lettera di licenziamento del 14.1.2014>>.
1.1; 2.2; 3.3. I primi tre motivi, da esaminare congiuntamente per evidenti ragioni di connessione, non sono fondati.
Va, innanzitutto, osservato che la giusta causa di licenziamento è una nozione di legge che si viene ad inscrivere in un ambito di disposizioni caratterizzate dalla presenza di elementi “normativi” e di clausole generali (Generalklauseln) – correttezza (art. 1175 c.c.); obbligo di fedeltà, lealtà, buona fede (art. 1375 c.c.); giusta causa, appunto (art. 2119 c.c.) – il cui contenuto, elastico ed indeterminato, richiede, nel momento giudiziale e sullo sfondo di quella che è stata definita la “spirale ermeneutica” (tra fatto e diritto), di essere integrato, colmato, sia sul piano della quaestio facti che della quaestio iuris, attraverso il contributo dell’interprete, mediante valutazioni e giudizi di valore desumibili dalla coscienza sociale o dal costume o dall’ordinamento giuridico o da regole proprie di determinate cerchie sociali o di particolari discipline o arti o professioni, alla cui stregua poter adeguatamente individuare e delibare altresì le circostanze più concludenti e più pertinenti rispetto a quelle regole, a quelle valutazioni, a quei giudizi di valore, e tali non solo da contribuire, mediante la loro sussunzione, alla prospettazione e configurabilità della tota res (realtà fattuale e regulae iuris), ma da consentire inoltre al giudice di pervenire, sulla scorta di detta complessa realtà, alla soluzione più conforme al diritto, oltre che più ragionevole e consona.
Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura di norma giuridica, come in più occasioni sottolineato da questa Corte, e la disapplicazione delle stesse è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge. Pertanto, l’accertamento della ricorrenza, in concreto, nella fattispecie dedotta in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, è sindacabile nel giudizio di legittimità, a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli “standards” conformi ai valori dell’ordinamento esistenti nella realtà sociale (Cass. n. 25044/15; Cass. n. 8367/2014; Cass. n. 5095/11). E ciò, in quanto, il giudizio di legittimità deve estendersi pienamente, e non solo per i profili riguardanti la logicità e la completezza della motivazione, al modo in cui il giudice di merito abbia in concreto applicato una clausola generale, perché nel farlo compie, appunto, un’attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma, dando concretezza a quella parte mobile della stessa che il legislatore ha introdotto per consentire l’adeguamento ai mutamenti del contesto storico- sociale (Cass., S.U., n. 2572/2012).
Nei motivi di ricorso qui in esame, le censure formulate alla sentenza della Corte di Appello appaiono inconferenti, poiché non evidenziano in modo puntuale gli “standards” dai quali il Collegio di merito si sarebbe discostato. Non risulta, in sostanza, inciso da errores in iudicando l’iter decisionale della Corte di merito, poiché, coerentemente, viene messo in luce il comportamento, certamente lesivo del vincolo fiduciario, tenuto dall’A.. Al riguardo, correttamente, la Corte di Appello sottolinea che (v. in particolare, pag. 6 e segg. della sentenza impugnata), dall’esame dei fatti oggetto di controversia, emerge che il lavoratore è stato licenziato dalla società per assenza ingiustificata dal 13.9.203 al 6.12.2013, avendo la datrice di lavoro ricevuto l’ultima certificazione sanitaria relativa allo stato di salute dello stesso in data 12.3.2013, nella quale il medico del Camerun attestava che l’A. era affetto da tubercolosi e doveva essere sottoposto a sei mesi di cura; per la qual cosa, dal 12.3.2013 al 12.9.2013, la società ha reputato giustificata l’assenza del dipendente, del quale non ha più ricevuto notizie a partire dal successivo 13.9.2013. Sarebbe stato, quindi, onere del medesimo, a fronte di una eventuale prosecuzione della malattia, attivarsi e darne comunicazione al datore di lavoro, il quale ultimo, a fronte di quell’assenza proseguita per 84 giorni, senza alcuna comunicazione o giustificazione, ha correttamente intimato il licenziamento al dipendente. In merito, la Corte territoriale, condivisibilmente, sottolinea pure che non si configura, nella fattispecie, alcuna sproporzione tra il comportamento tenuto dal lavoratore e la sanzione comminata dalla società, anche in considerazione di quanto previsto dal CCNL del Terziario che, all’art. 225, prevede il licenziamento senza preavviso quale sanzione congrua in caso di assenze che si protraggano senza giustificazione per oltre tre giorni. E non può non tenersi in considerazione il fatto che rientra nella normale diligenza e correttezza del lavoratore malato l’onere di avvertire tempestivamente il datore di lavoro, qualora non sia in grado di rispettare il termine previsto per il rientro dalla malattia (v., tra le molte, Cass. nn. 10552/2013; 13622/2005), dando così modo alla parte datoriale di valutare i fatti nel loro insieme e di stabilire la sanzione da applicare (v., tra le altre, Cass. n. 2283/2010).
Deve, quindi, concludersi, alla stregua dei costanti arresti giurisprudenziali di questa Suprema Corte, che il licenziamento disciplinare è giustificato nei casi in cui i fatti attribuiti al lavoratore rivestano il carattere di grave violazione degli obblighi del rapporto di lavoro, tale da ledere irrimediabilmente l’elemento fiduciario; il giudice di merito deve, pertanto, valutare gli aspetti concreti che attengono principalmente alla natura del rapporto di lavoro, alla posizione delle parti, al nocumento arrecato, alla portata soggettiva dei fatti, ai motivi ed all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo (v., ex plurimis, Cass. n. 25608/2014).
La Corte di Appello, nella valutazione della proporzionalità tra illecito disciplinare e sanzione applicata, si è attenuta a tale insegnamento ed ha tratto le conseguenze logico-giuridiche in termini di proporzionalità tra fatto commesso e sanzione irrogata.
A fronte di ciò, l’A. non ha prodotto (e neppure menzionato nell’elenco dei documenti offerti in comunicazione elencati nel ricorso per cassazione) il certificato che dichiara di avere portato al datore di lavoro in data 18.12.2013, al rientro sul luogo di lavoro; e ciò, in violazione del principio, più volte ribadito da questa Corte, che definisce quale onere della parte ricorrente quello di indicare lo specifico atto precedente cui si riferisce, in modo tale da consentire alla Corte di legittimità di controllare ex actis la veridicità delle proprie asserzioni prima di esaminare il merito della questione (Cass. n. 14541/2014). Il ricorso per cassazione deve, infatti, contenere tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed a consentire la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza che sia necessario fare rinvio a fonti esterne al ricorso e, quindi, ad elementi o atti concernenti il pregresso grado di giudizio di merito (cfr., tra le molte, Cass. nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013). Per la qual cosa, questa Corte non è stata messa in grado di poter apprezzare la veridicità della doglianza svolta dal ricorrente neppure con riguardo alla censura relativa al preteso <<omesso esame di tale certificato>> da parte del Collegio di merito, articolata con il quarto motivo.
4.4. Tale motivo è inammissibile.
Al proposito, oltre a quanto testé rilevato, va ribadito che, come sottolineato dalle Sezioni Unite di questa Corte (con la sentenza n. 8053 del 2014), per effetto della riforma del 2012, per un verso, è denunciarle in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (tale anomalia si esaurisce nella <<mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico>>, nella ccmotivazione apparente>>, nel <<contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili>> e nella <<motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile>>, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di <<sufficienza>> della motivazione); per l’altro verso, è stato introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Orbene, poiché la sentenza oggetto del giudizio di legittimità è stata pubblicata, come riferito in narrativa, in data 3.5.2016, nella fattispecie si applica, ratione temporis, il nuovo testo dell’art. 360, comma 1, n. 5), come sostituito dall’art. 54, comma 1, lettera b), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134, a norma del quale la sentenza può essere impugnata con ricorso per cassazione per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Ma nel caso in esame, il motivo di ricorso che denuncia il vizio motivazionale non indica il fatto storico (Cass. n. 21152 del 2014), con carattere di decisività, che sarebbe stato oggetto di discussione tra le parti e che la Corte di Appello avrebbe omesso di esaminare; né, tanto meno, fa riferimento, alla stregua della pronunzia delle Sezioni Unite, ad un vizio della sentenza <<così radicale da comportare>> in linea con <<quanto previsto dall’art. 132, n. 4, c.p.c., la nullità della sentenza per mancanza di motivazione>>. E, dunque, non potendosi più censurare, dopo la riforma del 2012, la motivazione relativamente al parametro della sufficienza, rimane il controllo di legittimità sulla esistenza e sulla coerenza del percorso motivazionale dei giudici di merito (cfr., tra le molte, Cass. n. 25229 del 2015), che, nella specie, è stato condotto dalla Corte territoriale con argomentazioni logico-giuridiche del tutto congrue poste a fondamento della decisione impugnata. Pertanto, le doglianze articolate dalla parte ricorrente come vizio di motivazione – che, in sostanza, si risolvono in una ricostruzione soggettiva del fatto, tesa a condurre ad una valutazione difforme rispetto a quella cui è pervenuta la Corte distrettuale, sulla base di una diversa lettura del materiale probatorio – appaiono inidonee, per i motivi anzidetti, a scalfire la coerenza della sentenza oggetto del giudizio di legittimità.
5.5. Altresì inammissibile è il quinto motivo per le considerazioni svolte sub 4.4. ed altresì perché non si configura alcun <<omesso esame della lettera di licenziamento del 14.1.2014>> da parte dei giudici di seconda istanza ed il motivo è palesemente teso a suscitare un nuovo esame delle ragioni di merito che non può, all’evidenza, trovare ingresso in questa sede.
6. Per tutto quanto in precedenza esposto, il ricorso va rigettato.
7. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
8. Non sussistono, allo stato, i presupposti di cui all’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 3.300,00, oltre Euro 200,00 per esborsi e spese generali nella misura del 15% oltre accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della non sussistenza, allo stato, dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso articolo 13.
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