CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 03 maggio 2019, n. 11702
Rapporto di lavoro – Insubordinazione – Licenziamento – Violazione dei doveri di collaborazione, diligenza e fedeltà – Lesione del vincolo fiduciario
Fatti di causa
1. Con sentenza n. 1874/2017, depositata il 19 maggio 2017, la Corte di appello di Roma ha confermato la decisione di primo grado, con la quale il Tribunale di Velletri aveva respinto le domande di F. F. volte a ottenere, nei confronti della G. S.r.l., la dichiarazione di illegittimità della sanzione di quattro giorni di sospensione allo stesso comunicata con lettera del 27/1/2010, per avere il lavoratore, dopo essersi introdotto senza autorizzazione negli uffici amministrativi, tentato di inoltrare a varie autorità con il fax aziendale copia di un esposto contro la società datrice di lavoro già presentato alla Stazione Carabinieri di Colleferro in relazione ad uno sversamento di percolato che nella sua ricostruzione era addebitabile ad un’errata programmazione delle fasi di lavorazione dell’impianto; nonché ad ottenere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento per giusta causa comunicato con lettera in data 10/2/2010, per avere posto in essere una condotta di insubordinazione nei confronti del responsabile della discarica e per essersi, quindi, introdotto senza autorizzazione nell’ufficio dello stesso, al fine di rovistare tra la documentazione aziendale che si trovava sulla scrivania.
2. La Corte ha osservato come i fatti contestati avessero trovato effettivo riscontro nelle risultanze testimoniali e documentali; come del proprio esposto il dipendente non avesse mai informato i superiori e i responsabili dell’impianto, così venendo meno ai doveri di collaborazione, diligenza e fedeltà; come la condotta posta a giustificazione del recesso datoriale fosse di per sé idonea a ledere gravemente il vincolo fiduciario e comunque fosse rafforzata nella sua rilevante gravità dal precedente comportamento, che aveva dato causa alla sanzione conservativa.
3. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il lavoratore con otto motivi, cui ha resistito con controricorso la società G. S.r.l. in Amministrazione Straordinaria.
Ragioni della decisione
1. Con i primi quattro motivi, deducendo in tutti il vizio di cui all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., il ricorrente censura il capo della sentenza impugnata relativo alla sanzione (quattro giorni di sospensione) applicata con provvedimento del 27 gennaio 2010.
2. In particolare, con il primo, il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 cod. civ. e 5 I. n. 604/1966, per avere la Corte di appello ritenuto che la società avesse assolto il proprio onere di provare i fatti materiali posti a fondamento della contestazione e della sanzione disciplinare, pur a fronte di materiale di prova che avrebbe dovuto indurre ad opposta conclusione; con il secondo, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2702 cod. civ. nonché degli artt. 244 ss. e 116 cod. proc. civ., per avere la Corte di appello ritenuto dimostrata la condotta ascritta al lavoratore unicamente sulla base di una dichiarazione scritta proveniente da altro dipendente della società e, pertanto, sulla base di una prova di natura atipica, avente come tale un valore meramente indiziario; con il terzo e con il quarto motivo, il ricorrente denuncia rispettivamente la violazione e falsa applicazione degli artt. 2106 cod. civ. e 21 C.C.N.L. di settore e degli artt. 2104, 2105 e 2106 cod. civ., per avere la Corte erroneamente ritenuto che egli fosse obbligato a segnalare il fatto rilevato (spargimento di percolato nell’ambiente) ai propri superiori, sebbene tale obbligo richiedesse, secondo le previsioni della contrattazione collettiva, la preposizione del dipendente al servizio in cui l’anomalia si era verificata.
3. Con i motivi seguenti (dal quinto all’ottavo) il ricorrente censura il capo della sentenza relativo alla sussistenza della giusta causa di licenziamento.
4. In particolare, con il quinto e con il sesto, il ricorrente propone censure analoghe a quelle svolte con il primo e con il secondo motivo; mentre, con il settimo e con l’ottavo, denuncia – in relazione all’addebito di avere mancato di rispetto al superiore gerarchico – rispettivamente la violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 e 2106 cod. civ. e il vizio di cui all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., per non avere il giudice di appello considerato un insieme di circostanze, di natura oggettiva e soggettiva (mancato allontanamento dal posto di lavoro; carattere gergale delle frasi pronunciate; contesto di “accerchiamento” sul piano disciplinare da parte del datore di lavoro e conseguente stato di tensione), tali da non consentire un giudizio di proporzionalità fra la condotta oggetto di contestazione e la sanzione adottata.
5. Il ricorso deve essere respinto.
6. Il primo e il quinto motivo, da esaminarsi congiuntamente in quanto connessi per identità di censura, sono infondati.
7. Si deve in proposito ribadire il principio, secondo il quale “la violazione del precetto di cui all’art. 2697 cod. civ., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti del “nuovo” art. 360 n. 5 cod. proc. civ.)”: cfr., fra le pronunce più recenti, Cass. n. 13395/2018.
8. Devono parimenti essere disattesi il secondo e il sesto motivo, da esaminarsi anch’essi congiuntamente per l’identità delle censure che svolgono, posto che la Corte di appello non ha fondato la decisione soltanto su scritture private provenienti da terzi (quali, nella specie, le dichiarazioni rese al datore di lavoro da alcuni dipendenti) ma su un materiale probatorio più ampio e articolato, come chiaramente emerge dalla motivazione della sentenza.
9. In particolare, deve osservarsi come a sostegno della ritenuta dimostrazione della condotta, che aveva dato origine al provvedimento disciplinare in data 27/1/2010, la Corte territoriale non si sia limitata a richiamare la dichiarazione scritta del dipendente che era risultato a conoscenza dell’episodio e ne aveva riferito, ma abbia posto altresì il fatto che in tale documento si attestava la presenza anche del superiore gerarchico del ricorrente, ing. A. C., e che esso era stato integralmente confermato in giudizio dalla stessa Ceci (che lo aveva sottoscritto), unitamente al rinvenimento dei rapporti di trasmissione di due fax a firma del F. e alla constatazione che, a fronte di tale quadro, “nessun diverso o contrario elemento probatorio, né alcuna credibile e riscontrata ricostruzione alternativa” era stata fornita dall’appellante (cfr. sentenza impugnata, pp. 4-5).
10. Analoghe le considerazioni a proposito della condotta che ha portato al licenziamento per giusta causa del ricorrente, avendo la Corte richiamato, oltre ai verbale sottoscritto da un dipendente (e dalla predetta Ceci), anche le dichiarazioni rese in giudizio dal teste Coletta, del quale ha sottolineato l’attendibilità alla stregua del riscontro fornito dalle dichiarazioni del collega in sede di audizione (cfr. p. 7).
11. In definitiva, la Corte di merito, procedendo ad esaminare gli ulteriori dati probatori acquisiti al giudizio, ha fatto corretta applicazione del principio di diritto, per il quale le dichiarazioni provenienti da un terzo estraneo alla lite, pur avendo un valore puramente indiziario ed essendo, quindi, inidonee di per sé a costituire l’unica fonte di convincimento del giudice, possono, tuttavia, integrare il fondamento della decisione, quando vi sia concorso di altri elementi che ne confermino l’attendibilità (Sez. U n. 15169/2010 e successive conformi).
12. Il terzo e il quarto motivo risultano inammissibili per carenza di interesse (Cass. n. 4199/2002, fra le molte conformi), avendo la sentenza di appello espresso, a fondamento delle proprie conclusioni, una duplice e concorrente ragione decisoria e cioè – oltre alla violazione dell’art. 21 C.C.N.L. di settore – la violazione dei doveri legali (collaborazione, diligenza e fedeltà) che gravano sul prestatore di lavoro, ponendo in evidenza, al riguardo, come il ricorrente avesse chiesto un’ispezione dei Carabinieri “senza neppure prima informare la datrice di lavoro e senza prima informarsi lui stesso degli eventuali interventi posti in essere da quest’ultima” e sottolineando la radicale contrarietà di un tale comportamento, anche per le modalità con cui fu realizzato, “ai doveri scaturenti dal rapporto di lavoro”, contrarietà tanto maggiore e idonea a compromettere la permanenza del vincolo fiduciario in una situazione in cui – come accertato in fatto, attraverso la deposizione della teste Ceci – la stessa società stava cercando di porre rimedio al problema verificatosi nella gestione dell’impianto di trattamento dei rifiuti (cfr. sentenza impugnata, p. 6).
13. Parimenti inammissibili risultano il settimo e l’ottavo motivo di ricorso, da esaminarsi anch’essi congiuntamente, in quanto il ricorrente, dietro lo schermo del vizio di cui all’art. 360 n. 3, ha, nella realtà, inteso rimettere in discussione l’accertamento di fatto compiuto dal giudice del merito a proposito della relazione di proporzionalità tra la sanzione e i fatti contestati.
14. D’altra parte, l’ottavo motivo risulta inammissibile anche per una ragione sua propria, vale a dire in forza della preclusione di cui all’art. 348 ter, ultimo comma, cod. proc. civ., in presenza di giudizio di appello introdotto con ricorso depositato in epoca posteriore all’entrata in vigore della novella legislativa; né il ricorrente, per evitare l’inammissibilità del motivo, ha indicato le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 5528/2014 e successive conformi).
15. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
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