CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 03 settembre 2018, n. 21569
Licenziamento – Per giusta causa – Irrogazione oltre il termine di 10 giorni contrattualmente previsto – Prova delle assenze ingiustificate
Fatti di causa
1.1. Con ricorso ex art. 1, co. 48, I. n. 92/2012 al Tribunale di Teramo S. B. impugnava il licenziamento intimatogli dalla R. R. S.p.A. in data 18/11/2014 per mancato rispetto del termine di 10 giorni previsto dall’art. 21, n. 2 co. 3 del c.c.n.l. Gas acqua e per l’insussistenza della giusta causa addotta dalla società datrice.
1.2. Il Tribunale, in sede sommaria, accoglieva il ricorso, annullava il licenziamento intimato al ricorrente per insussistenza del fatto contestato e disponeva la reintegra del B. nel posto di lavoro.
1.3. La decisione era riformata in sede di opposizione ex art. 1, co. 51 e ss., della legge n. 92/2012. Il Tribunale di Teramo, infatti, in parziale accoglimento dell’originario ricorso del lavoratore, dichiarava l’inefficacia del licenziamento, in quanto irrogato oltre il termine di 10 giorni contrattualmente previsto e comunque l’esistenza di una giusta causa di risoluzione del rapporto, individuata “nella mancanza di un documento esplicativo del motivo dell’assenza”, con condanna della società al pagamento in favore del B. di un’indennità risarcitoria nella misura di sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
1.4. Con sentenza n. 743/2016, pubblicata il 14/7/2016, la Corte d’appello di L’Aquila respingeva il reclamo proposto da S. B.
Riteneva la Corte territoriale pacifica la circostanza che il licenziamento fosse stato intimato oltre il 10 giorni previsti dall’art. 21 del c.c.n.l. di settore (non oggetto di impugnazione da parte della società resistente).
condotto il giudice di prime cure a ritenere che le assenze del B. oggetto di contestazione non fossero state giustificate.
Quanto al regime sanzionatorio applicabile richiamava, a fondamento della sussistenza di una tutela meramente obbligatoria, la pronuncia di questa Corte n. 14324 del 9 luglio 2015 resa in materia di tardività della contestazione.
2. Per la Cassazione della sentenza ricorre S. B. con tre motivi.
3. Resiste con controricorso la R. R. S.p.A.
4. Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Ragioni della decisione
1.1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia il difetto assoluto di motivazione su un fatto decisivo della controversia in relazione all’omessa disamina dell’art. 21 n. 2, co. 3, del c.c.n.l. per il settore gas acqua (art. 360, n. 5, cod. proc. civ.). Lamenta che la Corte territoriale non avrebbe preso in considerazione il fatto che l’art. 21, n. 2, co. 3 del c.c.n.l. gas acqua prevede che “se il provvedimento non verrà emanato entro i 10 giorni lavorativi successivi al predetto quinto giorno dal ricevimento della contestazione, tali giustificazioni si riterranno accolte” così assegnando al decorso del termine la valenza di accettazione delle controdeduzioni fornite dal prestatore. Nella specie, quindi, il licenziamento non poteva essere ritenuto assistito da giusta causa in quanto le assenze qualificate come arbitrarie dovevano essere considerate giustificate per effetto dell’accoglimento delle osservazioni. Trascrive, al riguardo, il passaggio del reclamo in cui tale questione (già prospettata in sede di ricorso ex art. 1 co. 48, I. n. 92/2012) era stata sottoposta alla Corte territoriale.
1.2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 21 n. 2 co. 3 del c.c.n.l. per il settore gas acqua (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.). Ripropone lo stesso rilievo sotto il profilo della diretta violazione della norma contrattuale evidenziando che la Corte del reclamo, dopo aver considerato l’intervenuto passaggio in giudicato della sentenza resa dal Tribunale in ordine all’inefficacia del licenziamento, avrebbe dovuto altresì dare atto che lo stesso licenziamento era anche illegittimo per insussistenza degli addebiti alla luce della previsione collettiva che attribuiva al silenzio il significato di accoglimento delle giustificazioni e, quindi, di esclusione dell’illecito disciplinare.
1.3. Con il terzo primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 21 n. 6 del c.c.n.l. per il settore gas acqua (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.), motivazione contraddittoria e perplessa su un punto decisivo della controversia (art. 360, n. 5, cod. proc. civ.). Rileva che, una volta raggiunta in sede processuale, la prova che il dipendente avesse giustificato le sue assenze riferendone al responsabile dell’ufficio, era risultato smentito il fatto negativo contestato ed era esclusa l’illiceità della condotta e la relativa perseguibilità disciplinare. Censura la sentenza impugnata per aver ritenuto necessarie le giustificazioni scritte laddove la disposizione contrattuale, avuto riguardo alla sua formulazione letterale, non indica la modalità con cui il dipendente deve rendere la giustificazione ponendo solo l’esigenza che essa intervenga nell’indicato spazio temporale. Rileva che, nella specie, erroneo è stato assimilare l’assenza di “giustificativo” al difetto di giustificazione in considerazione del fatto che l’istruttoria svolta e le dichiarazioni rese dal responsabile del settore “Ufficio, Servizi, gare ed Appalti” presso cui il B. lavorava, aveva reso in udienza dichiarazioni (puntualmente trascritte) da cui si evinceva che il B. aveva comunicato il motivo di assenza e si era assentato con la sua autorizzazione.
2. I primi due motivi di ricorso (che, come chiaramente si evince dalle surriportate sintesi, superano il vaglio di ammissibilità) sono fondati (e determinano l’assorbimento del terzo).
I rilievi ruotano intorno alla ritenuta violazione dell’art. 21, n. 2, co. 3, del c.c.n.l. gas acqua del 2011. Tale norma prevede espressamente che qualora il provvedimento disciplinare non venga adottato entro i 10 giorni lavorativi successivi alla scadenza del termine concesso al lavoratore per fornire le proprie giustificazioni (cinque giorni dal ricevimento della contestazione), tali giustificazioni si riterranno accolte.
In termini generali, non può non rilevare quanto convenuto tra le parti in sede di definizione delle norme procedurali per le sanzioni più gravi del rimprovero verbale e a tal fine, in chiave interpretativa, deve considerarsi l’elemento letterale, che, sebbene centrale nella ricerca della reale volontà delle parti, deve essere riguardato alla stregua di ulteriori criteri ermeneutici e, segnatamente, dell’interpretazione funzionale, che attribuisce rilievo alla causa concreta del contratto ed allo scopo pratico perseguito dalle parti, oltre che dell’interpretazione secondo buona fede, che si specifica nel significato di lealtà e si concreta nel non suscitare falsi affidamenti e nel non contestare ragionevoli affidamenti ingenerati nella controparte (cfr., da ultimo, Cass. 19 marzo 2018, n. 6675; Cass. 28 marzo 2017, n. 7927; Cass. 22 novembre 2016, n. 23701).
L’indicazione di un termine per il compimento di un’attività giuridicamente rilevante e la previsione di una determinata conseguenza per l’ipotesi di mancato compimento entro tale termine di certo non rientrano tra le cosiddette clausole di stile inserite dai contraenti non per farvi derivare una concreta volontà negoziale ma in ossequio a una prassi meramente linguistica.
Così, sulla base di quanto contenuto nell’art. 21, n. 2, co. 3, del c.c.n.l. gas acqua, non appaiono ipotizzabili conseguenze diverse da quelle dell’obbligo di procedere all’indicata specifica attività (adozione del provvedimento più grave del rimprovero verbale) entro il termine stabilito (si veda anche Cass. 18 marzo 2008, n. 7295) e della fictio dell’intervenuta accettazione delle giustificazioni nel caso di inottemperanza al suddetto obbligo.
E’ ben possibile, infatti, che la disciplina collettiva arricchisca le garanzie di difesa dell’incolpato sia con la previsione di un termine finale sia con l’attribuzione di un determinato significato al comportamento del datore di lavoro nei confronti del lavoratore avvalsosi della facoltà e dei mezzi di difesa apprestatigli dall’ordinamento (v. Cass. 21 marzo 1994 n. 2663; Cass. 21 luglio 1992, n. 8773; Cass. 20 dicembre 1990, n. 12116; Cass. 17 marzo 1987, n. 2707).
La norma contrattuale, allora, nel momento in cui ricollega al ritardo la conseguenza di un’accettazione delle giustificazioni, ancorché inserita in un contesto di norme procedurali, ha rango di norma sostanziale che regola il corretto esercizio del potere di recesso datoriale.
In conseguenza, a fronte di una prefigurazione di un fatto come esistente (“tali giustificazioni si riterranno accolte”), le conseguenze giuridiche non possono che essere quelle ricollegabili a quel fatto prefigurato come se fosse stato corrispondente alla realtà.
Ciascun contraente, infatti, deve restare vincolato agli effetti del significato socialmente attribuibile alle proprie dichiarazioni e ai propri comportamenti e cosi l’aver consapevolmente lasciato decorrere il termine per l’adozione del provvedimento disciplinare non può che essere significativo, sulla scorta della previsione pattizia oltre che dei principi di buona fede e correttezza che presidiano il rapporto di lavoro ai sensi degli artt. 1175 e 1375 cod. civ., della intervenuta accettazione da parte del datore di lavoro delle giustificazioni fornite dal lavoratore (si veda Cass. 20 marzo 2009, n. 6911 che ha accertato la correttezza della pronunzia del giudice di merito in punto di decadenza del datore dal potere di recesso successivamente all’accettazione delle giustificazioni della controparte, per non essere stato il provvedimento sanzionatorio comminato entro il termine successivo a tali giustificazioni che, anche secondo la disposizione contrattale ivi applicata, “si riterranno accolte”).
In tale situazione, dunque, il datore di lavoro ha certo la possibilità di dimostrare l’eventuale impossibilità di rispettare il termine contrattualmente previsto; In caso contrario, però, il ritardo nell’irrogazione della sanzione, contravvenendo un silenzio che vale come accettazione delle difese del lavoratore, si risolve in un venire contra factum proprium, contrario alla clausola di buona fede che presidia il rapporto di lavoro.
Il licenziamento intimato nella vigenza della nuova disciplina introdotta dalla legge n. 92 del 2012, doveva perciò considerarsi non semplicemente inefficace per il mancato rispetto di un termine procedurale (al pari dell’intempestività della contestazione oggetto della pronuncia di questa Corte, a sezioni unite, n. 30985 del 27 dicembre 2017) e dunque per motivi solo formali bensì illegittimo per l’insussistenza del fatto contestato per avere il datore di lavoro accolto le giustificazioni a discolpa del dipendente e dunque per la totale mancanza di un elemento essenziale della giusta causa. L’addebito mosso a carico del lavoratore era, infatti, venuto a cadere per l’intervenuta implicita ammissione da parte del datore di lavoro dell’insussistenza della condotta Illecita che rendeva il fatto contestato non più configurabile come mancanza sanzionabile.
La tutela applicabile non era allora quella di cui all’art. 18, co. 6, della I. n. 300/1970 bensì quella dell’art. 18, co. 4.
3. Da tanto consegue che i primi due motivi di ricorso devono essere accolti, assorbito il terzo. La sentenza Impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti con rinvio alla Corte di appello di Roma che deciderà la causa attenendosi ai principi sopra affermati e provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie i primi due motivi di ricorso, assorbito il terzo; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.
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