CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 03 settembre 2018, n. 21570
Licenziamento – Procedura di mobilità – Comunicazione alle organizzazioni sindacali – Motivi di crisi – Specificazione dei reparti di appartenenza e dei livelli di inquadramento del personale in esubero
Fatti di causa
1. Con sentenza depositata l’8.3.2017 la Corte di appello di Roma, in riforma della pronuncia del Tribunale di Cassino, ha respinto la domanda di G.R. proposta per la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato dalla società S.R. s.p.a. in data 29.7.2009 nell’ambito di una procedura di mobilità avviata con comunicazione del 26.11.2008.
2. La Corte distrettuale ha ritenuto sussistente il vizio di ultrapetizione della sentenza del Tribunale a fronte delle deduzioni contenute nel ricorso introduttivo del giudizio che si appuntavano esclusivamente su specifiche carenze della comunicazione, alle organizzazioni sindacali, di avvio della procedura di mobilità, nella specie la insussistenza dei motivi di crisi posti a base della procedura di mobilità e la mancata specificazione dei reparti di appartenenza e dei livelli di inquadramento del personale in esubero; nel merito, la Corte territoriale ha, comunque, ritenuto sufficientemente chiara – ex art. 4, comma 3, della legge n. 223 del 1991 – la comunicazione alle organizzazioni sindacali con riguardo al personale, con profilo professionale di ausiliario, coinvolto, risultando esplicito che la riduzione avrebbe riguardato gli ausiliari addetti al servizio di pulizie (con esclusione del servizio delle cucine) e dovendosi interpretare il riferimento al personale ausiliario necessario ad “ottemperare agli obblighi di legge” quale rinvio al quadro normativo che regola il rapporto tra posti-letto e ausiliari e la relativa formazione professionale (in particolare, la legge Regione Lazio n. 4 del 2003), con conseguente coerente attribuzione – in sede di graduatoria dei lavoratori ausiliari – di un punteggio negativo a coloro sprovvisti del titolo di OSS (Operatore Socio Sanitario).
3. Per la cassazione della sentenza impugnata la lavoratrice propone ricorso fondato su un motivo. La società oppone difese con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Ragioni della decisione
1. Con l’unico motivo di ricorso la ricorrente denuncia violazione dell’art. 5 della legge n. 223 del 1991 in relazione all’art. 2697 cod.civ. nonché vizio di motivazione (in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5 cod.proc.civ.) posto che il ricorso introduttivo del giudizio aveva osservato come non fossero chiari i criteri di scelta adottati dalla società nell’ambito della procedura di mobilità in considerazione della carente descrizione del nuovo assetto organizzativo conseguito all’esito della riduzione dell’organico. Inoltre, il criterio selettivo effettivo adottato, ossia il possesso del titolo di OSS era arbitrario e slegato da alcun concreto ed apprezzabile motivo organizzativo, in considerazione del mancato riconoscimento di analogo effetto a favore dei possessori del titolo OTA (come la ricorrente), trattandosi di titoli del tutto equipollenti e di funzioni del tutto fungibili.
2. La procedura di mobilità oggetto del presente ricorso è stata già scrutinata da questa Corte sotto tutti i profili sollevati dal ricorso, pronunce che questo Collegio condivide ed i cui principi di diritto ritiene di confermare (cfr. Cass. nn. 3976 e 5556 del 2018 emesse a seguito di ricorso da parte della società; Cass. nn. 5950, 5951, 6163, 6480, 6992, 6993 del 2018 emesse a seguito di ricorso da parte dei lavoratori).
3. E’ opportuno premettere taluni principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità – rilevanti ai fini della delibazione dei motivi di ricorso – e qui condivisi e ribaditi.
3.1. La “comunicazione preventiva” di cui al comma 2 dell’art. 4 della l. n. 223 del 1991, come richiamato dall’art. 24, co. 1, stessa legge, esprime, per testuale disposizione normativa, una “intenzione” dell’impresa di procedere ad un licenziamento collettivo; la comunicazione deve avere i contenuti di cui al comma 3 dell’art. 4 e deve essere indirizzata ai soggetti indicati dai commi 4 e 5 dello stesso articolo; essa è finalizzata a promuovere un “esame congiunto” tra impresa e organizzazioni sindacali “allo scopo di esaminare le cause che hanno contribuito a determinare l’eccedenza di personale e le possibilità di utilizzazione diversa di tale personale, o di una sua parte” (comma 5, art. 4, l. n. 223 del 1991). Ove la consultazione sindacale dia esito negativo anche il direttore dell’Ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione convoca le parti al fine di un ulteriore esame, “formulando proposte per la realizzazione di un accordo” (commi 6 e 7, art. 4, l. n. 223 del 1991).
Raggiunto tale accordo o comunque esaurita la procedura “l’impresa ha facoltà di licenziare”, comunicando, tra l’altro, la “puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta” ex art. 4, comma 9, l. n. 223 del 1991.
3.2. Dunque l’intenzione unilateralmente manifestata dall’impresa è destinata a misurarsi nel confronto sindacale, anche con la mediazione pubblica, sicché la comunicazione di avvio della procedura è apertamente funzionalizzata al corretto svolgimento di tale confronto, i cui esiti non sono predeterminati, tanto che secondo questa Corte “una eventuale divergenza nel numero degli esuberi tra comunicazione preventiva e comunicazione finale ex art. 4, comma 9, l. n. 223 del 1991 non costituisce di per sé ragione di illegittimità della risoluzione del singolo rapporto individuale di lavoro, potendo essa rappresentare proprio il frutto della procedura prevista dalla legge” (Cass. n. 18504 del 2016).
3.3. Inoltre non è la lettera di avvio della procedura che determina i criteri di scelta; anzi, secondo questa Corte la comunicazione di inizio della procedura ex l. n. 223/91 non deve contenere l’indicazione dei criteri in base ai quali il datore di lavoro procederà all’individuazione dei lavoratori da licenziare, atteso che tali criteri sono di fonte legale oppure contrattuale, ma non possono essere fissati unilateralmente dal datore di lavoro, sicché legittimamente il datore di lavoro ne omette il riferimento, considerato anche che questi possono risultare diversi all’esito della procedura finalizzata tra l’altro proprio allo scopo di verificare la possibilità di determinare pattiziamente, con accordo sindacale, i criteri medesimi (Cass. n. 1649 del 1999; conf.: Cass. n. 2516 del 1999; Cass. n. 2638 del 1999; Cass. n. 2946 del 1999; Cass. n. 13727 del 2000).
Pertanto i criteri di scelta sono stabiliti dall’accordo sindacale o, sussidiariamente, dalla legge; solo la violazione dei criteri individuati da tali fonti può determinare l’illegittimità del recesso e non certo la divergenza rispetto ad eventuali criteri preannunciati nella comunicazione di apertura, ove non siano stati espressamente trasfusi nell’accordo sindacale o nella comunicazione ex art. 4, co. 9, l. n. 223 del 1991 (ancora Cass. n. 18504 del 2016).
Quindi la comunicazione preventiva con cui il datore di lavoro avvia la procedura di licenziamento collettivo, che deve avere i contenuti prescritti dall’art. 4, co. 3, l. n. 223 del 1991 ma non predeterminare criteri di scelta, ha essenzialmente la finalità di consentire all’interlocutore sindacale di esercitare in maniera trasparente e consapevole un effettivo controllo sulla programmata riduzione di personale (tra molte: Cass. n. 13031 del 2002; Cass. n. 5770 del 2003; Cass. n. 15479 del 2007; Cass. n. 5034 del 2009).
3.4. Compete al giudice del merito verificare – con accertamento di fatto non censurabile nel giudizio di legittimità ove assistito da idonea motivazione – l’adeguatezza della originaria comunicazione di avvio della procedura (ex aliis, Cass. n. 15479 del 2007; Cass. n. 8971 del 2014; Cass. n. 7940 del 2015).
In particolare la comunicazione prevista dalla L. n. 223 del 1991, art. 4, è in contrasto con l’obbligo normativo di trasparenza quando: a) i dati comunicati dal datore di lavoro siano incompleti o inesatti; b) la funzione sindacale di controllo e valutazione sia stata limitata; c) sussista un rapporto causale fra l’indicata carenza e la limitazione della funzione sindacale (Cass. n. 6225 del 2007; Cass. n. 880 del 2013; Cass. n. 7490 del 2015).
In proposito si è sovente affermato che, in tema di verifica del rispetto delle regole procedurali per i licenziamenti collettivi per riduzione di personale, la sufficienza dei contenuti della comunicazione preventiva di cui alla L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 4, comma 3, deve essere valutata in relazione ai motivi della riduzione di personale, che restano sottratti al controllo giurisdizionale (Cass. n. 9061 del 2016; Cass. n. 13794 del 2015), per cui, in relazione ad essi, “l’imprenditore può limitarsi all’indicazione del numero complessivo dei lavoratori eccedenti, suddiviso tra i diversi profili professionali previsti dalla classificazione del personale occupato nell’azienda, senza che occorra l’indicazione degli uffici o reparti con eccedenza” (in termini: Cass. n. 23526 del 2016).
3.5. Invero occorre ancora una volta ribadire che la l. n. 223 del 1991, nel prevedere agli artt. 4 e 5 la puntuale, completa e cadenzata procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilità, ha introdotto un significativo elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato ex post nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell’iniziativa imprenditoriale concernente il ridimensionamento dell’impresa, devoluto ex ante alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione secondo una metodica già collaudata in materia di trasferimenti di azienda. I residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non riguardano più, quindi, gli specifici motivi della riduzione del personale, ma la correttezza procedurale dell’operazione, con la conseguenza che non possono trovare ingresso, in sede giudiziaria, tutte quelle censure con le quali, senza contestare specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dai citati artt. 4 e 5 e senza fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle procedure di mobilità al fine di operare discriminazioni tra i lavoratori, si finisce per investire l’autorità giudiziaria di un’indagine sulla presenza di “effettive” esigenze di riduzione o trasformazione dell’attività produttiva (Cass. n. 21541 del 2006; Cass. n. 5089 del 2009; Cass. n. 2516 del 2012; Cass. n. 3176 del 2017 e molte altre).
3.6. Quanto all’applicazione dei criteri di scelta che, ove non predeterminati da accordi collettivi, debbono essere osservati in concorso tra loro secondo quanto previsto dall’art. 5 della l. n. 223 del 1991, è risalente il principio sancito da questa Corte secondo cui la regola del concorso dei criteri, se impone al datore di lavoro una valutazione globale dei medesimi, non esclude tuttavia che il risultato comparativo possa essere quello di accordare prevalenza ad uno di detti criteri e, in particolare, alle esigenze tecnico-produttive, essendo questo il criterio più coerente con le finalità perseguite attraverso la riduzione del personale, sempre che naturalmente una scelta siffatta trovi giustificazione in fattori obiettivi, la cui esistenza sia provata in concreto dal datore di lavoro e non sottenda intenti elusivi o ragioni discriminatorie (Cass. n. 1201 del 2000; Cass. n. 14434 del 2000; Cass. n. 11866 del 2006; Cass. n. 22824 del 2009).
In ogni caso, in tema di licenziamento collettivo, il relativo annullamento per violazione dei criteri di scelta ai sensi dell’art. 5 della l. n. 223 del 1991, non può essere domandato indistintamente da ciascuno dei lavoratori licenziati ma soltanto da coloro che, tra essi, abbiano in concreto subito un pregiudizio per effetto della violazione, perché avente rilievo determinante rispetto al licenziamento (Cass. n. 24558 del 2016).
4. Tanto premesso in diritto, il ricorso è in parte inammissibile ed in parte infondato.
4.1. Pur tralasciando il profilo di inammissibilità che parrebbe ricorrere in considerazione della mancata impugnazione del capo di sentenza che ha accertato il vizio di ultrapetizione della sentenza di primo grado (a fronte di un accenno di censura di tal fatta nell’ambito del motivo di ricorso), il ricorso è inammissibile perché la ricorrente richiama formalmente e promiscuamente le censure contenute sia nel n. 3) che nel n. 5) del comma 1 dell’art. 360 c.p.c., ma, secondo questa Corte, tale modalità di formulazione risulta non rispettosa del canone della specificità del motivo allorquando – come nella specie – nell’ambito della parte argomentativa del mezzo di impugnazione, non risulti possibile scindere le ragioni poste a sostegno dell’uno o dell’altro vizio, determinando una situazione di inestricabile promiscuità, tale da rendere impossibile l’operazione di interpretazione e sussunzione delle censure (v., in particolare, Cass. n. 7394 del 2010, n. 20355 del 2008, n. 9470 del 2008; v. anche Cass. SS.UU. n. 17931 del 2013).
Inoltre parte ricorrente nell’invocare l’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., non tiene in adeguata considerazione che la sentenza impugnata è sottoposta, ratione temporis, alla formulazione novellata dall’art. 54, co. 1, lett. b), del d.l. n. 83 del 2012, conv. l. n. 134 del 2012, senza rispettare in alcun modo i precetti imposti da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014, che hanno rigorosamente ridotto al “minimo costituzionale” il sindacato di legittimità sulla motivazione.
Tanto più che, per quanto premesso in diritto, costituisce pacifico principio ripetutamente sancito da questa Corte che compete esclusivamente al giudice del merito verificare l’adeguatezza della originaria comunicazione di avvio della procedura ai contenuti imposti dal comma 3 dell’art. 4 della l. n. 223 del 1991, con un accertamento di fatto che attualmente non è censurabile nel giudizio di legittimità ove non siano travalicati i limiti posti dal novellato n. 5 dell’art. 360 c.p.c. e sempre che ciò sia fatto valere secondo i canoni imposti dalle pronunce delle Sezioni unite citate.
Nelle specie il motivo in scrutinio è largamente insufficiente perché non evidenzia alcun omesso esame da parte della Corte territoriale di un fatto realmente decisivo, nel senso che se esaminato avrebbe condotto con certezza e non con il grado di mera probabilità, ad un esito diverso della controversia, piuttosto evidenziando una congerie di elementi fattuali, che sarebbero stati trascurati o male apprezzati dai giudici del merito, nella sostanza invocando un rinnovato esame delle risultanze di causa del tutto estraneo al giudizio di legittimità.
4.2. Nei limiti residui in cui la dedotta censura di violazione e falsa applicazione di legge appare ammissibile, la stessa risulta infondata.
Invero, la censura con cui parte ricorrente lamenta errori od omissioni nell’attribuzione dei punteggi per la formazione della graduatoria nella griglia comparativa non possono trovare accoglimento perché, secondo quanto di recente statuito da questa Corte con insegnamento cui occorre dare continuità, in tema di licenziamento collettivo, l’annullamento per violazione dei criteri di scelta ai sensi dell’art. 5 della l. n. 223 del 1991 può essere domandato soltanto a condizione che il lavoratore interessato abbia in concreto subito un pregiudizio per effetto della violazione, perché avente rilievo determinante rispetto al licenziamento.
Infatti non sussiste un indifferenziato interesse del singolo alla legalità dell’azione del datore di lavoro nell’espletamento della procedura di licenziamento collettivo, ma il licenziato deve innanzi tutto specificamente dedurre che l’errore o l’omissione denunciata quale violazione nell’applicazione del criterio di scelta abbia influito in modo determinate sulla sua selezione, nel senso che senza quell’errore o quell’omissione la scelta non avrebbe dovuto coinvolgerlo. Il che non risulta prospettato nella specie nel corso del giudizio di merito, avendo, inoltre, la Corte territoriale sottolineato che non era sufficiente lo svolgimento, di fatto, di mansioni di OTA essendo necessario il possesso del relativo titolo e qualifica.
5. Alla stregua delle osservazioni che precedono il ricorso va respinto. Le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.
Occorre dare atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, l. n. 228 del 2012.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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