CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 03 settembre 2018, n. 21573
Rapporto di lavoro – Demansionamento – Infarto del lavoratore – Risarcimento del danno biologico e del danno non patrimoniale
Fatti di causa
1.1. Con sentenza n. 5451/2013 la Corte di appello di Roma respingeva l’appello proposto da C. G. nei confronti della T. S.p.A. avverso la decisione del locale Tribunale n. 15754 del 14/10/2010 che aveva dichiarato l’inammissibilità del ricorso proposto dal G., inteso ad ottenere la condanna della società al risarcimento del danno biologico e del danno non patrimoniale per l’infarto subito in data 28/8/2003 in quanto causalmente ricollegato al demansionamento già accertato con precedente sentenza del Tribunale di Roma n. 18650 del 19/11/2008.
1.2. Riteneva la Corte territoriale che l’esperibilità dell’azione risarcitoria per ulteriori voci di danno, basata sul medesimo comportamento illegittimo, non potesse desumersi dalla circostanza che la domanda per i danni da demansionamento, come ritenuto nella sentenza del 2008, riguardasse solo il danno alla professionalità e non il danno non patrimoniale, non risultando che il ricorrente avesse formulato una riserva di azione per danni ulteriori.
1.3. Riteneva, altresì, che la nuova richiesta risarcitoria si basasse sulle medesime circostanze di fatto oggetto del precedente giudizio nel quale, peraltro, il G. aveva anche formulato domanda di risarcimento del danno biologico e morale per l’infarto subito, domanda che era stata respinta per mancanza di prova della condotta di mobbing a base della stessa.
2. Per la Cassazione della sentenza ricorre C.G. con due motivi.
3. T. S.p.A. resiste con controricorso.
4. Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
1.1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2909 cod. civ. e 99 cod. proc. civ. (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.). Lamenta l’erroneità della decisione nella parte in cui ha ritenuto preclusa dalla precedente sentenza del Tribunale di Roma n. 18650/2008 la domanda intesa ad ottenere, in relazione al demansionamento subito, il danno biologico e morale. Rileva che, con riguardo a tale demansionamento, era stata formulata solo richiesta di risarcimento del danno alla professionalità e che una domanda così espressamente indicata e delimitata lasciava fuori altre pretese di danno che ben potevano essere azionate successivamente.
1.2. Il motivo è infondato.
Nel corso del precedente giudizio il G. aveva chiesto con riferimento al demansionamento il danno professionale e con riferimento al mobbing il danno biologico. Con particolare riguardo a quest’ultimo, come si rileva dal punto 27 dell’originario ricorso trascritto a pag. 7 del ricorso per cassazione, aveva evidenziato che “lo stress, il disagio e, nel complesso il generale sconforto con cui il ricorrente aveva visto progressivamente svilire nei fatti la propria carriera professionale si manifestavano in maniera quanto mai imponente: il 28/3/2008 il sig. G. veniva ricoverato d’urgenza al Pronto soccorso dell’Ospedale (…), ove gli veniva diagnosticato un infarto miocardico inferiore”.
Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 18659/2008, aveva ritenuto provato il demansionamento e riconosciuto il danno professionale liquidandolo nel 15% dello stipendio base percepito dal G. dal primo luglio 2001 al 3 dicembre 2007, oltre interessi e rivalutazione dal giorno del dovuto al saldo. Aveva, però, escluso il danno da mobbing.
Intervenuta nel giudizio successivamente instaurato (a seguito di altro ricorso proposto dal G. in data 8/4/2010 e di pronuncia di inammissibilità del Tribunale di Roma), la Corte territoriale ha affermato che l’azione risarcitoria di cui a tale nuovo giudizio fosse basata sulle medesime circostanze del primo (e cioè demansionamento ed altri comportamenti asseritamente ascritti ad una condotta mobbizzante) e dunque su un medesimo fatto illecito.
L’affermazione non merita i rilievi che le vengono mossi.
La circostanza che il Tribunale, in sede di prima iniziativa giudiziaria del G., avesse escluso il mobbing e quindi il danno biologico posto in relazione a tale asserito comportamento illecito non rispandeva il diritto ad agire per il medesimo danno biologico in relazione alla componente ‘demansionamento’ della più complessa fattispecie di mobbing.
E del resto in quella sede giudiziaria non era stata avanzata dal ricorrente alcuna riserva di azione per danni ulteriori rispetto a quelli prospettati, il che conferma che il danno biologico per l’infarto patito dal ricorrente fosse stato posto in relazione al comportamento mobbizzante considerato nella sua interezza e dunque anche in relazione al demansionamento.
Non avendo il ricorrente impugnato quella sentenza per aver escluso il danno biologico in relazione alla suddetta componente ‘demansionamento’, non poteva il medesimo poi agire successivamente per far valere un diritto ormai coperto dal giudicato.
2.1. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. (art. 360, n. 4, cod. proc. civ.) e in via subordinata violazione e falsa applicazione degli artt. 112 cod. proc. civ. e 2909 cod. civ. (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.). Lamenta che la sentenza impugnata avrebbe omesso di pronunciarsi sul motivo di appello relativo al vizio di infrapetizione da parte della sentenza di primo grado che non si sarebbe pronunciata sulle altri voci di danno ricollegabili al demansionamento.
2.2. Il motivo è infondato.
Il ricorrente, prospettando un’omissione in sede di gravame, propone, invero, un’opzione interpretativa alternativa a quella di cui al primo motivo. Tuttavia anche questo rilievo non coglie nel segno.
La Corte territoriale non è incorsa in alcuna omessa pronuncia nel momento in cui ha ritenuto, a monte, preclusa la possibilità di agire per il risarcimento di altre voci di danno. Ciò ha fatto interpretando la domanda di cui alla prima iniziativa giudiziaria e ad essa riconnettendo anche l’inclusione delle ulteriori voci di danno.
Le censure che in questa sede il ricorrente propone non sono, perciò, conferenti con il decisum della Corte capitolina afferendo a questioni che semmai andavano fatte valere nell’ambito del giudizio precedente instaurato.
3. Da tanto consegue che il ricorso deve essere rigettato.
4. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura di cui al dispositivo.
5. Va dato atto dell’applicabilità dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, co. 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento/ in favore della controricorrente, delle spese delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 3.500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge e rimborso forfetario in misura del 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso articolo 13.
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