CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 04 aprile 2018, n. 8246

IVA, IRPEF ed IRAP – Avviso di accertamento – Maggiori imposte

Fatti di causa

1. Con sentenza n. 140 del 20 maggio 2010 la Commissione tributaria regionale della Sardegna, accoglieva parzialmente l’appello proposto da A. S. avverso la statuizione di primo grado che aveva rigettato il ricorso proposto dal predetto contribuente avverso l’avviso di accertamento di maggiori imposte ai fini IVA, IRPEF ed IRAP dovute per l’anno 2000 per indebita emissione di una nota di credito per corrispettivi non incassati in relazione a tre fatture emesse e per indebita imputazione di costi non di competenza.

1.1. I giudici di appello respingevano preliminarmente tutte le eccezioni sollevate dal contribuente in relazione alla carenza di motivazione dell’atto impositivo, alla violazione dello Statuto dei diritti del contribuente, alla decadenza dell’amministrazione finanziaria dal potere di accertamento e alla irregolarità della notifica dell’atto, rilevando, in relazione a tale eccezione, la regolarità della nomina del messo speciale notificatore per come risultante dalla documentazione prodotta ed acquisita nel corso del giudizio. Ritenevano, quindi, legittima la ripresa a tassazione dell’importo di cui alla nota di credito n. 1 del 31/12/2000, da considerarsi comprensiva, però, dell’importo indicato nella dichiarazione Mod. Unico 2001, rigo RG2, corrispondente ai ricavi che il contribuente presumeva di incassare nell’anno successivo, mentre, sul rilievo che l’ufficio finanziario non aveva tenuto conto dell’incidenza percentuale dei costi sui ricavi induttivamente rideterminati, li riconoscevano nella misura indicata dal contribuente nella dichiarazione reddituale.

2. Avverso tale statuizione il contribuente propone ricorso per cassazione affidato a sei motivi, cui replica l’Agenzia intimata con controricorso e ricorso incidentale affidato a due motivi.

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso viene dedotta, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 60, comma 1, lett. a), d.P.R. n. 600 del 1973, 22, comma 5, d.lgs. n. 546 del 1992, 115 cod. proc. civ., 2697, 2712 e 2719 cod. civ.

1.1. Sostiene il ricorrente che, a seguito di contestazione della inesistenza della notifica dell’avviso di accertamento impugnato per violazione dell’art. 60, comma 1, lett. a), d.P.R. n. 600 del 1973, perché effettuata da un messo speciale non regolarmente autorizzato dall’Ufficio, la CTR aveva ordinato all’amministrazione finanziaria l’esibizione “in visione” dell’originale del provvedimento, con ordinanza istruttoria emessa all’esito dell’udienza del 24/04/2009, cui l’Agenzia delle entrate aveva ottemperato mediante invio a mezzo posta indirizzata al presidente della Commissione dell’originale del provvedimento di nomina del messo speciale, che però non era stato inserito nel fascicolo d’ufficio, così da essergli stato impedito l’esame e l’estrazione di copia del documento esibito. Deduceva, altresì, che l’Agenzia delle entrate non aveva esibito alcun provvedimento da cui risultasse il rilascio in favore del capo area controllo dell’Ufficio, che aveva sottoscritto il provvedimento di nomina del messo speciale, della delega di tale potere da esercitarsi, come nella specie, in assenza del direttore della sede dell’Agenzia.

1.2. Secondo il ricorrente “la corretta applicazione delle norme, tutte richiamate in intestazione, avrebbe imposto di non considerare provati i poteri in capo al notificante, con conseguente inesistenza della notifica” (ricorso, pag. 71).

2. Il motivo è inammissibile.

2.1. Al riguardo va preliminarmente rilevato che, a seguito dell’eccezione di inesistenza della notifica dell’atto impositivo, sollevata dal contribuente con il ricorso introduttivo, l’Agenzia delle entrate, costituendosi, aveva provveduto a depositare copia del provvedimento di nomina del messo speciale notificatore, in relazione al quale non risulta, dalla sentenza impugnata o dall’esposizione dei fatti di causa contenuta nel ricorso in esame, che il contribuente abbia sollevato eccezione alcuna, né sulla conformità del documento al suo originale, né sulla regolarità della delega conferita al dirigente che quella nomina aveva sottoscritto, che è eccezione sollevata dal contribuente esclusivamente con l’atto di appello, come tale assolutamente nuova ed inammissibile.

Da ciò discende la tardività della contestazione della documentazione che risulta essere stata prodotta dall’amministrazione finanziaria in sede di costituzione nel giudizio di primo grado, in ossequio al principio giurisprudenziale secondo cui “l’art. 2719 cod. civ. esige l’espresso disconoscimento della conformità con l’originale delle copie fotografiche o fotostatiche e si applica tanto al disconoscimento della conformità della copia al suo originale quanto al disconoscimento dell’autenticità di scrittura o di sottoscrizione, dovendosi ritenere, in assenza di espresse indicazioni, che in entrambi i casi la procedura sia soggetta alla disciplina di cui agli artt. 214 e 215 cod. proc. civ. (cfr. Cass. n. 4476 del 2009, n. 13425 del 2014), che sono disposizioni processuali applicabili al giudizio tributario per effetto del rinvio contenuto all’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992.

Peraltro, diversamente da quanto ritiene il ricorrente (che a pag. 67 del ricorso sostiene che, laddove la CTR aveva accertato la conformità del documento originale esibito dall’Ufficio con la copia prodotta in giudizio, si era arrogato un potere di certificazione non spettantegli), è onere del giudice accertare (anche “aliunde”, ad esempio tramite presunzioni – cfr. Cass. n. 13425 del 2014) la conformità della copia di un documento con il suo originale, come pacificamente e correttamente avvenuto nel caso di specie.

3. Ciò posto in via preliminare, osserva il Collegio che con il mezzo di cassazione in esame il ricorrente deduce l’inesistenza, ma solo in astratto, della notifica dell’atto impositivo da parte di un messo speciale non regolarmente autorizzato dall’Ufficio, nulla dicendo sull’estraneità di tale soggetto all’amministrazione finanziaria, che è elemento essenziale per qualificare come inesistente la notifica, posto che tale grave forma di invalidità della notifica si verifica allorquando la stessa sia effettuata da soggetto che non abbia alcun rapporto con l’amministrazione finanziaria, che è circostanza, all’evidenza, diversa dall’ipotesi di notifica effettuata da soggetto che comunque riveste la qualifica di messo speciale dell’amministrazione finanziaria (che è circostanza nella specie neppure dedotta), ancorché il provvedimento autorizzativo sia viziato, in tal caso vertendosi in ipotesi di nullità della notifica sanabile – come avvenuto nella specie – per raggiungimento dello scopo. E’ appena il caso di ricordare il principio cui è pervenuta questa Corte (cfr. Cass. n. 12456 del 2008 e n. 1990 del 2014) in fattispecie che presenta evidenti analogie a quello qui in esame, ovvero nell’ipotesi di notifica (di ricorso per cassazione) effettuata fuori distretto da parte del messo dell’ufficio del giudice di pace (già messo di conciliazione) in assenza di provvedimento autorizzativo del presidente della corte di appello; ha affermato il principio secondo cui “stante l’equiparazione funzionale tra l’ufficiale giudiziario ed il messo di conciliazione (ora del giudice di pace), contenuta nella L. 15 dicembre 1959, n. 1229, art. 34, la notifica effettuata dal messo di conciliazione in difetto assoluto dell’autorizzazione del capo dell’ufficio giudiziario non è inesistente ma è affetta da nullità, che è sanabile non solo a seguito della costituzione della parte, ma anche in ogni altro caso in cui sia raggiunta la prova della avvenuta comunicazione dell’atto al notificato”, com’è nel caso qui vagliato.

4. Con il secondo mezzo di cassazione il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ.

4.1. Sostiene che i giudici di appello avevano omesso di pronunciare in merito al motivo di ricorso con cui aveva dedotto la violazione degli artt. 33 d.P.R. n. 600 del 1973 , 52 d.P.R. n. 633 del 1972 e 24 della legge n. 4 del 1929, per avere i verificatori omesso di redigere i verbali di verifica giornalieri ed il conclusivo processo verbale di constatazione.

5. Il motivo è infondato e va rigettato.

5.1. Al riguardo deve osservarsi che, seppure la CTR non abbia pronunciato in ordine alla domanda tempestivamente proposta (con il ricorso introduttivo del giudizio – v. pag. 2 dello “svolgimento del processo” della sentenza impugnata) e successivamente riproposta in appello (v. punto 3 delle conclusioni trascritte a pag. 1 della sentenza impugnata), nella specie, la palese infondatezza del motivo di appello non esaminato dai giudici di merito induce a rigettare la domanda nel merito in applicazione del principio giurisprudenziale secondo il quale, “alla luce dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo come costituzionalizzato nell’art. 111, comma 2, Cost., nonché di una lettura costituzionalmente orientata dell’attuale art. 384 c.p.c. ispirata a tali principi, una volta verificata l’omessa pronuncia su un motivo di gravame, la Suprema Corte può omettere la cassazione con rinvio della sentenza impugnata e decidere la causa nel merito allorquando la questione di diritto posta con quel motivo risulti infondata, di modo che la statuizione da rendere viene a confermare il dispositivo della sentenza di appello (determinando l’inutilità di un ritorno della causa in fase di merito), sempre che si tratti di questione che [come nel caso di specie] non richiede ulteriori accertamenti di fatto” (Cass. n. 16171 del 2017; n. 2313 del 2010).

5.2. Invero, come ammette lo stesso ricorrente, nella specie non vi è stato alcun accesso presso i locali dell’impresa, che peraltro aveva cessato l’attività (ricorso, pag. 74), da parte dei verificatori che si erano limitati ad acquisire la documentazione spontaneamente esibita dallo stesso contribuente a seguito di invito dell’amministrazione finanziaria. Attività che lo stesso ricorrente ammette essere stata correttamente verbalizzata nel “processo verbale di richiesta di documenti del 07.11.2007”, non essendo mai state effettuati accessi o ispezioni nei locali destinati all’attività commerciale.

5.3. Orbene, il d.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 1, prevede che “gli uffici dell’imposta sul valore aggiunto possono disporre l’accesso di impiegati dell’amministrazione finanziaria nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, artistiche, agricole o professionali per procedere ad ispezioni documentali, verificazioni e ricerche e ad ogni altra rilevazione ritenuta utile per l’accertamento dell’imposta e per la repressione dell’evasione e delle altre violazioni”, ed il comma 6 del medesimo articolo, prescrive che “di ogni accesso deve essere redatto processo verbale da cui risultino le ispezioni e le rilevazioni eseguite, le richieste fatte al contribuente o a chi lo rappresenta e le risposte ricevute. Il verbale deve essere sottoscritto dal contribuente o da chi lo rappresenta ovvero indicare il motivo della mancata sottoscrizione. Il contribuente ha diritto di averne copia”. Le suddette previsioni sono applicabili anche con riguardo alle imposte dirette in virtù del richiamo al citato d.P.R. n. 633 del 1972 , art. 52, comma 6, contenuto nel d.P.R. n. 600 del 1973, art. 33, comma 1. Come è evidente, pertanto, l’art. 52, citato, impone la redazione di verbale solo ed esclusivamente in caso di accesso per procedere ad ispezioni documentali, verifiche, ricerche e ad ogni altra rilevazione ritenuta utile, pertanto non è corretta la tesi sostenuta dal ricorrente secondo la quale anche nel caso di verifica documentale espletata autonomamente dall’amministrazione finanziaria nei propri uffici sarebbe necessaria la redazione sia dei verbali giornalieri che di quello di chiusura delle operazioni.

5.4. Al caso in esame, invece, è applicabile il disposto di cui all’art. 51, comma 2, n. 2, d.P.R. n. 633 del 1972 che prevede che “Per l’adempimento dei loro compiti gli uffici possono: […] 2) invitare i soggetti che esercitano imprese, arti o professioni, indicandone il motivo, a comparire di persona o a mezzo di rappresentanti per esibire documenti e scritture, ad esclusione dei libri e dei registri in corso di scritturazione, o per fornire dati, notizie e chiarimenti rilevanti ai fini degli accertamenti nei loro confronti […]”, stabilendo che “Le richieste fatte e le risposte ricevute devono essere verbalizzate a norma del sesto comma dell’art. 52” (sopra trascritto). Analoghe previsioni in materia di imposte dirette sono contenute nel d.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, che prevede, al comma 1, n. 2, che “Per l’adempimento dei loro compiti gli uffici delle imposte possono: […] 2) invitare i contribuenti, indicandone il motivo, a comparire di persona o per mezzo di rappresentanti per fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell’accertamento nei loro confronti […]”, stabilendo che “Le richieste fatte e le risposte ricevute devono risultare da verbale sottoscritto anche dal contribuente o dal suo rappresentante; in mancanza deve essere indicato il motivo della mancata sottoscrizione. Il contribuente ha diritto ad avere copia del verbale”, ed al n. 3 che gli uffici possono “invitare i contribuenti, indicandone il motivo, a esibire o trasmettere atti e documenti rilevanti ai fini dell’accertamento nei loro confronti”, stabilendo che “L’ufficio può estrarne copia ovvero trattenerli, rilasciandone ricevuta”.

6. Sulla base di quanto detto sopra deve pervenirsi alla conclusione che la CTR non ha violato le disposizioni indicate dal ricorrente nel motivo di appello rimasto privo di statuizione, non essendo tenuti i verificatori, in ipotesi di attività accertativa tutta interna all’amministrazione finanziaria, a redigere verbali di verifica giornalieri e quello conclusivo delle operazioni di verifica.

7. Il motivo di appello é, quindi, infondato e quello per cassazione va rigettato.

8. Con il terzo motivo di ricorso, dedotto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione degli artt. 60, comma 4, d.P.R. n. 917 del 1986, 26, comma 2, d.P.R. n. 633 del 1972, 1665 e 2697 cod. civ. laddove ha ritenuto di rideterminare i ricavi conseguiti nell’esercizio di competenza nell’importo di cui alla nota di credito n. 1 emessa il 31/12/2000 in relazione a fatture emesse “in assenza di pagamento” del corrispettivo “e, quindi, in anticipo rispetto al verificarsi del momento impositivo”, pur “in assenza della prova, da fornirsi a cura dell’Amministrazione Finanziaria, dell’avvenuto perfezionamento del diritto dell’appaltatore al corrispettivo nonché dell’intervenuta accettazione dello stesso da parte del committente” (ricorso pag. 79).

8.1. Il motivo è palesemente inammissibile avendo il ricorrente omesso di trascrivere, in spregio al principio dell’autosufficienza del ricorso per cassazione, postulato dall’art. 366, primo comma, n. 6, cod. proc. civ. (cfr., ex multis, Cass. n. 1142 del 2014), il contenuto dei documenti cui ha fatto riferimento, che neppure è dato evincere dal contesto del ricorso in esame, ed è altrettanto palesemente infondato laddove sostiene che grava sull’amministrazione finanziaria l’onere di provare il “perfezionamento del diritto dell’appaltatore al corrispettivo”, nonché l’accettazione dell’opera da parte del committente, ovvero di circostanze che, anche solo per il principio di vicinanza della prova, competeva dimostrare al deducente, il quale, peraltro, ha anche erroneamente interpretato il disposto di cui all’art. 1665 cod. civ. che consente alle parti di diversamente stabilire (“Salvo diversa pattuizione […]”, come si legge nel l’incipit del quinto comma della citata disposizione).

9. Con il quarto motivo di ricorso il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione dell’art. 36, comma 2, n. 4, d.lgs. n. 546 del 1992, e deduce altresì vizio motivazionale ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., lamentando che la CTR non aveva adeguatamente motivato le ragioni del rigetto delle eccezioni di illegittimità dell’avviso di accertamento proposte in primo grado e riproposte in grado di appello (oggetto dei successivi motivi di ricorso), peraltro ricomprenaÌD tra le stesse la censura di vizio di motivazione dell’avviso di accertamento che in realtà non aveva mia proposto.

10. Con il quinto motivo di ricorso, dedotto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione dell’art. 12, commi 2, 3, 4 e 7, della legge n. 212 del 2000, per avere i giudici di appello omesso di rilevare che il ricorrente non era stato messo in condizioni di partecipare alle operazioni di verifica e di esercitare le facoltà riconosciute dalle disposizioni censurate e che l’avviso di accertamento era stato notificato prima del decorso del termine di sessanta giorni dalla notificazione del processo verbale di constatazione, nella specie neanche predisposto.

11. Con il sesto motivo di ricorso, dedotto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione degli artt. 43 d.P.R. n. 600 del 1973, 57 d.P.R. n. 633 del 1972, 1 e 3 della legge n. 212 del 2000 e 10 della legge n. 289 del 2002. Sostiene che la CTR aveva ritenuto erroneamente prorogati i termini di accertamento, omettendo di disapplicare l’art. 10 della legge n. 289 del 2002 per incompatibilità con il diritto unionale.

12. Vanno preliminarmente e congiuntamente esaminate le violazioni di legge dedotte nel quinto e sesto motivo, che sono infondate e vanno rigettate.

13. Invero, la circostanza di cui si è dato atto esaminando il secondo motivo di ricorso, ovvero che nel caso di specie non si è proceduto ad alcuna verifica nei locali dell’impresa, esclude l’applicabilità delle disposizioni censurate con il quinto motivo, l’art. 12 dello Statuto dei diritti del contribuente (legge n. 212 del 2000) riferendosi solo ed esclusivamente a “gli accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all’esercizio di attività” d’impresa, ed in tal senso è stato costantemente interpretato da questa Corte, secondo cui “in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l’inosservanza del primo e terzo comma dell’art. 12 della legge 20 luglio 2000, n. 212, funzionali ad assicurare un’equilibrata composizione delle contrapposte esigenze delle parti nell’espletamento della verifica, garantendo, da un lato, la necessaria efficacia all’attività ispettiva dell’ufficio, e assicurando, dall’altro, la tutela dei diritti del contribuente sia come persona sia come soggetto economico, può determinare, pur in assenza di espressa previsione, la nullità del provvedimento impositivo solo qualora i verbalizzanti abbiano eseguito un accesso nei locali della impresa in difetto delle indicate esigenze di ricerca e rilevazione “in loco” e, dunque, non anche nell’ipotesi di verifica condotta in luoghi diversi” (Cass. n. 28390 del 2013, conf. a Sez. U. n. 18184 del 2013, in tema di notifica ante tempus del p.v.c. conclusivo degli accertamenti ma solo se effettuati “in loco”).

13. Infondato è anche il sesto motivo di ricorso, alla stregua del principio di diritto già affermato da questa Corte (cfr. Cass. n. 18828, n. 18827 del 2017 e n. 24014 del 2016), secondo cui, in tema di condono fiscale, dalla incompatibilità con il diritto dell’Unione europea del condono per IVA di cui alla I. n. 289 del 2002 non discende la disapplicazione dell’art. 10 I. citata, che dispone la proroga di due anni dei termini per l’accertamento, poiché tale norma non comporta alcuna rinuncia al pagamento di quanto dovuto per tale imposta, ma, anzi, ne costituisce un rafforzamento dell’accertamento e della riscossione.

13.1. A ciò aggiungasi che è orientamento consolidato di questa Corte quello secondo il quale “in tema di condono fiscale, la proroga biennale dei termini di accertamento, accordata dall’art. 10 della I. n. 289 del 2002, opera “in assenza di deroghe contenute nella legge” sia nel caso in cui il contribuente non abbia inteso avvalersi di tali disposizioni, pur avendovi astrattamente diritto, sia nel caso in cui non abbia potuto farlo, atteso che il meccanismo di proroga è finalizzato [secondo Corte cost. sent. n. 356 del 2008] a tutelare il preminente interesse dell’Amministrazione finanziaria all’accertamento e alla riscossione delle imposte” (Cass. n. 16964 del 2016, n. 6715 del 2017). Si è quindi precisato che “con le parole “che non si avvalgono” il legislatore abbia inteso collegare la proroga del termine alla riconducibilità almeno astratta della questione nell’ambito del condono. Di ciò vi è conferma nella sentenza delle Sezioni Unite 3676/2010, che hanno dato atto che il venir meno della disposizione che rendeva condonabili talune pratiche IVA disposto dalla sentenza della Corte Europea 17 luglio 2008 in causa C-132/06 avrebbe comportato in molte ipotesi, il venir meno per decadenza del potere di accertamento dell’Amministrazione. Hanno però evitato simile esito paradossale che avrebbe comportato il venir meno della riscossione dell’IVA, che il giudice europeo voleva invece salvaguardare, facendo ricorso al principio dell’affidamento. Le sezioni Unite hanno cioè dato atto che la sentenza europea avrebbe, in base ai principi della logica giuridica, determinato anche il venir meno della proroga di cui all’art. 10, ma hanno valorizzato la circostanza che la Amministrazione aveva legittimamente fatto affidamento su tale proroga” (Cass. n. 2277 del 2016).

14. Deve ritenersi assorbito il quarto motivo, con cui sono dedotti – peraltro cumulativamente e, quindi, inammissibilmente – la violazione dell’art. 36, comma 2, n. 4, d.lgs. n. 546 del 1992 ed il vizio motivazionale con riferimento alle questioni poste nei due precedenti motivi, evidenziandosi, altresì, la carenza di interesse del ricorrente a dedurre il rigetto da parte della CTR di una domanda mai avanzata (inerente al vizio di motivazione dell’avviso di accertamento).

15. Con il primo motivo di ricorso incidentale, al cui esame deve quindi passarsi, la difesa erariale ha dedotto, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 60, comma 4, d.P.R. n. 917 del 1986 e 26, comma 2, d.P.R. n. 633 del 1972 sostenendo che avevano errato i giudici di appello a riconoscere la sussistenza sub specie di “componenti negativi dell’esercizio”, costituito dall’importo di fatture passive da ricevere (per complessivi 260.098.000 di vecchie lire) facendo erronea applicazione della previsione della disposizione di cui all’art. 26, comma 2, d.P.R. n. 633 del 1972, che “riconosce il diritto alla detrazione di una parte dell’imposta solo in presenza di “procedure concorsuali o esecutive rimaste infruttuose” e non anche in tutti quei casi in [cui] per varie ragioni, viene meno un’operazione commerciale”.

16. Il motivo è inammissibile.

16.1. Invero, nella sentenza impugnata il riconoscimento dei maggiori costi, per l’importo corrispondente alle “fatture passive da ricevere”, non è frutto dell’applicazione della disposizione di cui all’art. 26, comma 2, d.P.R. n. 633 del 1972, bensì dell’applicazione del principio di capacità contributiva, avendo la CTR espressamente affermato che il reddito imponibile accertato (pari a Lire 872.615.858) non fosse “rispettoso” di quel principio “e non rispondente alla realtà in esame, la cui attività è cessata definitivamente il 21.12.2001”, e che per tale ragione di è determinata a riconoscere maggiori costi “pari all’importo registrato per i redditi prodotti nel 2000, cifra che, in mancanza di altri parametri, si ritiene equa e rispettosa del principio sulla capacità contributiva” (sentenza impugnata, pag. 6).

16.2. E’ quindi evidente che il mezzo di cassazione, così come proposto, non coglie la ratio decidendi del deliberato giudiziale, con conseguente sua inammissibilità.

17. Resta, quindi, assorbito il secondo motivo di ricorso incidentale con cui la difesa erariale deduce, sempre in relazione ai componenti negativi di reddito, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. sostenendo che la CTR aveva rideterminato il reddito imponibile del contribuente ponendo erroneamente a carico dell’amministrazione finanziaria l’onere della prova della sussistenza di costi da portare in detrazione.

18. Conclusivamente, quindi, vanno rigettati il secondo, il quinto e il sesto motivo di ricorso principale, va dichiarato inammissibile il primo e terzo motivo di ricorso principale ed il primo motivo di ricorso incidentale, assorbito il quarto motivo di ricorso principale e il secondo motivo di ricorso incidentale, e le spese integralmente compensate tra le parti.

P.Q.M.

rigetta il secondo, il quinto e il sesto motivo di ricorso principale, dichiara inammissibile il primo e il terzo motivo di ricorso principale ed il primo motivo di ricorso incidentale, assorbito il quarto motivo di ricorso principale e il secondo motivo di ricorso incidentale, e compensa le spese processuali.