CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 04 giugno 2018, n. 14199
Rapporto di lavoro dirigenziale – Licenziamento illegittimo – Competenza giurisdizionale – Prestazione lavorativa non svolta abitualmente o per la maggior parte del suo tempo in Italia – Normativa applicabile quella della sede ove si era proceduto all’assunzione – Convenzione di Roma del 19 giugno 1980, sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali
Fatti di causa
1. Con la sentenza n. 242/2013 la Corte di appello di Milano ha confermato la pronuncia n. 3645/2015 emessa dal Tribunale della stessa città con la quale, ritenuta la giurisdizione del giudice italiano, era stata respinta la domanda, proposta da F. B., volta ad accertare a carico di D. K. S. (quale titolare del contratto di lavoro), di D. K. L. (quale utilizzatrice della prestazione) e di C. AG (quale acquirente ex art. 2112 cc delle attività funzionali e delle strutture organizzative di cui egli faceva parte) che il rapporto di lavoro dirigenziale era cessato il 10.12.2009 a seguito di licenziamento intimato dalla titolare del rapporto e che detto licenziamento era illegittimo, con richiesta di condanna delle tre società in solido al pagamento della indennità sostitutiva del preavviso, dell’indennità supplementare e del TFR, nonché al pagamento del saldo del bonus del 2008 e le incidenze di questo su tutte le predette indennità e sul TFR, al risarcimento dei danni alla professionalità patiti.
2. A fondamento della decisione la Corte distrettuale, condividendo l’assunto del primo giudice, ha ritenuto che, sulla base delle risultanze istruttorie, non si poteva validamente sostenere che la prestazione lavorativa del B. fosse stata svolta abitualmente o comunque per la maggior parte del suo tempo in Italia e che, pertanto, in applicazione dell’art. 6 comma 2 della Convenzione di Roma, la normativa applicabile era quella della sede ove si era proceduto all’assunzione e, quindi, quella inglese, come peraltro era stato già scelto dalle parti al momento della sottoscrizione del contratto.
3. Avverso la sentenza di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione F. B. affidato a tre motivi.
4. La D. K. S., la C. F. L., già D. K. L. e la C. AG hanno resistito con controricorso.
5. Le parti hanno depositato memorie.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta la nullità della sentenza (art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c.) nonché la violazione dell’art. 115 c.p.c. e dell’art. 116 c.p.c. (art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c.) è la violazione dell’art. 2697 comma 2 cc, per avere erroneamente valorizzato la Corte distrettuale elementi che non configuravano, ciascuno e tutti, una prova in ordine alla circostanza che la sua sede di lavoro fosse Londra e che, allorquando lavorava presso gli uffici italiani, il relativo personale rispondeva non a lui ma al dott. P..
2. Con il secondo motivo si censura la violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. e dell’art. 116 c.p.c. (art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c.) per non avere la Corte territoriale basato il proprio convincimento su prove ma su elementi non idonei a configurare una prova.
3. Con il terzo motivo il B. si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 6 2° comma, lett. a) della Convenzione sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali firmata a Roma del 19.6.1980 (legge n. 975 del 18.2.1984), ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., perché la Corte, mal interpretando la suddetta disposizione, ai fini della individuazione del luogo di esecuzione abituale dell’attività lavorativa avrebbe dovuto verificare il luogo in cui esso ricorrente adempiva essenzialmente ai suoi obblighi lavorativi ovvero ove trascorreva la maggior parte del tempo lavorativo o adempiva di fatto la parte sostanziale delle sue obbligazioni ovvero in cui presentava il collegamento più stretto e non invece limitarsi ad individuare ove risiedesse, dove svolgeva vita sociale, dove aveva superiori, da dove partiva per recarsi in Milano.
4. I primi due motivi, da scrutinarsi congiuntamente per la loro connessione logico-giuridica, sono inammissibili.
5. In primo luogo, in tema di ricorso per cassazione, deve sottolinearsi che una questione di violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta da giudice di merito, ma rispettivamente, solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte di ufficio al di fuori dei limiti legali o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti, invece, a valutazione (Cass. 27.12.2016 n. 27000; Cass.19.6.2014 n. 13960): ipotesi queste non denunziate né ravvisabili nel caso in esame.
6. In secondo luogo, osserva il Collegio che le articolazioni delle censure, come formulate, si risolvono, in sostanza, nella richiesta di riesame dell’accertamento operato dalla Corte territoriale in fatto, che non è deferibile al giudice di legittimità cui spetta solo la facoltà di controllo della correttezza giuridica e della coerenza logica e formale delle argomentazioni del giudice di merito, non equivalendo il sindacato di logicità del giudizio di fatto a revisione del ragionamento decisorio (Cass. 16.12.2011 n. 27197; Cass. 19.3.2009 n. 6694; Cass. Sez. Un. 8053/2014).
7. In terzo ed ultimo luogo, deve rilevarsi che i fatti controversi oggetto delle censure sono stati manifestamente presi in esame dalla Corte territoriale e valutati in modo analogo dal giudice di prime cure di talché, vertendosi in una ipotesi di cd. “doppia conforme”, ai sensi dell’art. 348 ter u.c. c.p.c. (applicabile nel caso in esame essendo stati sia l’appello che la gravata sentenza rispettivamente stati proposti e depositati dopo rii.9.2012) l’esame di tutte le ragioni inerenti questioni di fatto (sostanzialmente riprodotte a prescindere dalla rubrica della dedotta violazione) è inammissibile in questa sede.
8. Il terzo motivo è infondato.
9. Preliminarmente giova precisare che, nella fattispecie in esame, in ordine alla giurisdizione del giudice italiano si è formato un giudicato interno non essendo stata impugnata, né in sede di appello né di legittimità, l’affermazione del giudice di primo grado che aveva superato le questioni preliminari di giurisdizione e competenza.
10. Deve, poi, rimarcarsi che il caso de quo è regolato dagli artt. 3 e 6 della Convenzione di Roma del 19.6.1980 e non dal Regolamento CE del 17 giugno 2008 n. 593 (sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali) che si applica ai contratti conclusi dopo il 17.12.2009.
11. Orbene, con l’entrata in vigore della legge 31.5.1995 n. 218, per effetto dell’art. 14 (secondo il quale l’accertamento della legge straniera è compiuta di ufficio dal giudice) la conoscenza della legge straniera da parte degli organi giudicanti nazionali, al pari della sua interpretazione secondo i criteri del successivo art. 15, non è più regolata come una questione di fatto, ma è divenuta una quaestio iuris. Nondimeno i presupposti di applicabilità di una determinata legge dipendono pur sempre dalla sussistenza di criteri di collegamento fondati su elementi di fatto, che devono essere ritualmente acquisiti alla causa (cfr. Cass 5.6.2009 n. 13087).
12. Il problema che viene posto nel presente giudizio, con la denunziata violazione di legge, riguarda appunto la individuazione del luogo di esecuzione abituale della prestazione lavorativa del B. che la Corte territoriale ha escluso essere in Italia sulla base sia delle modalità effettive di svolgimento dell’incarico assegnatogli sia per il contenuto di quest’ultimo.
13. La statuizione dei giudici di merito è conforme, in punto di diritto, alle pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione Europea n. 29/11 e 384/2011 secondo cui si deve tenere conto, ai fini della predetta indagine, di tutti gli elementi che caratterizzano la attività e, in particolare, del luogo a partire dal quale il lavoratore effettua le sue missioni, ove riceve le istruzioni per le sue missioni e organizza il suo lavoro, nonché il luogo in cui si trovano i suoi strumenti lavorativi.
14. Ed è conforme, altresì, alla precedente giurisprudenza della Corte di Giustizia (27 febbraio 2002 in C- 37/00; 13 luglio 1993 in C- 125/92) che, nell’individuazione del criterio di collegamento, ha distinto tra mansioni puramente esecutive e mansioni a contenuto professionale.
15. Con riferimento a queste ultime (il B., infatti, era un dirigente) è stato affermato che conta il criterio qualitativo del luogo ove il lavoratore ha stabilito il centro effettivo della sua attività, dove è l’ufficio a partire dal quale egli organizza le sue attività per conto del datore di lavoro e dove ritorna appunto dopo ogni viaggio professionale all’estero (cfr. anche Corte di Giustizia 9.1.1997 in C- 383/95).
16. Ne consegue che la Corte milanese, da un lato, ha correttamente applicato i criteri elaborati dalla giurisprudenza comunitaria ai fini della individuazione del concetto del luogo abituale di lavoro e, dall’altro, con argomentazioni congrue, coerenti e giuridicamente corrette, e quindi con un accertamento di merito insindacabile in cassazione, ha ritenuto che il centro effettivo degli interessi della attività lavorativa del B., desumibile dal luogo del suo ufficio ove vi era anche una segretaria che seguiva le sue necessità, dalla ridotta permanenza sotto l’aspetto quantitativo dell’attività in Italia, dalla discontinuità della stessa, dai rapporti gerarchici e dispositivi cui era sottoposto, dalla natura dei compiti assegnati nonché dalla residenza anagrafica e fiscale e della circostanza che viveva con la famiglia in Londra, dovesse essere individuato in Inghilterra e non in Italia.
17. Alcuna errata interpretazione della disposizione denunziata è, quindi, ravvisabile da parte dei giudici di merito né alcun vizio nel procedimento di sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta normativamente prevista.
18. Alla stregua di quanto esposto il ricorso deve essere rigettato.
19. Al rigetto segue la condanna del ricorrente al pagamento, in favore delle società controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità liquidate come da dispositivo. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore delle società controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 12.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del DPR n. 115/02, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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