CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 04 giugno 2018, n. 14202
Licenziamento orale – Abbandono volontario del posto di lavoro – Giudizio di primo grado introdotto con rito Fornero – Divieto di introdurre in sede di opposizione una diversa domanda su causa petendi del tutto nuova – Forma scritta ad substantiam delle dimissioni – Previsione nella contrattazione collettiva di forma convenzionale, quale forma scritta
Fatti di causa
1. Con sentenza del 4.12.2015, la Corte di Appello di Palermo confermava in sede di reclamo la sentenza del Tribunale che aveva respinto l’opposizione ex art. 1, comma 51, I. 92/2012 avverso l’ordinanza con cui era stata rigettata l’impugnazione di licenziamento orale proposta da M.C. nei confronti della Farmacia I. di M.A.P. & C. s.a.s., in considerazione dell’esito dell’istruttoria – ed a prescindere dall’accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso tra le parti – che aveva consentito di accertare che il rapporto fosse cessato non a seguito di licenziamento orale, ma per da parte della lavoratrice.
2. La Corte riteneva che il datore avesse compiutamente assolto l’onere probatorio su di lui ricadente di dimostrare la sussistenza di circostanze di fatto indicative dell’intento di controparte di recedere spontaneamente dal rapporto e che nel giudizio di primo grado a struttura bifasica, introdotto dalla Legge Fornero, il lavoratore in sede di opposizione potesse meglio precisare i fatti e le ragioni a sostegno dell’impugnativa di licenziamento, ovvero articolare nuovi mezzi istruttori, ma non potesse introdurre una nuova domanda (nella specie declaratoria di inefficacia delle dimissioni, per mancanza di forma scritta, con conseguente prosecuzione del rapporto di lavoro) fondata su causa petendi del tutto nuova, esulante da quella originaria ed anche dal campo di applicazione del nuovo rito, riservato all’impugnativa di licenziamento ai sensi dell’art. 18 St. Lav. novellato.
3. In ogni caso, doveva, secondo giudice del gravame, considerarsi la motivazione del Tribunale alla cui stregua, anche dando per proseguito il rapporto in conseguenza dell’inefficacia delle dimissioni, non risultava che la M. non avesse potuto eseguire la propria prestazione per il rifiuto opposto da controparte, essendo viceversa rimasto confermato che la predetta, dopo avere abbandonato il posto di lavoro, non aveva più manifestato interesse a farvi ritorno.
4. Di tale decisione chiede la cassazione la M., affidando l’impugnazione a cinque motivi, illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c., cui resiste, con controricorso, la società.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo, è dedotta nullità della sentenza o del procedimento in relazione all’art. 112 c.p.c., per omessa pronuncia su un’eccezione sollevata dalla ricorrente nel ricorso in opposizione ex art. 1, co. 51, I. 92/2012 e reiterata successivamente in reclamo, relativa all’assenza di prova scritta delle dimissioni che gravava su parte datoriale contrastare, in applicazione dell’art. 2697 c.c., 79, co. 2, c.c.n.I., 1352 e 1324 c.c.. Si assume che l’eccezione sollevata in primo grado non era stata esaminata in fase di opposizione ed era stata riproposta in sede di reclamo, evidenziandosi che, poiché la Corte non si è pronunziata sull’eccezione ritualmente sollevata circa la mancata produzione da parte del datore di dimissioni scritte della dipendente, doveva ritenersi nulla la sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c..
2. Con il secondo motivo, si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 1352, 1324 c.c., in correlazione con l’art. 79, comma 2, c.c.n.I. dei dipendenti delle Farmacie private del 26.5.2009, per avere la Corte ritenute integrate le dimissioni orali in un’ipotesi in cui era prevista, ai fini della validità delle dimissioni, la forma scritta ad substantiam actus.
3. Con il terzo motivo, si ascrive alla decisione impugnata violazione e falsa applicazione degli artt. 4 e 36 Cost. e dell’art. 2697 c.c. come interpretato dalla giurisprudenza per i casi di licenziamento in cui esista contrasto in ordine al quomodo della cessazione del rapporto lavorativo, posto che la Corte ha fatto gravare sulla ricorrente l’onere di provare l’avvenuto licenziamento, non spendendo alcuna parola in ordine alla manifestazione univoca di volontà di recesso della lavoratrice ed all’idoneità della sua comunicazione delle dimissioni, con ciò violando i principi posti dalla S. C. in materia di ripartizione dell’onere della prova. Si assume che la Corte avrebbe dovuto riscontrare in istruttoria non già che non fosse emerso che la lavoratrice fosse stata estromessa dal posto di lavoro per atto unilaterale del datore, ma la sussistenza di una manifestazione univoca dell’ incondizionata volontà della stessa di porre fine al rapporto e che questa volontà fosse stata comunicata in modo idoneo alla controparte.
4. Con il quarto motivo, viene dedotta la nullità della sentenza per violazione dell’art. 1, comma 48, I. 92/2002, che consente di proporre domande diverse da quelle relative all’impugnazione del licenziamento, purché fondate sugli identici fatti costitutivi, laddove la Corte di appello ha, invece, dichiarato inammissibile la domanda reintegratoria ed economica discendente dell’inefficacia delle asserite dimissioni, pure essendo la domanda fondata su fatti identici.
5. Infine, con il quinto, si lamenta l’omessa esplicita pronuncia sulla domanda di accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, pur ritenendosi che fosse stato implicito un tale accertamento.
6. Quanto al primo motivo, deve rilevarsi che in realtà la questione della inefficacia delle dimissioni non era stata sollevata nel ricorso, ma solo in sede di opposizione (come si evince dalla stessa motivazione della sentenza di secondo grado che qualifica come causa petendi del tutto nuova quella sottostante alla domanda di declaratoria di inefficacia delle dimissioni carenti di forma scritta articolata nel giudizio di opposizione e non nel ricorso originario) e la Corte di Palermo motiva su diverso piano, ritenendo che la domanda subordinata fondata sulla inefficacia delle dimissioni per carenza di successiva convalida, ovvero di forma scritta secondo il CCNL, non poteva trovare ingresso in sede di opposizione.
Non vi è quindi spazio per una censura fondata sulla violazione dell’art. 112 c.p.c.
7. La stessa questione viene, tuttavia, in rilievo, indipendentemente da ogni considerazione sulla diversità del petitum e della causa petendi (questione per vero posta anche dal 4° motivo), in diversa prospettiva valutativa laddove, anche con il secondo motivo, si contesta la decisione in relazione alla valutazione del comportamento della lavoratrice espressivo della volontà di porre fino al rapporto, nell’ambito dell’accertamento da compiersi in relazione alla prospettazione di nullità del licenziamento orale. Rispetto ad una tale deduzione, è pacifico che la prova gravante sul lavoratore riguarda esclusivamente la cessazione del rapporto lavorativo, mentre la prova sulla controdeduzione del datore di lavoro – avente valore di una eccezione – ricade sull’eccipiente – datore di lavoro, ex art. 2697 cod. civ. (cfr. Cass. 27.8.2007 n. 18087, cui sono conformi Cass. 19.10.2011 n. 21684, Cass. 15.1.2015 n. 610; precedentemente, v., tra le altre, Cass. 20.5.2005 n. 10651).
8. Occorrerebbe, pertanto, affrontare, indipendentemente dalla rilevanza o meno della diversità di petitum e causa petendi di una nuova domanda introdotta nel giudizio di opposizione, la questione, rilevante ai fini della validità ed esaustività della prova mirante a contestare la sussistenza di un licenziamento orale, della necessità che questa abbia ad oggetto dimissioni della lavoratrici validamente rassegnate nel caso in cui sia richiesta la forma scritta ad substantiam. Sulla questione va richiamata Cass. 9.8.2012 n. 14343, secondo cui, ove le parti abbiano espressamente previsto nel contratto, collettivo o individuale, una forma convenzionale, quale la forma scritta, quest’ultima si presume voluta per la validità dell’atto di dimissioni, a norma dell’art. 1352 cod. civ., applicabile anche agli atti unilaterali, con la conseguenza che le dimissioni rassegnate oralmente, anziché per iscritto come richiesto dalla contrattazione collettiva applicabile sono invalide per difetto della forma “ad substantiam” (negli stessi termini, precedentemente, Cass. 13.7.2001 n. 9554, Cass. 27.4.2001 n. 6132, Cass. 13.4.2000, Cass. 12.6.1998 n. 5922).
9. Tuttavia, deve rilevarsi che nella specie la Corte del merito ha, con motivazione concorrente alternativa, idonea di per sé ed autonomamente a sorreggere il decisum, condiviso la motivazione del Tribunale secondo cui, dando per proseguito il rapporto in conseguenza dell’inefficacia delle dimissioni, non risultava che la M. “non abbia potuto eseguire la propria prestazione per il rifiuto opposto dalla controparte”, ritenendo nella sostanza che la presunta offerta della prestazione lavorativa non potesse dirsi integrata dagli incontri, genericamente richiamati che sarebbero avvenuti tra il difensore della M. e la Pericone, titolare della farmacia, che dovevano inquadrarsi, invece, nell’ambito dei consueti confronti tra le parti finalizzati ad evitare un’eventuale lite giudiziaria.
10. Al riguardo è opportuno il richiamo a Cass. 16.5.2001 n. 6727, secondo cui la mancata prova del licenziamento, peraltro, non comporta dì per sé l’accoglibilità della tesi – eventualmente sostenuta dal datore di lavoro – della sussistenza delle dimissioni del lavoratore o di una risoluzione consensuale, e, ove manchi la prova adeguata anche di tali altri atti estintivi, deve darsi rilievo agli effetti della perdurante sussistenza del rapporto di lavoro, per quanto di ragione (in relazione anche al principio della non maturazione del diritto alla retribuzione in difetto di prestazioni lavorative, salvi gli effetti della eventuale “mora credendi” del datore di lavoro rispetto alle stesse), tenuto presente anche che, quando è chiesta la tutela (cosiddetta reale) di cui all’art. 18 legge n. 300 del 1970 o all’art. 2 della legge n. 604 del 1966, l’impugnativa del licenziamento comprende la richiesta di accertamento di inesistenza di una valida estinzione del rapporto di lavoro, della vigenza del medesimo e di condanna del datore di lavoro alla sua esecuzione e al pagamento di quanto dovuto per il periodo di mancata attuazione (cfr. in tali termini, Cass. 6727/2001 cit.)
11. A fronte dell’affermazione conclusiva della Corte, per la quale “difettava il presupposto di fatto astrattamente necessario per dare ingresso alla richiesta di declaratoria di prosecuzione del rapporto come conseguenza dell’inefficacia delle dimissioni, restando viceversa confermato che la M. dopo avere abbandonato il posto di lavoro non ha più manifestato interesse a farvi ritorno” , il ricorso avrebbe dovuto contenere una specifica critica a tale ulteriore ed autonoma ratio deciderteli. Sicché, in mancanza di impugnazione della stessa, deve pervenirsi alla declaratoria di inammissibilità dei motivi scrutinati.
12. Al riguardo deve, invero, richiamarsi quanto in più pronunzie affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, enunciando il principio secondo il quale, nel caso in cui venga impugnata con ricorso per cassazione una sentenza (o un capo di questa) che si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario, per giungere alla cassazione della pronuncia, non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza con l’accoglimento di tutte le censure, affinché si realizzi lo scopo proprio di tale mezzo di impugnazione, il quale deve mirare alla cassazione della sentenza, “in toto” o nel suo singolo capo, per tutte le ragioni che autonomamente l’una o l’altro sorreggano. Ne consegue che è sufficiente che anche una sola delle dette ragioni non abbia formato oggetto di censura, ovvero, pur essendo stata impugnata, sia respinta, perché il ricorso o il motivo di impugnazione avverso il singolo capo di essa, debba essere respinto nella sua interezza, divenendo inammissibili, per difetto di interesse, le censure avverso le altre ragioni poste a base della sentenza o del capo impugnato (cfr., in tal senso, Cass. sez. lav., 18.5.2006 n. 11660; Cass. 8.8.2005 n. 16602; Cass. 8.2.2006, n. 2811; Cass. 22.2.2006 n. 3881; Cass. 20.4.2006 n. 9233; Cass. 8.5.2007 n. 10374; Cass. sez. I 14.6.2007 n. 13906, conf. a Cass., sez. un. 16602/2005).
13. Ciò assume efficacia assorbente rispetto ad ogni altra deduzione (quinto motivo afferente al mancato accertamento della subordinazione), con la conseguenza che il ricorso deve essere complessivamente respinto.
14. Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza della ricorrente e sono liquidate come da dispositivo.
15. Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, dPR 115 del 2002.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la M. al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi, euro 4000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonché al rimborso delle spese forfetarie in misura del 15%.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002 art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 bis, del citato D.P.R..
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