CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 04 luglio 2018, n. 17514

Licenziamento – Autista di pulman – Svolgimento di altra attività lavorativa durante i periodi di assenza per malattia – Grave condotta di mala fede e slealtà – Proporzionalità della sanzione

Fatti di causa

1. Con sentenza dell’11.7.2016 la Corte d’appello di Napoli ha confermato la sentenza del Tribunale della medesima sede che ha dichiarato legittimo il licenziamento intimato a G.N., dipendente della società C. Sviluppo Industriale s.p.a. con mansioni di autista di pulman riservati al noleggio privato, per aver svolto altra attività di lavoro, nella specie direzione delle operazioni di parcheggio (con coordinamento del personale ivi addetto e riscossione dei pagamenti da parte dei clienti) nell’area privata di sosta S., durante i lunghi periodi di assenza per malattia (oltre 100 giorni nel Periodo marzo-luglio 2013) e per infortunio in itinere (dal 7.8. al 14.10.2013), per giunta senza l’adozione delle prescrizioni imposte dal medico curante (collare cervicale) e per numerose ore consecutive.

2. La Corte territoriale, ritenuto pacifica l’adibizione del N. al settore del noleggio privato, ha preliminarmente ritenuto il procedimento di intimazione della sanzione rispettoso della procedura dettata dall’art. 7 della legge n. 300 del 1970, non potendosi applicare il Regio decreto n. 148 del 1931 riservato al settore dei trasporti pubblici, e, nel merito, ha ritenuto sorretto da giusta causa il provvedimento espulsivo, proporzionato alla grave condotta di mala fede e di slealtà tenuta dal lavoratore che aveva adottato – durante il periodo di assenza per malattia e per infortunio – un comportamento incompatibile con lo stato morboso rivelatosi, di fatto, insussistente e, comunque, un comportamento tale da compromettere e ritardare (in considerazione delle circostanze soggettive ed oggettive in cui l’attività si era svolta) il recupero della forma fisica e delle energie necessarie.

3. Il N. ha proposto ricorso per cassazione avverso tale sentenza affidato a tre motivi. La società ha depositato controricorso.

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del R.d. n. 148 del 1931 e degli artt. 1-4, della legge n. 1054 del 1960 (ex art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, trascurato che il R.d. n 148 del 1931, in quanto integrato e modificato dalla legge n. 1054 del 1960, si applica altresì al settore del noleggio privato con conseguente esclusione del potere di licenziare per casi di simulazione di malattia, necessità di preventiva istruttoria ed accesso agli atti nonché deliberazione del Consiglio di disciplina al fine di irrogare validamente una sanzione. La circostanza, inoltre, dell’adibizione del N. al settore del noleggio privato era citata “velatamente” nel ricorso introduttivo del giudizio proposto dalla società e, pertanto, non poteva ritenersi allegazione specifica tale da richiedere una contestazione da parte del lavoratore.

2. – Con il secondo motivo si lamenta violazione falsa applicazione degli arttt. 2697 cod.civ., 5 della legge n. 604 del 1966, 2119 cod.civ. nonché error in procedendo e vizio di motivazione (ex art. 360, primo comma, nn. 3, 4 e 5, cod.proc.civ.) non avendo, la Corte, adeguatamente valutato la scarsa gravità della condotta tenuta dal lavoratore che si è limitato a dirigere altri addetti ai lavori (di parcheggio delle autovetture) e ad omettere l’uso del collare cervicale, senza che sia stata acquisita prova medica ed inconfutabile del peggioramento dello stato di salute. La Corte territoriale non ha tenuto conto di tutte le circostanze nelle quali i fatti sono stati commessi e, soprattutto, ha erroneamente valutato il grado e l’intensità dell’elemento intenzionale nonché la proporzionalità senza giungere ad un accertamento inequivocabile della reale lesione dell’elemento fiduciario.

3. Con il terzo motivo si denuncia violazione falsa applicazione degli arttt. 1175, 1375, 1455, 2104, 2106, 2119 cod.civ., 5 della legge n. 604 del 1966, 7 della legge n. 300 del 1970, R.d. n. 148 del 1931 nonché error in procedendo e vizio di motivazione (ex art. 360, primo comma, nn. 3, 4 e 5, cod.proc.civ.) non avendo, la Corte territoriale nonché il Tribunale in primo grado, effettuato una compiuta analisi della condotta inadempiente con riguardo alle mansioni assegnate al lavoratore. Il N., addetto alla guida di mezzi privati e pubblici, aveva usufruito di giorni di malattia per un diagnosticato “trauma cranico e stato confusionale transitorio, cervicalgia da contraccolpo” riportati a seguito di un incidente stradale e in tali giorni non si è posto nuovamente alla guida di automezzi né ha esercitato una vera e propria attività lavorativa, limitandosi semplicemente ad impartire direttive ai dipendenti di un parcheggio di auto appartenente all’azienda di famiglia, attività che non richiedeva alcun dispendio di energie né arrecava repentaglio allo stato di salute (circostanza, in ogni caso, che doveva essere accertata tramite una consulenza medica).

4. Il primo motivo di ricorso è, in parte, inammissibile e, in parte, infondato.

Inammissibile ove, rilevando la generica allegazione – da parte della società – delle mansioni disimpegnate dal N., viola il principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, secondo cui parte ricorrente avrebbe dovuto, quantomeno, trascrivere nel ricorso il contenuto (o un estratto significativo) del ricorso introduttivo del giudizio proposto dalla società stessa, fornendo al contempo alla Corte elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il reperimento negli atti processuali, potendosi solo così ritenere assolto il duplice onere, rispettivamente previsto a presidio del suddetto principio dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (Cass. 12 febbraio 2014, n. 3224; Cass. SU 11 aprile 2012, n. 5698; Cass. SU 3 novembre 2011, n. 22726). La carenza si evince vieppiù chiaramente a fronte del tenore testuale della sentenza impugnata che ha rilevato come “nonostante l’eccezione formulata specificamente sul punto [adibizione del N. al settore del noleggio privato piuttosto che al servizio di trasporto pubblico] dalla C. già in primo grado, nulla la difesa dell’appellante ha articolato o provato sul punto” (pag. 4 della sentenza).

Il ricorso è, inoltre, infondato posto che la legge 22.9.1960, n. 1054 – come tutte le altre novelle normative successive al Regio decreto 8.1.1931, n. 148, come correttamente rilevato dalla sentenza impugnata – ha esteso la disciplina dettata dal Regio decreto n. 148 del 1931 al personale adibito a pubblici servizi di linea (esercitati direttamente da enti pubblici, ovvero dati in concessione), nel caso di specie di linea extraurbana, come si evince chiaramente dal tenore testuale e dalla lettura sistematica degli strumenti normativi in oggetto. La disciplina richiamata dal ricorrente si pone, anzi, nel segno contrario rispetto a quello prospettato dal ricorrente avendo previsto per le aziende di modeste dimensioni al di sotto dei 26 dipendenti, l’operatività, in materia disciplinare degli autoferrotranvieri, del regime privatistico, dimostrando chiaramente la tendenza, sempre più accentuata con gli interventi legislativi successivi a quello evocato dal ricorrente, di avvicinare la regolamentazione degli autoferrotranvieri al regime privatistico, tendenza che questa Corte, con autorevoli interventi, non ha mancato di sottolineare ed avallare ove si sia riscontrata la necessità di integrare o sostituire i singoli istituti dettati dal Regio decreto in quanto incompatibili con il sistema in generale, “tenuto conto del progressivo avvicinamento del sistema dei trasporti pubblici e del relativo rapporto di lavoro al regime privatistico, della contrattualizzazione del pubblico impiego e, soprattutto, dell’immanenza nel nostro ordinamento giuridico , con riferimento al rapporto di lavoro, di principi fondamentali anche di livello comunitario che devono presiedere nell’esegesi delle norme disciplinanti qualsiasi rapporto di lavoro” (Cass. Sez. U. n. 15540 del 2016).

5. Il secondo e il terzo motivo di ricorso, attenendo tutti al processo di sussunzione della fattispecie concreta nella nozione legale di giusta causa, possono essere trattati congiuntamente, e sono infondati.

In tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, denotando scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza; spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell’addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all’assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo (cfr. Cass. 13.2.2012 n. 2013 e, precedentemente, in senso analogo, tra le tante, Cass. 21.6.2011 n. 13574; Cass. 7.4.2011 n. 7948; Cass. 2.3.2011 n. 5095; Cass. 18.2.2011 n. 4060). In particolare, la giusta causa di licenziamento è nozione legale ed il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo onde lo stesso può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento, secondo un apprezzamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore e, per altro verso, può escludere altresì che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato (cfr. Cass. 4060/2011 cit.).

Come questa Corte ha più volte affermato e va qui ribadito, “in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione all’illecito commesso – istituzionalmente rimesso al giudice del merito – si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo tenersi al riguardo in considerazione la circostanza che l’inadempimento, ove provato dal datore di lavoro in assolvimento dell’onere su di lui incombente L. n. 604 del 1966, ex art. 5, deve essere valutato tenendo conto della specificazione in senso accentuativo a tutela del lavoratore rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 cod. civ., sicché l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria – durante il periodo di preavviso – del rapporto” (v. Cass. 14.1.2003 n. 444, Cass. 25.2.2005 n. 3994, Cass. 16.5.2006 n. 11430, Cass. 24.7.2006 n. 16864, Cass. 10.12.2007 n. 25743, Cass. 22.3.2010 n. 6848, Cass. 21.6.2011 n. 13574).

Nella fattispecie, la Corte di merito ha rilevato che: doveva ritenersi (a seguito di applicazione del principio di non contestazione, oltre che dal copioso materiale probatorio e fotografico fornito dal datore di lavoro) provata “l’attività di gestione attiva del parcheggio del lido S. da parte del lavoratore che è stato osservato intento nell’attività per numerose ore consecutive nei giorni indicati in contestazione [100 giorni nel periodo marzo-luglio 2013 nonché assenza continuativa dal 7.8 al 14.10.2013] e che è stato poi fotografato in pose di evidente attività, orientata all’indicazione dei luoghi e delle modalità di parcheggio ai clienti” (pag. 7 della sentenza impugnata); “la frequenza settimanale delle osservazioni [da parte dell’agenzia investigativa incaricata dal datore di lavoro] e la costante presenza dell’appellante inducono a ritenere che si trattasse di attività svolta con regolarità praticamente quotidiana .. con posture certamente non riposanti anche perché mantenute per ore e sotto il calore del sole pieno” (pag. 8); le azioni compiute dal N. “apparivano ictu oculi” incompatibili con la denunziata infermità o comunque sicuramente idonei a ritardare se non a compromettere il recupero della forma fisica e delle energie necessarie. Il lavoratore è stato osservato per ore gestire le attività di parcheggio dei clienti, rilasciare scontrini, restare in piedi sotto il sole a dare indicazioni sia presso il lido che presso il parcheggio; in un’occasione era stato anche fotografato mentre armeggiava con la realizzazione di un manufatto di legno; in un’occasione, in data 1.9.2013, era stato visto e fotografato intento nelle solite attività, senza avere indosso il prescritto collare protettivo; l’insieme di tali condotte denotava una buona efficienza fisica, con particolare riferimento all’apparato osteoarticolare e risultavano del poco compatibili con la effettiva sussistenza dell’affezione che aveva dato luogo alla sua prolungata assenza” (pag. 10 della sentenza impugnata).

Tale motivazione, incentrata su tutti gli elementi oggettivi e soggettivi emersi, risulta conforme ai principi sopra richiamati, nonché congrua e priva di vizi logici e resiste alle censure del ricorrente.

6. In conclusione, il ricorso va rigettato e le spese del presente giudizio di legittimità seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.