CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 04 luglio 2019, n. 18000
Rapporto di lavoro – Mobbing – Risarcimento danni – Accertamento della responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ
Fatti di causa
1. La Corte d’appello di L’Aquila con sentenza del 14 luglio 2016, in conferma della pronuncia di primo grado, ha rigettato l’appello proposto da M.P. contro la sentenza del Tribunale di Chieti, con la quale era stata respinta la domanda volta all’accertamento di una condotta dannosa e mobbizzante nei confronti del lavoratore ed alla condanna al risarcimento dei danni che questi assumeva ne fossero derivati.
2. La Corte di merito, dopo aver richiamato i principi giurisprudenziali che governano l’accertamento della responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 cod. civ., ha ritenuto, concordando con le valutazioni espresse dal giudice di primo grado, che il lavoratore non avesse fornito sufficiente prova della violazione degli obblighi posti a carico del datore dall’art. 2087 cod. civ. e neppure che fosse stata fornita la prova del nesso di causalità tra le mansioni a cui il lavoratore era stato adibito e la patologia sofferta (sindrome ansioso depressiva), diagnosticata per la prima volta il 9.6.2008, pochi mesi prima della cessazione del rapporto di lavoro, del 4.8.2008.
3. La corte ha, in particolare, osservato, sulla base delle risultanze istruttorie, che il lavoratore, rientrato in servizio dopo una grave malattia, era stato visitato periodicamente, e giudicato idoneo al lavoro (in un primo tempo con la prescrizione di evitare lavori gravosi, usuranti e defaticanti e con l’esclusione di lavoro manuale, in un secondo tempo idoneo per il lavoro di addetto all’imballo rotoli, che aveva svolto, pur sconsigliandosene la assegnazione a lavori gravosi e defaticanti e ad elevate temperature ambientali), ed ha quindi escluso che che la patologia riscontrata (sindrome ansioso-depressiva) fosse ricollegabile alla attività lavorativa
4. A tale conclusione la corte è pervenuta in considerazione della breve durata della esposizione dalla data dell’accertamento della patologia, e del fatto che “a fronte della ipotizzata azione lesiva A.C., determinata dalle mansioni espletate” alle quali tuttavia il medico competente lo aveva giudicato idoneo ripetutamente, il lavoratore non avesse nel ricorso fornito elementi sufficienti circa la durata delle mansioni, la continuatività dell’esposizione a rischio, deducendo al contrario allegazioni insufficienti ai fini di un attendibile giudizio di gravosità delle prestazioni lavorative, anche alla luce della notevole distanza di tempo tra la adibizione alle mansioni contestate e la prima diagnosi di sindrome ansioso depressiva seguita dopo poco tempo dalla cessazione del rapporto di lavoro nonchè della ricorrenza di fattore causale extralavorativo, costituito dalla pregressa patologia tumorale. 5. La corte ha pure escluso la sussistenza degli elementi del dedotto mobbing verticale, non essendo emersa dalla istruttoria prova del dolo specifico, dell’intento persecutorio, della reiterazione delle condotte, ma solo di un mero conflitto interpersonale tra lavoratore e controparte datoriale; ha infine puntualizzato, la corte, come il lavoratore si fosse sottratto pure alla allegazione del danno subito, in termini di concreti svantaggi, privazioni e ostacoli derivanti dalla menomazione denunciata.
6. Avverso tale sentenza, ha proposto ricorso per cassazione il M., affidato a due motivi, cui ha resistito con controricorso la s.p.a. B.G., illustrato da memoria, ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Ragioni della decisione
7. – Col primo motivo di ricorso il M. ha censurato la sentenza, ai sensi degli artt. 360 n. 3 e 4 c.p.c., deducendo la violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c, dell’art. 41 del D.L.vo/81 e degli artt. 112 c.p.c.e 2697 c.c., in cui sarebbe incorso il collegio d’appello, ritenendo erroneamente che, dalla circostanza che il medico competente avesse ripetutamente attestato la compatibilità delle condizioni di salute del lavoratore con le specifiche mansioni di assegnazione, dovesse desumersi la irrilevanza della prova orale e concordando con la valutazione del giudice di merito circa la genericità dei capitoli di prova.
In particolare, ha osservato il ricorrente, avrebbe errato la corte nel ritenere che l’attività posta in essere dal medico aziendale di cui all’art. 41 del D.I.vo 81/08, implichi anche l’accertamento concreto che il lavoratore sia adibito alle mansioni giudicate compatibili (nel caso di specie -invece- comportanti la esposizione ad una elevata temperatura, e accompagnate da ripetute vessazioni del capo reparto) ed avrebbe errato nel ritenere generici e irrilevanti i capitoli di prova, riferiti all’intero periodo successivo al rientro dalla malattia, che, invece, dovevano considerarsi specificamente articolati.
Per tale via, secondo il ricorrente, i giudici di merito non avevano consentito la prova di fatti che avrebbero condotto all’accoglimento della domanda ex art. 2087 c.c. (invece rigettata per difetto di prova) poiché dalla prova sarebbe emersa la violazione delle prescrizioni del medico competente che aveva sconsigliato di adibire il M. a mansioni eccessivamente faticose e incompatibili con il suo stato di salute . 8 Con il secondo motivo il ricorrente deduce ai sensi degli artt. 360 n. 3 e 4 c.p.c. la violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. 2043, 2697 cod. civ. in relazione agli artt. 112, 113, 115, 116 c.p.c.e la violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c. in cui sarebbe incorsa la sentenza di appello ritenendo, sulla scorta di una errata interpretazione della causalità rilevante ai sensi dell’art. 2087 c.c., la irrilevanza della prova delle condizioni lavorative estremamente stressanti in cui era stato posto il M..
Avrebbe, in particolare, errato la corte, non considerando che, nel sistema risarcitorio civilistico, il criterio di accertamento del nesso di causalità è regolato dal principio della regolarità causale, in coordinazione con il principio della causalità efficiente, quale temperamento della regola della equivalenza causale, cosicchè anche la sussistenza della malattia non poteva essere considerata di per sé unico elemento idoneo al verificarsi dell’evento, ove fossero stati ammessi i mezzi di prova in ordine alle mansioni svolte.
8.1. Deduce altresì, sotto altro profilo, il ricorrente, il vizio in cui sarebbe incorsa la corte territoriale, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., non avendo tenuto conto, in contrasto con l’art. 416, comma 3, c.p.c., del fatto che la società convenuta nel merito non aveva contestato le allegazioni del ricorrente quanto ai fatti storici dedotti (come l’avere egli sin dal principio espresso il proprio dissenso in ordine alle mansioni, poiché incompatibili rispetto al suo stato di salute, ed anche l’avere allegato la esistenza di mansioni meno gravose che non gli erano state offerte, nonché di aver fornito allegazioni circa l’atteggiamento ostile e persecutorio del caporeparto, etc).
8.2. Avrebbe, infine, errato il giudice di merito nel ritenere omessa l’allegazione del danno non patrimoniale con riguardo alla sua “personalizzazione”, poiché, quanto al danno, il ricorrente si era limitato a chiederne la quantificazione, che doveva essere operata dalla corte con la sua liquidazione e personalizzazione attraverso il meccanismo tabellare generalmente utilizzato.
9. Il primo motivo è infondato; ed infatti, secondo i principi affermati da questa corte ripetutamente, il ricorrente che, in sede di legittimità, denunci la mancata ammissione di un mezzo istruttorio, è onerato, a pena d’inammissibilità del ricorso per violazione del principio di autosufficienza che risulta ora tradotto nelle puntuali e definitive disposizioni contenute nell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, non solo della specifica indicazione del mezzo istruttorio richiesto e della chiara indicazione del nesso eziologico tra l’errore denunciato e la pronuncia emessa in concreto, ma anche della puntuale indicazione e trascrizione del contenuto del provvedimento censurato, così da rendere immediatamente apprezzabile dalla Suprema Corte il vizio dedotto (cfr Cass. n. 14107 del 07/06/2017); nel caso di specie il ricorrente, pur allegando e trascrivendo i capitoli di prova non ha allegato il provvedimento censurato, cosi precludendo a questa corte il corretto esame della censura proposta, e la sua rilevanza sotto i profili dedotti di errores in procedendo e in iudicando (e neppure ha indicato l’esatta allocazione nel fascicolo d’ufficio o in quello di parte, rispettivamente acquisito o prodotto in sede di giudizio di legittimità (Cass., sez. un., 8877 del 2012; ex plurimis, Cass. nr. 13713 del 2015).
Inoltre, le doglianze complessivamente svolte investono la sentenza in relazione alla valutazione del materiale probatorio, di modo che la deduzione delle violazioni di legge contenuta nella rubrica del motivo scherma in realtà deduzione di vizi di motivazione.
Ed invero, entrambi i giudici di merito non hanno dato ingresso alle istanze istruttorie sul duplice rilievo che la allegazione delle mansioni fosse generica e che, comunque, la prova richiesta fosse irrilevante, in quanto non avrebbe contribuito all’accertamento del nesso di causalità alla luce della ritenuta conformità delle mansione svolte e indicate in ricorso a quelle prescritte dal medico aziendale, ed alla assenza – già nelle allegazioni- degli elementi qualificanti il cd. mobbing.
Questa corte ha ripetutamente osservato come siano riservati al giudice di merito l’individuazione delle fonti del proprio convincimento, la valutazione delle prove, il controllo della loro attendibilità e concludenza, la scelta, fra le risultanze istruttorie, di quelle ritenute idonee ad acclarare i fatti oggetto della controversia, potendo egli privilegiare, in via logica, alcuni mezzi di prova e disattenderne altri, in ragione del loro diverso spessore probatorio, insindacabili in sede di legittimità se non nei ristretti limiti in cui lo è il vizio di motivazione, secondo la formulazione dell’art. 360, co. 1, n. 5, cod.proc.civ.ratione temporis vigente. Trattasi di valutazioni di merito, sindacabili da questa Corte nei limiti di deducibilità del vizio di motivazione (cfr. Cass., sez. lav. 14 ottobre 2015 nr. 20693, ove si dà atto che « per consolidata giurisprudenza di questa Corte la mancata ammissione della prova può essere denunciata in sede di legittimità per vizio di motivazione in ordine all’attitudine dimostrativa di circostanze rilevanti ai fini della decisione; v. anche Cass. n. 66/2015; Cass. n. 5377/2011; Cass. n. 4369/1999)».
E’ stato pure chiarito come il vizio di omessa pronuncia determinante nullità della sentenza e rilevante ai sensi dell’articolo 360 nr. 4 cod.proc.civ. si configura esclusivamente con riferimento a domande, eccezioni o questioni che richiedano una statuizione di accoglimento o di rigetto e non in relazione ad istanze istruttorie, per le quali l’omissione è denunciabile sotto il profilo del vizio di motivazione (Cass. civ. sez. lav. 18.3.2013 nr. 6715; 11.2.2009 nr. 3357; SU 18/12/2001 nr. 15982).
9.1.- Il ricorrente, pertanto, pur deducendo formalmente vizi di violazione di legge, introduce il sindacato sulla motivazione ex art. 360 n. 5 cod. proc. Civ., nel caso di specie inammissibile ai sensi dell’art. 348 ter cod.proc.civ.., a tenore del quale il vizio di motivazione non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d. “doppia conforme”, come nella fattispecie di causa.
La disposizione è applicabile ratione temporis ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato dall’Il settembre 2012 ( articolo 54 co.2 DL 83/2012), tra qui rientra il giudizio in esame ove l’impugnazione risulta iscritta nel 2015.
10.- Anche il secondo motivo, con il quale il ricorrente si duole della omessa considerazione della prova raggiunta in ordine ai fatti allegati e non contestati da controparte, risulta inammissibile, in quanto il ricorrente, in violazione degli oneri imposti dall’art. 366 c.p.c., comma 2, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 1, n. 4, non ha riprodotto nel ricorso, nelle parti salienti e rilevanti, il contenuto degli atti difensivi del giudizio di primo grado, atti che invoca a sostegno della censura, né ha specificato la sede di produzione processuale limitandosi ad un generico richiamo degli stessi (Cass. SSUU 8077/2012; Cass. 5696/2018, 24883/2017, 13713/2015, 19157/2012, 6937/2010; Cass. 20637 del 2016).
Quanto alle doglianze riferite alla causalità, che, secondo il ricorrente, la corte avrebbe aprioristicamente escluso in conseguenza dell’omessa ammissione della prova relativa alle mansioni, erroneamente richiamando criteri probabilistici estranei al giudizio di causalità civile, dalla lettura della sentenza impugnata emerge (cfr.pag. 7) che la Corte ha evidenziato come le carenze di allegazioni quanto alle mansioni concretamente svolte e alla loro correlazione con la patologica denunciata (sindrome ansioso depressiva), escludesse la rilevanza della . prova, risultando irrilevanti le valutazioni ulteriori quanto alle regole che governano la causalità civile.
Questa corte, del resto, in materia di danno non patrimoniale, ha da lungo tempo affermato come, non configurando l’art. 2087 cod. civ. un’ipotesi di responsabilità oggettiva – in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento – ai fini dell’accertamento della responsabilità del datore di lavoro, incombe al lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure di allegare la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro (cfr ex multis Sez. L, Sentenza n. 12789 del 02/09/2003 (Rv. 566479); CASS 9817 del 14/04/2008) ;
11. Pertanto il ricorso deve essere rigettato, assorbita la doglianza relativa al profilo della quantificazione del danno, subordinato in concreto alla esistenza della responsabilità, correttamente esclusa dai giudici di merito.
Ai sensi dell’art.13,comma 1-quater, d.P.R.n.115 del 2002, sussistono i presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso ex art.13,comma 1-bis
P.Q.M.
rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in euro 200,00 per esborsi, euro 4500,00 per compensi professionali, oltre quindici per cento spese generali e altri accessori di legge.
Ai sensi dell’art.13,comma 1-quater, d.P.R.n.115 del 2002, sussistono i presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso ex art.13,comma 1-bis.
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