CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 04 marzo 2021, n. 6078
Contratto a tempo determinato – Nullità del termine finale – Cessione del ramo di azienda – Mantenimento del rapporto con la società cessionaria – Diritto alla riammissione in servizio nelle mansioni in precedenza occupate
Svolgimento del processo
A.V. esponeva al Tribunale del lavoro di Roma di aver lavorato alle dipendenza della S. s.p.a. (poi E. s.r.l.) con diversi contratti a termine sino al 10.12.1996; che la Corte di appello di Roma con sentenza del 18.9.2002 aveva accolto la sua domanda di nullità del termine finale; che nel corso del giudizio di opposizione all’esecuzione (la V. aveva ottenuto un titolo esecutivo nei confronti della S. poi E. per il pagamento delle retribuzioni dovute) era venuta a conoscenza dell’intervenuta cessione del ramo di azienda al gruppo C. s.p.a. e che pertanto era applicabile l’art. 2112 c.c.
Chiedeva quindi l’accertamento dell’esistenza di un rapporto di lavoro con il gruppo C. per il periodo successivo al 1.1.1999 e l’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro, con condanna di quest’ultima società alla retribuzioni spettanti.
Si costituiva la C. s.p.a. contestando la fondatezza del ricorso.
Il Tribunale del lavoro di Roma con sentenza del 6.1.06, in accoglimento della domanda, ordinava alla C. la reintegrazione della V. nel posto di lavoro e condannava la società al pagamento delle retribuzioni dal 10.12.1996.
Avverso tale sentenza proponeva appello la s.p.a. C.; resisteva la lavoratrice.
Con sentenza depositata il 14.6.18, la Corte di appello di Roma accoglieva il gravame, rigettando la domanda attorea.
La Corte territoriale rilevava che la V., a seguito della sentenza di appello di Roma del 2002 poi confermata dalla Corte di cassazione, aveva azionato un titolo esecutivo nei confronti della S. e poi dell’E. per ottenere le retribuzioni dovute; che la S. aveva proposto opposizione sostenendo che era intervenuta cessione del ramo d’azienda per cui soggetto passivo era la C.. L’opposizione era stata rigettata infine dalla Corte di appello di Roma con sentenza n. 7433/2006 in quanto – come stabilito dalla giurisprudenza di legittimità – i fatti estintivi, modificativi o impeditivi dovevano essere fatti valere nel giudizio di cognizione e non con l’opposizione, per cui si era ormai formato giudicato sul punto per cui la legittimazione passiva in ordine al rapporto lavorativo di cui è causa spettava in capo alla E. (della quale la V. doveva considerarsi dipendente con sentenza passata in cosa giudicata), soggetto che aveva peraltro corrisposto le retribuzioni anche dal 1.1.1999.
Contestate tali affermazioni con ricorso per cassazione, questa Corte, con sentenza n. 8689/12, affermava che non vi era stata alcuna statuizione di merito che precludesse l’accertamento richiesto dalla lavoratrice e cioè che il suo rapporto di lavoro con la società (S. s.p.a.) cedente ex art. 2112 c.c. fosse continuato ope legis con la società cessionaria (C.) chiamata in giudizio in questo procedimento. L’eccezione di giudicato fatta valere dalla C. in appello veniva pertanto ritenuta infondata, con cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla Corte di appello di Roma per l’esame nel merito della domanda.
Con sentenza depositata il 14.6.18, la Corte d’appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra la V. ed il Gruppo C. s.p.a., tuttora in atto, in forza di trasferimento di ramo di azienda in data 29 dicembre 1998 tra la S. ed il Gruppo C., con decorrenza dal 1°gennaio 1999 e il diritto della ricorrente alla riammissione in servizio nelle mansioni in precedenza occupate e con inquadramento nel 5° livello di cui al c.c.n.I. per le aziende del terziario, distribuzione e servizi in regime di part time con regime orario di 24 ore alla settimana; condannava il Gruppo C. al pagamento in favore della ricorrente della somma commisurata all’ultima retribuzione di fatto globale (pari ad €.704,51 mensili) dal 1.2.05 sino al ripristino della funzionalità del rapporto , oltre accessori di legge.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso il Gruppo C. s.p.a., affidato a tre motivi, poi illustrati con memoria.
Resiste la V. con controricorso, contenente ricorso incidentale affidato ad unico motivo, cui resiste il Gruppo C. con controricorso.
Motivi della decisione
1. – Con il primo motivo la società ricorrente denuncia la nullità la sentenza impugnata per motivazione solo apparente e contraddittoria, (art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.). oltre all’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (n.5).
Quanto al primo aspetto (per cui la ricorrente si limita a produrre taluni brani della sentenza impugnata) deve evidenziarsi che la Corte di merito ha ampiamente motivato sul punto della compatibilità delle formali richieste formulate dalla ricorrente nei confronti della E. (subentrata a S.) con la richiesta dì prosecuzione del rapporto ex art. 2112 c.c. col Gruppo C., tenendo anche conto quindi anche delle richieste della ricorrente nei confronti della E. (S.) alle quali non poteva riconoscersi alcuna volontà abdicativa nei confronti dei diritti vantati nei confronti della C., come del resto implicitamente riconosciuto dalla sentenza rescindente di questa Corte n.8689/12.
Anche la censura di omesso esame di tali fatti decisivi risulta dunque infondata.
2. – Con secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115, 116 e 188 c.p.c., 2697 c.c. per la esclusione dei mezzi di prova ritualmente dedotti, diretti a dimostrare l’inapplicabilità dell’art. 2112 c.c. al caso di specie. Lamenta in particolare che la fattispecie successoria tra S. e C. riguardò solo i rami d’azienda “tradizionale” (ceduto al gruppo C.) e alimentare (ceduto alla S. commerciale s.p.a.) con i dipendenti ivi adibiti ed indicati in appositi elenchi; che la V. non aveva dimostrato di essere adibita prima del 1.1.99 al settore “tradizionale” ed anzi doveva desumersi che essa fosse adibita al settore alimentare stante la sua pregressa attività lavorativa presso la S. Supermercati.
Il motivo è in larga parte inammissibile censurando apprezzamenti e valutazioni di merito della sentenza impugnata, opponendovi semplicemente opposte valutazioni.
La dedotta volontà della V., in tesi emergente dalla corrispondenza con E., di mantenere il proprio rapporto di lavoro con tale ultima società, è poi smentita dalla circostanza che la V., dopo aver appreso della cessione (di ramo) di azienda alla C., chiese l’accertamento della prosecuzione del suo rapporto con quest’ultima. Le eventuali somme erogate da E. alla V. nel periodo sino al 2003, non elidono tale situazione processuale e riguardano il merito delle posizioni di dare ed avere tra le parti (su cui cfr. da ultimo Cass. n.29092/19).
Per il resto il motivo è infondato poggiando sulla considerazione che avrebbe dovuto la V. dimostrare che ella era tra i lavoratori ceduti al Gruppo C., posto che la cessione di (ramo di) azienda, comporta automaticamente, ex art. 2112 c.c., la prosecuzione del rapporto col cessionario, essendo invece onere della cedente dimostrare che la lavoratrice in questione non era ricompresa tra i lavoratori ceduti (all’interno del ramo di azienda trasferito), non essendo possibile la cessione di singoli lavoratori se non alle (neppure dedotte) condizioni previste dall’art. 1406 c.c.; cfr. invece sul punto il ricorso, pag. 24: “La cessione aveva riguardato espressamente specifici contratti di lavoro e non, genericamente, tutti quelli afferenti un punto vendita”.
La sentenza impugnata ha peraltro accertato che la cessione riguardò tutti i punti vendita relativi al ramo “tradizionale” e la prova della non appartenenza della V. ad essi gravava semmai sulla C.
3. – Con terzo motivo il Gruppo C. denuncia la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 115 c.p.c. non avendo valutato che dalle buste paga prodotte la retribuzione full time della V. risultava pari ad €.603,88 mensili, sicché il pacifico orario part time (24 h settimanali) riconosciuto non poteva comportare la condanna del Gruppo C. al pagamento di una somma pari ad €.704,51 mensili.
Il motivo è infondato.
Ed invero dalle stesse copie delle due buste paga inserite in ricorso, risulta che la retribuzione complessiva mensile era pari a £.1.948.954, il cui 60% è di £.1.169.372 che, moltiplicata per 14 mensilità e divise per 12, danno £.1.364.261 e dunque €.704,58, superiore a quanto liquidato dal giudice di merito.
4. – Con ricorso incidentale la V. censura la sentenza impugnata per averle riconosciuto il risarcimento del danno solo dal 3.2.05 (data della messa a disposizione della C. delle proprie energie lavorative) e non dal 2003.
Il motivo è infondato. Ed invero la Corte capitolina ha accertato che la liquidazione del danno era già stata operata dal Tribunale con pronuncia divenuta sul punto definitiva (sia pur con riferimento alla conversione dei vari contratti a tempo determinato stipulati tra le parti) con diritto della V. alle retribuzioni solo dal primo atto di costituzione in mora (o messa a disposizione delle energie lavorative) del 3.2.05 e tale ratio decidendi non risulta censurata dalla V.
5. Entrambi i ricorsi debbono essere pertanto rigettati, con conseguente compensazione tra le parti delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Rigetta entrambi i ricorsi e compensa tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/02, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti principale ed incidentale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per i rispettivi ricorsi, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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