CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 04 novembre 2020, n. 24605
Licenziamento disciplinare – Tardività della contestazione – Tempo più lungo per valutare la scorrettezza commessa dal dirigente – Complessità dell’organizzazione aziendale e della questione relativa alla valutazione da effettuarsi, da un punto di vista sostanziale ed economico – Provvedimento conservativo solo a fronte di giustificazioni precise –
Fatti di causa
1. Il Tribunale di Bergamo, ritenuto che il secondo dei due addebiti mossi al dirigente F.R. – destinatario di provvedimento di licenziamento intimato il 13.6.2014 dalla F. s.p.a. -, addebito relativo a numerose lamentele ricevute sul suo operato, fosse del tutto generico, osservava in relazione all’altra contestazione, riferita alla sottoscrizione dell’accordo di Roma al Ministero dello Sviluppo Economico in contrasto con la delibera assunta dal C.d.A. in relazione al progetto Polar (prevedente la chiusura dello stabilimento di Forlì ed il licenziamento di 53 lavoratori), che il fatto disciplinarmente rilevante certamente sussisteva, ma che il licenziamento era comunque illegittimo per la tardività della contestazione rispetto al momento in cui il dirigente aveva messo la proprietà nelle condizioni di conoscere a pieno tutte le implicazioni del nuovo accordo raggiunto con i sindacati. Accogliendo parzialmente la domanda riconvenzionale della F. s.p.a. in relazione al pagamento indebito di € 243,92, condannava la società a corrispondere al dirigente la sola indennità sostitutiva del preavviso per un importo totale, quantificato concordemente dalle parti nella successiva sentenza definitiva, di € 375.660,73, oltre accessori di legge.
2. La Corte di appello di Brescia, con sentenza del 20.3.2018, all’esito del giudizio di gravame instaurato dal R., in parziale riforma della sentenza non definitiva e di quella definitiva del Tribunale di Bergamo, respingeva tutte le domande proposte dal dirigente ed accoglieva la sola domanda riconvenzionale della F. quanto alla somma di € 243,92 (condanna di cui nel dispositivo della decisione di primo grado non era stato dato atto).
2.1. La Corte rilevava: che il Consiglio di amministrazione della società aveva confermato il mandato al R. di procedere nel senso precisato in un precedente progetto presentato dallo stesso dirigente e dallo stesso consiglio approvato, che prevedeva la chiusura dello stabilimento di Forlì e successivi licenziamenti del personale ivi in forza; che il R. aveva stipulato un accordo con il quale la F. s.p.a. si era impegnata a tenere aperti i propri siti produttivi, ivi compreso quello di Forlì, per una durata minima di un quadriennio e che di ciò non aveva informato l’interlocutore cinese, proprietaria della società attraverso il Gruppo W. e membri del C.d.A.; che dall’istruttoria espletata era emerso che il Rossi aveva firmato il diverso accordo che stravolgeva completamente il Piano Polar senza informare l’azionista cinese, pure avendo avuto dallo stesso un avvertimento che, in caso di modifiche del piano, il tutto sarebbe dovuto tornare alla valutazione compiuta ed analitica del c.d.a.
2.3. La Corte distrettuale condivideva la affermata genericità della seconda contestazione d’addebito, ma, con riguardo alla prima, riteneva che la stessa non fosse stata affatto tardiva, in quanto tra la firma dell’accordo di Roma e la contestazione disciplinare erano intercorsi soltanto tre mesi, lasso temporale che non poteva essere ritenuto oggettivamente di particolare rilievo e tale da integrare la dedotta tardività, posto che la proprietà aveva bisogno di un tempo più lungo per valutare se la scorrettezza commessa dal dirigente avesse in realtà portato elementi di miglioramento o, quanto meno, risparmi economici per la società sovrapponibili a quelli del piano elaborato approvato. Sulla gravità della condotta la Corte riteneva che la stessa avrebbe potuto essere sanzionata con un provvedimento conservativo solo a fronte di giustificazioni precise che motivassero l’impossibilità di attendere l’approvazione del consiglio di amministrazione ed una valutazione complessiva sul nuovo piano, ciò che non era stato neanche allegato. Alla luce di tali valutazioni, la Corte distrettuale escludeva il diritto all’indennità sostitutiva del preavviso e confermava la decisione impugnata nella parte in cui già aveva negato il diritto all’indennità supplementare, ritenendo meritevole di accoglimento l’appello della società F. in ordine alla restituzione della somma di € 243,91, pagati in eccedenza con il TFR.
2.4. Ogni altra domanda di danni era respinta sempre per carenza di allegazioni.
3. Di tale decisione domanda la cassazione il R., affidando l’impugnazione a tre motivi, cui resiste, con controricorso, la società, che ha proposto ricorso incidentale condizionato, affidato ad unico motivo.
4. Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Ragioni della decisione
Ricorso principale:
1. Con il primo motivo, il Rossi denunzia violazione dell’art. 7 della I. 20 maggio 1970 n. 300, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., assumendo l’erroneità delle affermazioni della Corte d’appello secondo cui l’ asserita tardività della contestazione non poteva rilevare ai fini di un vulnus al diritto di difesa, stante il tipo di contestazione, né ai fini dell’affidamento del dirigente sul fatto che la sua condotta non avesse incontrato alcuna censura da parte della proprietà cinese, atteso che i mesi successivi furono tutti destinati all’approfondimento ed alla conoscenza dei risvolti economici del piano firmato a Roma, ma che rilevi in quanto spia della pretestuosità della contestazione disciplinare. Sostiene che, pur avendo la Corte distrettuale accertato che fin dal 19 febbraio 2014 la società F. aveva acquisito piena conoscenza del fatto poi addebitato al R., per valutare la tempestività della contestazione non abbia, poi, tenuto conto del tempo decorso dalla data anzidetta, ma abbia ritenuto di dovere considerare il tempo che, a detta della società, sarebbe occorso alla stessa per accertare l’esistenza e la consistenza di ipotetici danni prodotti dalla scelta del R. di disattendere le indicazioni ricevute. Rileva come l’unica analisi delle ricadute economiche dell’Accordo di Roma, diversa da quella realizzata dal R., era stata commissionata dalla società al proprio direttore finanziario solo dopo il licenziamento e che, pertanto, la Corte distrettuale non abbia tenuto conto dei principi più volte affermati dalla S. C. in tema di immediatezza della contestazione disciplinare e della funzione di garanzia che essa assolve. Ritiene che l’intervallo di tempo con il quale l’immediatezza è compatibile sia quello necessario per l’accertamento e la valutazione dei fatti contestati e non di fatti estranei alla contestazione e che, in ogni caso, la relatività della nozione di tempestività non possa risolversi in un’autorizzazione per il datore a differire la contestazione per verificare le conseguenze della condotta quando quest’ultime non vengano richiamate nell’addebito mosso al dipendente. Sostiene, infine, che l’inosservanza delle garanzie procedimentali produca gli stessi effetti che la contrattazione collettiva fa scaturire dall’accertamento dell’insussistenza dell’illecito disciplinare o di fatti in altro modo giustificativi del recesso.
2. Con il secondo motivo, il ricorrente principale lamenta violazione dell’art 7 della I. 20 maggio 1970 n. 300, sul rilievo che il R. era stato licenziato sulla base di un fatto noto al datore di lavoro nelle sue linee fondamentali da oltre tre mesi rispetto al momento della contestazione.
3. Con il terzo motivo, il R. addebita alla decisione impugnata omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, violazione dell’art. 2697 c.c., nonché violazione dell’art. 7 St. Lav. e degli artt. 1 e 3 della legge 15 luglio 1966 n. 604, artt. 1 e 3 e ss. modificazioni, adducendo che in ogni caso la Corte ha omesso l’esame di un fatto, quale l’eventuale danno arrecato dal R. alla società, il cui accertamento, da parte della F. s.p.a., la stessa Corte aveva tuttavia considerato essenziale per valutare la legittimità del recesso.
Rileva che la Corte ha riconosciuto legittimità ad un licenziamento intimato sulla base di fatti oltre che non contestati totalmente sforniti di prova, trascurando di applicare il principio secondo cui, in caso di licenziamento, il datore di lavoro che non intenda riconoscere al dirigente il diritto al preavviso ed all’indennità supplementare deve fornire la prova della legittimità del diniego.
4. Il primo ed il secondo motivo di ricorso – che vanno trattati congiuntamente per l’evidente connessione delle questioni che ne costituiscono l’oggetto -, sono infondati.
5. Nella sostanza si richiede un riesame del merito assumendosi un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa e, peraltro, la valutazione del decorso di soli tre mesi tra la realizzazione della condotta disciplinarmente rilevante e la sua contestazione, in termini di assoluta normalità in relazione alle esigenze di conoscenza effettiva da parte del datore del fatto posto a base della contestazione è il frutto di un giudizio del tutto in linea con i principi enunciati dalla Suprema Corte. La congruità del termine intercorrente tra la conoscenza effettiva del fatto posto a base della contestazione ed il momento in cui il relativo addebito disciplinare viene contestato costituisce, del resto, giudizio di merito non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivato (cfr. Cass. 26 marzo 2018 n. 7424). Va, poi, evidenziato, in condivisione con quanto correttamente rilevato dalla controricorrente come, il R., nel denunciare la violazione dell’art. 7 St. Lav., non abbia dedotto alcuna lesione del diritto difesa rispetto alle prescrizioni del suddetto articolo e nessun altro pregiudizio giuridicamente rilevante, e pertanto la Corte di Brescia ha esaminato la questione relativa alle ricadute economiche in danno della società non incorrendo in alcun errore in iudicando. Il differimento della contestazione era stato necessitato, in conformità ai principi giurisprudenziali, dalla complessità dell’organizzazione aziendale, sia da un punto di vista logistico che comunicazionale, dalla complessità della questione relativa alla valutazione da effettuarsi, da un punto di vista sostanziale ed economico, dell’accordo firmato dal R. e con esame delle ricadute che lo stesso avrebbe avuto sia nel breve che nel lungo periodo. Il differimento era condizionato anche dall’indagine circa l’operato complessivo del R., tenendo conto della avvenuta sottoscrizione di un accordo in totale contrasto con il mandato ricevuto nella sua posizione dirigenziale nell’ambito delle strategie di gruppo e delle conseguenze che l’avvio di un procedimento disciplinare nei confronti del predetto avrebbe potuto avere sulla Società e sul gruppo, atteso il suo ruolo apicale.
5.1. In ogni caso, quand’anche si ammettesse la tardività della contestazione, la sentenza della Cass. a s. u. 30895/2017 ha statuito che tale tardività integra un vizio funzionale e non genetico della fattispecie sanzionatoria, con la conseguenza che il fatto oggetto dell’addebito disciplinare è comunque suscettibile di essere esaminato dal giudicante.
5.2. La giurisprudenza successiva alla pronunzia delle s. u. richiamata (cfr., tra le altre, Cass. 27.9.2018 n. 23346, Cass. 25.10.2018 n. 27069, Cass. 16.11.2018 n. 29627) avalla l’interpretazione effettuata dalla Corte di merito, coerente con il principio alla cui stregua “in tema di licenziamento per giusta causa, mentre spetta al giudice di merito verificare in concreto quando un potenziale illecito disciplinare sia stato scoperto nei suoi connotati sufficienti a consentirne la contestazione in via disciplinare, costituisce questione di diritto, sindacabile in sede di legittimità, determinare se l’arco temporale intercorso tra la scoperta dell’illecito disciplinare e la sua contestazione dia luogo, o meno, a violazione del diritto di difesa del lavoratore“.
6. Il terzo motivo integra un motivo composito, in dispregio dei principi affermati da questa Corte, secondo cui deve ritenersi inammissibile il motivo simultaneamente volto a denunciare violazione di legge e vizio di motivazione, avuto riguardo al principio secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi di impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’articolo 360, comma 1, nn. 3, 4 e 5, c.p.c., non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quelli della violazione di norme di diritto, sostanziali e processuali, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione (cfr. Cass. 23 giugno 2017, n. 15651; Cass. 28 settembre 2016, n. 19133; Cass. 23 settembre 2011, n. 19443 e, da ultimo Cass. 23.10.2018 n. 26874, nei termini riportati).
6.1. Inoltre, il dedotto omesso esame dedotto dal ricorrente è riferito ad un fatto (conseguenze economiche dell’accordo) privo del carattere di decisività, in quanto, se il danno avesse assunto il ruolo di elemento fondamentale dell’illecito commesso dal R., la sua esistenza o inesistenza avrebbe determinato l’esistenza o inesistenza dell’illecito, relegando ad un ruolo del tutto secondario l’inosservanza da parte del R. delle direttive impartitegli dal consiglio di amministrazione, che, invece, ha costituito la ragione dell’addebito mosso al dirigente, determinatosi a firmare un nuovo accordo senza la copertura della proprietà cinese sul suo operato. Tale condotta, come ben rilevato dalla Corte distrettuale, avrebbe potuto essere sanzionata diversamente (con misure conservative) solo ove fosse stato possibile ipotizzare l’impossibilità di attendere l’approvazione del consiglio di amministrazione ed una valutazione complessiva del nuovo piano, circostanze, queste, come evidenziato dallo stesso giudice del gravame, neanche genericamente allegate dal ricorrente, che non ha contrastato adeguatamente tale ratio decidendi.
6.2., Infine, la sussistenza di un danno in conseguenza della condotta disciplinarmente rilevante è stata ritenuta del tutto ininfluente ai fini della valutazione della legittimità del licenziamento.
La nozione di ingiustificatezza prevista per il licenziamento del dirigente non coincide con il giustificato motivo di cui agli artt. 1 e 3 della l. 604/66 richiamati nel ricorso principale e la prova della sussistenza dell’addebito è stata fornita documentalmente, non potendosi pertanto neanche ritenere che sia stato invertito l’onere della prova.
Ricorso Incidentale:
7. Il ricorso della società, proposto in via subordinata, dalla controricorrente, per l’ipotesi di accoglimento del ricorso principale, si fonda sulla deduzione di violazione dell’art. 7 della l. 20 maggio 1970 n. 300, assumendosi che l’ulteriore contestazione disciplinare, riferita alla serie di lamentele ricevute dalla Società sia dal parte del manager e di dipendenti del Gruppo, che di importanti dealer e clienti, in merito alla incapacità del R. di mantenere un ambiente lavorativo e costruttivo all’interno dell’azienda ed alla sua inadeguatezza circa la gestione dell’attività commerciale e produttiva del Gruppo, erroneamente sia stata ritenuta generica, in quanto erano state fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare nella sua materialità il fatto o i fatti nei quali il datore aveva ravvisato le infrazioni disciplinari. Non vi era stato, secondo l’assunto della società, alcun pregiudizio al diritto di difesa, in quanto la regola della specificità della contestazione dell’addebito non richiede necessariamente l’indicazione anche del giorno e dell’ora in cui i fatti contestati vengono commessi, essendo sufficiente l’idoneità dei fatti contestati a consentire al lavoratore di individuare nella loro materialità i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato le infrazioni stesse.
7.1. Il motivo deve ritenersi assorbito dal rigetto del ricorso principale, e, comunque, risulta erroneamente ed inidoneamente veicolato con la censura formulata.
8. In conclusione, il ricorso principale va respinto e quello incidentale è assorbito.
9. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza del ricorrente principale e sono liquidate nella misura indicata in dispositivo.
10. Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 115 del 2002 relativamente al ricorrente principale.
P.Q.M.
rigetta il ricorso principale, assorbito il ricorso incidentale.
Condanna il ricorrente principale al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi, euro 10000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonché al rimborso delle spese forfetarie in misura del 15%.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002 art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dell’art.13, comma 1bis, del citato D.P.R., ove dovuto.