CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 04 settembre 2018, n. 21617
Licenziamento – Accordo transattivo – Rinuncia ai diritti derivanti dal rapporto di lavoro – Impugnazione
Fatti di causa
Con ricorso del 26 novembre 2010 D. S.r.l. appellava la sentenza del Tribunale di Salerno, pronunciata il 28 ottobre 2010, con la quale era stata rigettata l’opposizione ex art. 615 c.p.c. avverso il precetto notificato alla società da A.P., fondata su pretesa erronea ed arbitraria quantificazione delle somme, delle quali era stato intimato il pagamento, nonché su accordo transattivo intervenuto in pendenza di ricorso per cassazione, averso la pronuncia di secondo grado, la quale, a sua volta, aveva confermato la declaratoria d’illegittimità del licenziamento intimato all’A. con conseguente ordine di ripristino del rapporto di lavori e condanna di parte datoriale al risarcimento dei danni, oltre che al pagamento della somma di 46.506,59 euro, con maggiorazione degli accessori dovuti per legge.
Acquisita la sentenza n. 15103 del 19-09-2012, pronunciata da questa Corte con il rigetto del ricorso, proposto dalla D. avverso la pronuncia di appello (n. 1314/07) nel giudizio relativo all’impugnazione del licenziamento, donde il passaggio in giudicato della decisione (Trib. SA n. 1563/06) di accoglimento della domanda di A.P., la Corte di Appello di Salerno (preso atto pure della pendenza di altro separato giudizio, promosso da D. S.r.l. per ottenere la restituzione delle somme corrisposte all’A. in base all’accordo transattivo, però nullo in assenza di causa giustificatrice) con sentenza in data 8-16 maggio 2013 rigettava il gravame della società contro l’anzidetta pronuncia del 28 ottobre 2010, in forza della quale era stata respinta l’opposizione a precetto proposta da D. S.r.l. La Corte territoriale osservava, tra l’altro, che in data 21 aprile 2009 le parti sottoscrissero un atto denominato conciliazione e transazione stragiudiziale, da formalizzarsi ai fini della sua validità ed efficacia davanti alla direzione provinciale del lavoro di Salerno nel termine improrogabile del 31 maggio 2009, con il quale il lavoratore nell’accettare la somma di € 80.000,00 dichiarava di rinunciare ai diritti derivanti dal rapporto di lavoro, mentre la società dichiarava di rinunciare al ricorso per cassazione contro la sentenza di appello, relativa al giudizio di cognizione concernente il licenziamento ed ulteriori pretese creditorie. Senonché con successiva raccomandata del 7 maggio 2009, pervenuta il successivo giorno 12 alla società, il lavoratore aveva impugnato l’atto di rinuncia e transazione ai sensi dell’articolo 2113 del codice civile.
La Corte di Appello, quindi, ha disatteso la tesi dell’invalidità della suddetta impugnazione, ex articolo 2113 c.c., perché intervenuta dopo la sentenza di secondo grado, richiamando la pronuncia di questa Corte n. 13616 del 17 settembre 2002, secondo cui l’art. 2113 cod. civ. è applicabile anche nell’ipotesi in cui il lavoratore abbia già intrapreso un’azione giudiziaria, in quanto la sua posizione di soggezione nei confronti del datore di lavoro non viene meno per il fatto che egli abbia azionato un diritto o sia assistito da un legale; ne consegue che restano impugnabili ai sensi del citato art. 2113 cod. civ. nel termine di sei mesi tutte le rinunce e transazioni che non siano intervenute nella forma della conciliazione giudiziale o sindacale, a nulla rilevando che le suddette intervengano dopo che il lavoratore abbia già azionato il diritto in giudizio.
Inoltre, l’anzidetto atto di rinuncia e transazione doveva considerarsi affetto da nullità assoluta, in quanto relativo anche a diritti retributivi non maturati e non ancora attuali, ai sensi dell’articolo 1418 c.c., ed anche perché concernente diritti di natura previdenziale e assistenziale, come tali sottratti alla disponibilità del lavoratore. Peraltro, la transazione era subordinata alla formalizzazione dell’atto davanti alla Direzione provinciale del lavoro ed era condizionata alla rinuncia del giudizio pendente in cassazione, al quale invece la società non aveva rinunciato.
Parimenti, risultava infondato il secondo motivo di gravame, con il quale la società aveva censurato la sentenza impugnata laddove non aveva detratto l’aliunde perceptum, trattandosi di eccezione che andava sollevata nel giudizio relativo all’accertamento d’invalidità del licenziamento, sicché risultava inammissibile e preclusa in ragione del giudicato ormai formatosi.
Avverso l’anzidetta pronuncia di appello ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi la S.r.l. D. come da atto in data 23 luglio 2013, cui ha resistito A.P. mediante controricorso del 27 agosto 2013.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo è stata lamentata la violazione o falsa applicazione dell’articolo 2113 c.c., unitamente ad omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ovvero se il diritto o i diritti di del prestatore di lavoro accertati giudizialmente in una sentenza siano o meno da questi successivamente irrinunciabili mediante transazione.
In particolare, la ricorrente chiede di conoscere se l’invalidità sancita dall’articolo 2113 riguardi esclusivamente le rinunzie e transazioni che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili di legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti rapporti di cui all’articolo 409 c.p.c., oppure se tale invalidità debba intendersi estesa anche alle rinunzie e alle transazioni aventi ad oggetto diritti del lavoratore accertati giudizialmente e contenuti in sentenze. La tesi di parte ricorrente è dunque quella secondo cui, una volta intervenuta la pronuncia giudiziale con l’accertamento del diritto fatto valere lavoratore, risulterebbe inapplicabile la disciplina di cui all’articolo 2113 c.c., venendone nemmeno la ratio, con riferimento alla particolare tutela accordata da tale norma al contraente più debole, ossia il lavoratore, allorché il diritto di costui venga ormai accertato mediante pronuncia giudiziale (<<… che si applicasse l’articolo 21113 c.c. nel caso di disposizione di diritti inderogabili del lavoratore non c’era bisogno di scomodare due giudici di merito per affermarlo … Purtroppo la domanda della D. S.r.l. era un’altra, rispetto alla quale la motivazione della Corte di appello e prima ancora del Tribunale risulta tamquam non esset, ovvero inesistente. La domanda mirava all’affermazione del principio di diritto secondo cui nel caso si tratti di diritti del lavoratore accertati con ben due sentenze di merito, l’art. 2113 c.c. è inapplicabile. A questo punto, la sentenza della Suprema Corte citata sia dal Tribunale che dalla Corte di appello … n. 13616 del 17.09.2002, in realtà non è affatto pertinente al caso di specie e anzi… la motivazione della Corte di appello configura un sicuro vizio di contraddizione rilevante ex art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c. quale è quello relativo alla esatta qualificazione della fattispecie e conseguente applicazione o meno dell’art. 2113 c.c.. Quella sentenza della Suprema Corte tratta di un caso in cui il lavoratore aveva rinunciato all’azione proposta; azione che naturalmente per effetto della rinuncia non era mai pervenuta ad una sentenza…
Orbene, la Suprema Corte interpreta la ratio dell’art. 2113 c.c. come garanzia perii lavoratore; nel momento in cui, però, a garantire quei diritti del lavoratore interviene un Giudice…, secondo la Corte non c’è più ragione di continuare a garantire il lavoratore, per cui quest’ultimo deve ritenersi libero di disporre dei diritti affermati da quel giudice in sentenza. … Solo in mancanza dell’assistenza del giudice quell’accordo, dunque, è impugnabile…>>).
Con il secondo motivo ex art. 360 n. 5 c.p.c. è stata dedotta la omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione di un fatto controverso decisivo per il giudizio, ossia l’eccezione di aliunde perceptum.
Infine, con il terzo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., è stata lamentata la nullità della sentenza o del procedimento, per aver questa omesso di considerare l’eccezione di aliunde perceptum.
Le anzidette censure vanno disattese in forza delle seguenti considerazioni.
Ed invero, quanto al primo motivo, lo stesso è infondato, essendo per contro corretto il ragionamento decisorio seguito dalla Corte salernitana relativamente alla portata dell’art. 2113 c.c., per cui va confermato il principio di diritto ivi citato e di cui all’anzidetta pronuncia di Cass. lav. n. 13616/02, sul presupposto (che ad ogni modo non appare in alcun modo ritualmente censurato o comunque contestato da parte ricorrente), in base al quale i diritti a suo tempo azionati nel precedente giudizio, di cognizione, dal lavoratore, in seguito definito con la sentenza di questa Corte n. 15103/12, rientrassero nelle previsioni di cui al primo comma dello stesso art. 2113 (di conseguenza, questo collegio non ritiene di doversi soffermare sulla problematica circa la disponibilità o meno dei diritti -e quindi sulla loro natura- oggetto della scrittura privata nella specie intervenuta tra le parti in data 21-04-2009, poi autenticata in sede notarile, denominata “di conciliazione e transazione stragiudiziale”, però da formalizzarsi fini della sua validità ed efficacia davanti alla Direzione Provinciale del Lavoro di Salerno – cfr. in part. quanto si legge sul punto a pagina 4 della sentenza de qua- laddove peraltro la giurisprudenza di legittimità – v. Cass. lav. n. 18285 del 13/08/2009 – è nel senso che in caso di cessazione del rapporto per mutuo consenso ovvero per dimissioni formi oggetto di un unico contesto negoziale complesso, il cui contenuto investa anche altri diritti del prestatore derivanti da disposizioni inderogabili di legge o dall’autonomia collettiva, il precetto posto dall’art. 2113 cit. trova applicazione in relazione all’intero contenuto dell’atto -che è quindi soggetto a impugnazione- sempre che la clausola relativa alle dimissioni non sia autonoma, ma strettamente interdipendente con le altre e che i diritti inderogabili transatti siano noti e specificati, non potendosi desumere da una formula generica contenuta in una clausola di stile.
In senso analogo, v. anche Cass. lav. n. 2716 del 12/03/1998, n. 12301 del 21/08/2003 e n. 11581 del 1997. D’altro canto, sul punto, va pure evidenziato come il ricorso non abbia specificamente e compiutamente riportato causa petendi e petitum del precedente giudizio di cognizione, né riprodotto per intero, ma solo in parte, il testo della suddetta conciliazione extragiudiziale ed extrasindacale, giudizio la cui decisione risulta ormai passata in cosa giudicata, – perciò in violazione di quanto invece prescritto dall’art. 366, co. 1, nn. 3 e 6, c.p.c. – cosa giudicata, la cui portata esecutiva viene in effetti messa in discussione con l’opposizione di cui è processo).
Tanto premesso, va opportunamente richiamata la motivazione del succitato arresto di Cass. lav. n. 13616 in data 31 maggio / 17 settembre 2002: <<… La tesi che la norma – art. 2113 c.c. – non si applichi ai lavoratori che abbiano già intrapreso l’azione giudiziale perché essi verrebbe meno la ratio è logicamente infondata in quanto la posizione di soggezione del prestatore di lavoro nei confronti del datore non viene meno per il fatto che abbia azionato un diritto e non esclude, malgrado che sia assistito da un legale, che subisca pressioni che lo inducano ad una transazione o ad una rinuncia a lui sfavorevoli. L’infondatezza dell’assunto della sentenza impugnata è dimostrata dal quarto comma dell’art. 2113 c.c. che esclude l’impugnabilità della rinuncia o transazione solo se abbia il carattere della conciliazione giudiziale di cui all’art. 185 c.p.c. o della conciliazione sindacale ex artt. 410, 411 c.p.c. Restano quindi impugnabili, anche quando sia iniziato il giudizio, le transazioni o rinunce, quale quella in oggetto, che non abbiano le forme indicate. La ratio è evidente, il legislatore ha ritenuto necessaria per garantire i diritti del lavoratore l’assistenza – alle transazioni o rinunzie – del giudice, della commissione di conciliazione ovvero del sindacato, secondo le forme previste dalla contrattazione collettiva, in mancanza ha previsto l’impugnabilità delle rinunzie o transazioni nel termine di sei mesi. … In accoglimento del primo motivo la sentenza impugnata va pertanto cassata e la causa rinviata per nuovo esame al giudice designato in dispositivo, che nel decidere si atterrà al seguente principio di diritto: il lavoratore, che abbia già iniziato il giudizio per il riconoscimento di un diritto derivante da disposizioni di legge o da contratti collettivi, può impugnare le rinunce o le transazioni aventi per oggetto i diritti azionati a sensi dell’art. 2113 c.c., salvo che siano intervenute nelle forme della conciliazione giudiziale o sindacale secondo gli artt. 185, 410 e 411 c.p.c. …>>.
Orbene, nel caso esaminato dalla suddetta pronuncia n. 13616/02 il giudice di primo grado aveva rigettato la domanda del lavoratore, sicché costui aveva proposto appello, cui aveva resistito parte datoriale proponendo a sua volta impugnazione incidentale condizionata avverso la sentenza impugnata nella parte in cui aveva ritenuto che la rinuncia operata dal ricorrente non poteva spiegare alcuna efficacia; appello incidentale quindi accolto dal Tribunale, il quale dichiarava estinto il giudizio per rinuncia all’azione da parte del ricorrente, osservando tra l’altro che l’impugnativa della rinuncia medesima ai sensi dell’art. 2113 c.c. non era applicabile quando il lavoratore aveva azionato il diritto in giudizio, venendo meno in questi casi la ratio di detta norma.
Senonché il percorso argomentativo seguito nella suddetta pronuncia da questa Corte ben può valere (atteso altresì il suo ampio tenore testuale e senza l’esplicita individuazione di possibili casi di esclusione attinenti ad eventuali pronunce giudiziali favorevoli al lavoratore, però ancore soggette ad impugnazione) pure nel caso di specie qui in esame, avuto inoltre riguardo alla generalizzata portata dello stesso art. 2113, comma primo (che al quarto comma si limita a derogare alla invalidità sancita in generale dal primo, rinviando però genericamente alle sole conciliazioni intervenute in sede giudiziale o sindacale, secondo le forme di assistenza ivi previste, a parte poi quelle ulteriori, ma qui ratione temporis irrilevanti, siccome introdotte dalle modifiche apportate dall’art. 31, co. 7, I. 4 novembre 2010, n. 183), ad ogni modo senza espressamente escludere conciliazioni intervenute a seguito di sentenze favorevoli al lavoratore, come del resto confermato anche da consolidata e consueta pratica giurisprudenziale, laddove non è stata mai posta in dubbio la possibilità di conciliazioni extragiudiziali, però assistite da organizzazioni sindacali secondo le disposizioni di legge vigenti in materia, pure a seguito di impugnazioni (cfr. del resto Cass. sez. un. civ. n. 3425 del 10/05/1988, secondo cui a norma dell’art. 2113, ultimo comma, cod. civ., nel testo introdotto dall’art. 6 della legge 11 agosto 1973 n. 533, soltanto la conciliazione conclusa dinanzi alle apposite commissioni presso l’Ufficio provinciale del lavoro, ovvero in sede sindacale, e la conciliazione giudiziale concretano una transazione sottratta alla disciplina -in tema di invalidità e relativa impugnativa-dettata dagli altri commi dello stesso art. 2113 e precludono al giudice l’accertamento della situazione preesistente e della violazione di disposizioni inderogabili eventualmente attuata con gli atti transattivi. V. altresì Cass. lav. n. 24024 del 23/10/2013, secondo cui in materia di atti abdicativi di diritti del lavoratore subordinato, le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro previsti da disposizioni inderogabili di legge o di contratti collettivi, contenute in verbali di conciliazione conclusi in sede sindacale, non sono impugnabili, a condizione che l’assistenza prestata dai rappresentanti sindacali – della quale non ha valore equipollente quella fornita da un legale – sia stata effettiva, così da porre il lavoratore in condizione di sapere a quale diritto rinunci e in quale misura, nonché, nel caso di transazione, a condizione che dall’atto stesso si evinca la questione controversa oggetto della lite e le “reciproche concessioni” in cui si risolve il contratto transattivo ai sensi dell’art. 1965 cod. civ.. In senso conforme v. pure Cass. nn. 16168 del 2004 e n. 13217 del 2008).
D’altro canto, non è ravvisabile nemmeno alcuna fondata ragione, giuridicamente apprezzabile, da cui poter desumere che la ratio della tutela apprestata dall’art. 2113 c.c. venga meno in caso di sentenza di merito favorevole al lavoratore, sebbene provvisoriamente esecutiva, trattandosi di provvedimento ancora sub judice, poiché soggetto ad impugnazione. Ne deriva che nelle more di quest’ultima la parte c.d. debole del rapporto ben può ancora restare soggetta a pressioni e condizionamenti ex adverso in vista della decisione finale, ancora favorevole al lavoratore, quindi opportunamente evitabile mediante apparenti transazioni, ma concluse senza il rispetto delle garanzie, invece prescritte rigorosamente dal legislatore, che ne ha imposto l’osservanza mediante le formalità allo scopo richieste con l’art. 2113. E senza, dire, inoltre, che la rinuncia al ricorso per cassazione – verso la quale, in base alla sentenza di appello, risultano essere state formalizzate le contrapposte rinunzie del lavoratore con l’atto di conciliazione e transazione in data 21.04.2009 – pacificamente non si è avuta da parte della società, il cui ricorso infatti è stato respinto da questa Corte con la sentenza n. 15103/12, acquisita agli atti del giudizio di appello poi definito con la pronuncia qui impugnata (cfr. pagg. 3 e 4 di quest’ultima, ricorso per giunta rinunciabile ex artt. 390 e 391 c.p.c.. Né peraltro verso risulta essere stato proposto ricorso per revocazione ex artt. 391-bis e 395 n. 4 c.p.c. contro l’anzidetta sentenza n. 15103/19-09-12 in ordine ad una eventuale pretermissione dell’anzidetta conciliazione-transazione di aprile 2009). Neanche risulta mai intervenuta la formalizzazione davanti alla Direzione provinciale del Lavoro di Salerno, nei sensi sopra indicati e per cui era stato anche fissato il termine perentorio al 31 maggio 2009, prima del quale è invece intervenuta, in data 7/12 maggio 2009, l’impugnazione (ex commi 2° e 3° dell’art. 2113 c.c.) da parte dell’A..
Assolutamente inammissibili sono poi gli ultimi due motivi di ricorso, visto che, quanto al secondo, nella specie opera ratione temporis, in relazione alla sentenza impugnata, pubblicata il 16 maggio 2013, il nuovo testo dell’art. 360 n. 5 c.p.c., di modo che la motivazione di per sé non rileva (se non qualora inferiore al c.d. minimo costituzionale, come chiarito in particolare dalle Sezioni unite civili di questa Corte con le pronunce nn. 8053 e 8054 del 2014), minimo costituzionale nel caso in esame di certo insussistente, avendo la Corte territoriale con adeguata e lineare motivazione esaminato tutti i fatti decisivi ai fini della decisione, ivi compresa la questione inerente al c.d. aliunde perceptum, ritenuta però in sede di merito inammissibile, in quanto coperta dal giudicato ormai formatosi nell’ambito del giudizio di cognizione, da cui era poi derivata l’esecuzione di cui è causa, opposta dalla società D.. Si è trattato, dunque, di una quaestio juris, piuttosto che di una quaestio facti, come tale assolutamente inconferente rispetto al vizio denunciato, contemplato in astratto dal citato art. 360 n. 5. E parimenti dicasi, quanto al terzo ed ultimo motivo, laddove non sussiste evidentemente alcuna omessa pronuncia circa l’aliunde perceptum dedotto da parte opponente, poiché, come già detto, la questione risulta indubbiamente esaminata dalla Corte distrettuale, però giudicata inammissibile per le anzidette ragioni. Ne deriva che al più l’anzidetta ritenuta inammissibilità andava censurata, ipotizzandosi una violazione dell’art. 615 c.p.c. (Quando si contesta il diritto della parte istante a procedere ad esecuzione forzata e questa non è ancora iniziata, si può proporre opposizione al precetto …), come error in procedendo scrutinabile in quanto tale ai sensi dell’art. 360 n. 4 dello stesso codice di rito, mentre di certo per l’impugnata sentenza, che sul punto riteneva inammissibile l’opposizione, non ricorrono gli estremi della omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c..
Pertanto, il ricorso va respinto. Tuttavia, nonostante la soccombenza, nulla va disposto in relazione alle spese, poiché in atti manca – al momento della udienza e della conseguente decisione adottata subito dopo nella successiva camera di consiglio – prova dell’avvenuta notifica del controricorso, quindi improcedibile (di cui consta la sola relata di notifica a mezzo posta in 27-08-2013, per la quale tuttavia non risulta depositato il relativo avviso di ricevimento, almeno fino alla pubblica udienza svoltasi, previ tempestivi e regolari avvisi di rito, il sei febbraio 2018, allorché per giunta è comparso il solo difensore di parte ricorrente). Stante, tuttavia, l’esito integralmente negativo dell’impugnazione, ricorrono i presupposti di legge per il versamento dell’ulteriore contributo unificato.
P.Q.M.
RIGETTA il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, comma I quater d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.
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