CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 05 aprile 2019, n. 9586
Tributi – Accertamento – Cessioni all’esportazione non imponibili – Contributi ricevuti da società estere
Fatti di causa
1. E. s.p.a. ricorre, con cinque motivi, per la cassazione della sentenza indicata in epigrafe di accoglimento parziale dell’appello (principale) proposto dall’Amministrazione finanziaria avverso la sentenza dalla CTP di Brescia (n. 46/12/2008) e di rigetto di quello (incidentale) del contribuente, avente ad oggetto l’impugnazione dell’avviso di accertamento (n. ROK03T100329) IVA, IRPEG, IRAP 2004.
2. La complessità della ricostruzione dei fatti di causa ne impone una puntuale loro sintesi, nei termini che seguono (per quanto emerge dalla sentenza impugnata oltre che dal ricorso, dal controricorso e dagli atti e documenti in essi riportati).
Con l’avviso di cui innanzi, limitatamente a quanto ancora rileva ai fini del presente giudizio, l’Ufficio rilevò fatture di vendite emesse, nonostante l’insussistenza dei relativi presupposti di legge, come non imponibili IVA ai sensi dell’art. 8, comma 1, lett. a) del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (cessioni all’esportazione non imponibili), e 41 d.l. 30 agosto 1993, n. 331, conv., con modif., dalla I. 29 ottobre 1993, n. 427 (cessioni intracomunitarie non imponibili).
In particolare furono riscontrati come non regolarmente fatturati una serie di «contributi» ricevuti da società estere (statunitensi e tedesche) per la realizzazione di stampi ovvero attrezzature utilizzate per realizzare raccordi/valvole per specifiche caratteristiche (realizzati sempre dalla contribuente). I detti contributi, per l’A.E., sarebbero dovuti essere considerati inerenti la realizzazione degli stampi quali prestazioni di servizi autonome rispetto alla realizzazione delle valvole, annoverandole quali operazioni rientranti nella disciplina di cui all’art. 7, comma 4, del citato d.P.R. n. 633 del 1972 (ratione temporis applicabile) ed in quanto tali soggette ad IVA in forza del principio di territorialità dell’imposta. Quasi tutti (gli stampi), difatti, non furono venduti (tranne uno) ma rimasero nella titolarità del diritto di proprietà della contribuente e comunque, tutti, non furono trasferiti al di fuori del territorio nazionale.
Il contribuente dedusse in primo grado l’accessorietà delle dette prestazioni di servizi (compreso l’obbligo di mantenere integri gli stampi) alle operazioni principali, costituenti la fabbricazione delle valvole e la loro cessione a soggetti esteri, con conseguente applicabilità all’operazione accessoria del medesimo regime fiscale della principale (ex art. 12 del d.P.R. n. 633 del 1972).
L’Amministrazione finanziaria contestò altresì la fatturazione in violazione dell’art. 8, comma 1, lettera c), del d.P.R. n.633 del 1972, cioè della disciplina inerente il regime di sospensione d’imposta con riferimento ad esportatori abituali. L’Ufficio rilevò, in particolare che talune c.d. dichiarazioni (o lettere) d’intenti degli esportatori, di cui all’art. 1, comma 1, lett. c) del d.l. 29 dicembre 1983, n. 746 (conv., con modif., con I. 27 febbraio 1984, n. 17), erano state consegnate al cedente dopo l’effettuazione delle relative operazioni (consegna dei beni), in violazione del citato art. 1, nella sua versione ratione temporis applicabile (anteriore alle innumerevoli modifiche succedutesi dal 2005 in poi).
In merito il contribuente ricorse innanzi al Giudice tributario deducendo la mera natura formale della violazione di cui innanzi, essendo stati comunque consegnati i detti documenti al cedente, ancorché tardivamente, ed in ragione della mancata contestazione della loro veridicità.
L’ultimo profilo in questa sede rilevante è caratterizzato dalla contestazione di indebita deduzione di costi (c.d. «intercompany» o «infragruppo»), ai fini delle imposte dirette, oltre che di detrazione della relativa IVA, per servizi resi in favore della contribuente dalla consociata Saleri s.p.a. (controllata al 100% dalla prima).
La contribuente aveva prodotto in primo grado il contratto concluso con la consociata (registrato presso il Ministero del lavoro e politiche sociali), al fine di dimostrare la legittimità delle deduzioni e detrazioni, evidenziando di non averlo prodotto in sede di accesso, nonostante la richiesta dell’Amministrazione finanziaria, per dimenticanza del legale rappresentante (avendo quest’ultimo ritenuto, per errore, concluso il contratto in forma verbale e non scritta).
La E. s.p.a. osservò, in primo grado, sia in base alle dichiarazioni del legale rappresentante che in forza del detto contratto, che l’operazione era «neutrale» per il fisco (in ragione della circostanza per la quale dalla stessa derivava comunque maggior reddito per la controllata al 100%).
L’Ufficio, oltre all’inutilizzabilità della documentazione in quanto tardivamente prodotta (in violazione degli artt. 32 d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, per le imposte dirette, e 52 d.P.R. n. 633 del 1972, per l’IVA), osservò che, comunque, dalla documentazione prodotta non fosse possibile rilevare l’effettività dei servizi, i tempi, l’inerenza e l’utilità degli stessi per l’esercizio d’impresa. L’A.E. evidenziò altresì la presenza di un ufficio della contribuente svolgente attività analoghe a quelle di cui al citato contratto e la non «neutralità» dell’operazione, dal punto di vista fiscale, in ragione dell’esiguità dell’utile dichiarato da Saleri s.p.a. e del sostanziale dimezzamento del notevole utile della contribuente (grazie alla contestata operazione), con altrettanto notevole risparmio d’imposta, proprio in ragione dell’operazione di cui innanzi.
3. La CTP, sempre limitatamente a quanto rileva nel presente giudizio, respinse il ricorso del contribuente con riferimento ai primi due punti e lo accolse quanto al terzo (inerente la rilevanza dei costi c. d. «intercompany» o «infragruppo»).
Il Giudice di primo grado ritenne, in particolare, non sussistenti i presupposti per l’applicabilità del regime di non imponibilità (di cui agli art. 8 , comma 1, lett. a, del d.P.R. n. 633 del 1972, e 41 del d.l. n. 331 del 1993) ai contributi ricevuti per la realizzazione (o adattamento) degli stampi per la realizzazione delle valvole, in quanto rimasti in dotazione della società ricorrente e presenti sul territorio nazionale. La CTP rigettò il ricorso anche con riferimento al profilo inerente l’operatività del regime di sospensione d’imposta per gli esportatori abituali, in ragione anche di quanto dedotto dall’Amministrazione finanziaria. Per converso, la CTP accolse il ricorso in merito al profilo inerente la deduzione dei costi (oltre che della detrazione della relativa IVA), ritenendone accertati i presupposti in ragione del contratto intercorrente con la società controllata al 100% dalla contribuente, prodotto per la prima volta in primo grado.
4. La sentenza di primo grafo fu appellata in via principale dalla A.E. ed in via incidentale dal contribuente e la CTR accolse in parte l’impugnazione principale, con riferimento al profilo inerente i costi (c.d. «intercompany» o «infragruppo»), e rigettò quella incidentale, in particolare, con riferimento ai motivi inerenti i capi della sentenza impugnata afferenti all’operatività dei regimi di non imponibilità e sospensione d’imposta.
Quanto al primo punto, la Commissione regionale ritenne la documentazione (il contratto tra contribuente e società controllata) prodotta per la prima volta in secondo grado non utilizzabile, in quanto non prodotta in sede di verifica nonostante la precisa richiesta degli accertatori.
La CTR osservò in particolare che in forza dell’art. 6 della I. 27 luglio 2000, n. 212 (c.d. «statuto dei diritti del contribuente»), il contribuente avrebbe dovuto espressamente indicare l’Amministrazione in possesso della documentazione, se diversa da quella finanziaria, e che, non avendolo fatto la E. s.p.a. in sede di accesso, senza indicare la causa, alla stessa non imputabile, impediente l’esibizione in sede amministrativa, sarebbero dovute considerarsi efficaci le preclusioni alle produzioni documentali di cui agli artt. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 (quanto alle imposte dirette) e 52 del d.P.R. n. 633 del 1972 (quanto all’IVA).
Il Giudice di secondo grado, comunque, accolse nel merito la doglianza dell’A.E., così sostanzialmente riformando sul punto la sentenza impugnata e confermando l’atto impositivo. Essa, difatti, sostenne che, letteralmente: «in ogni caso, … il servizio fornito dalla controllata alla ricorrente non pare giustificato, alla luce delle acquisizioni documentali, se non sotto il profilo di poter trasferire utili e acquisite costi, volti a diminuire l’imponibile fiscale». Ritenne la Commissione altresì l’«operazione niente affatto neutra nella specie, atteso il notevole risparmio fiscale della contribuente, rispetto al minimo incremento della controllata».
In merito ai motivi di cui al rigettato appello incidentale proposto dal contribuente, la CTR confermò la sentenza di primo grado circa i punti inerenti l’insussistenza dei presupposti per l’applicabilità dei regimi di non imponibilità e di sospensione d’IVA.
Quanto al primo profilo, la fatturazione dei contributi per gli stampi sarebbe avvenuta in regime di non imponibilità in assenza dei presupposti di legge, essendo i beni (pacificamente rimasti presso il contribuente) non considerabili come «accessori della merce principale ceduta» (le valvole), in quanto, per essere considerati tali, avrebbero dovuto a loro volta essere ceduti ai soggetti esteri, come previsto dal citato art. 8, comma 1, lett. a).
La CTR, rigettando l’appello incidentale, come detto, confermò la ripresa a tassazione fondante sull’assenza dei presupposti per l’operatività del regime di sospensione d’imposta, di cui all’art. 8, comma, 1, lett. c), del d.P.R. n. 633 del 1972, ritenendo chiara la disposizione normativa per la quale il fornitore o il prestatore di servizi che voglia avvalersi del detto regime deve comunicare o inoltrare al cessionario la dichiarazione di effettuare operazioni senza IVA prima dell’effettuazione dell’operazione (ex art. 1, comma 1, lett. c. , del d.l. n. 746 del 1983).
A detta del Giudice di secondo grado, in particolare, il citato art. 1 imporrebbe l’adempimento di cui innanzi (comunicazione della dichiarazione) come condizione essenziale per la non applicazione dell’IVA, dovendosi considerare non meramente formale la mancata preventiva dichiarazione, sia perché elemento costitutivo per fruire dell’«agevolazione» sia perché tale da consentire immediatamente all’Ufficio di verificare la sussistenza del presupposto applicativo di esso.
5. Contro la sentenza d’appello la contribuente ha proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi (quelli recanti i numeri dal 3 al 7 del ricorso con le rispettive ulteriori ripartizioni) e sostenuto da memoria, mentre l’A.E. si è difesa con controricorso (deducendo l’inammissibilità di taluni motivi di ricorso e, comunque, l’infondatezza di tutti), non costituendosi invece l’intimata Direzione provinciale di Brescia dell’A.E.
In sede di discussione le parti hanno infine concluso come indicato in epigrafe.
Ragioni della decisione
1. Fondati sono solo i primi due motivi di ricorso (recanti le numerazioni 3, 3.1, 4 e 4.1) mentre i motivi terzo e quarto (recantile numerazioni 5, 5.1, 6 e 6.1) sono inammissibili ed infondato è l’ultimo motivo (recante il n. 7), nei termini e per le ragioni di seguito evidenziati.
2. Con il primo motivo di ricorso (punto n. 3 del ricorso, ricomprendente anche il punto 3.1), ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., si deducono violazione e falsa applicazione dell’art. 7, comma 4, lett. b), del d.P.R. n. 633 del 1972, circa il principio di territorialità dell’imposta (IVA). Si deducono altresì violazione e falsa applicazione degli artt. 8, comma 1, lett. a), del medesimo d.P.R., 41 del d.l. n. 331 del 1993 (inerenti le materie delle cessioni all’esportazione in regime di non imponibilità e di cessioni intracomunitarie non imponibili), e 12 del citato d.P.R. n. 633, in materia di cessioni e prestazioni non imponibili, nelle rispettive formulazioni applicabili in riferimento all’esercizio 2004, con riferimento ad emissione di fatture senza applicazione dell’IVA in merito ai contributi ricevuti da società estere per la realizzazione di stampi necessari per la produzione di beni (valvole) esportati.
In sostanza il ricorrente, come dallo stesso sintetizzato in ricorso, evidenzia che in fase di merito è stata posta la questione della natura dell’attività di costruzione degli stampi e delle attrezzature diretti alla produzione di merce ceduta a clienti stranieri e trasferita fuori dal territorio italiano. Il contribuente ritiene che essa abbia natura servente rispetto alla produzione e vendita della merce esportata, ai sensi dell’art. 12 d.P.R. n. 633 del 1972. Sicché, i contributi versati dai clienti esteri per la realizzazione delle apparecchiature necessarie allo svolgimento del processo produttivo dovrebbero beneficiare dello stesso regime di non imponibilità IVA, relativo all’operazione principale (in forza del citato art. 12, comma 1).
L’Ufficio, evidenzia il ricorrente, nell’accertamento impugnato opina diversamente, ritenendo la realizzazione degli stampi una prestazione di servizio autonoma, in quanto tale tassabile in Italia in forza del principio di territorialità dell’imposta, ai sensi dell’art. 7 del d. P.R. n. 633 del 1972.
La sentenza impugnata, prosegue il ricorrente, pur ammettendo implicitamente che gli stampi e le attrezzature, realizzati con i contributi di imprese straniere, siano effettivamente serviti alla produzione dei beni acquistati dalle imprese straniere, nega che vi sia un rapporto di accessorietà tra la vendita della merce e la predisposizione delle apparecchiature usate nel ciclo produttivo. Accessorietà esclusa nella specie dalla CTR in quanto solo la merce ha travalicato i confini nazionali mentre le apparecchiature strumentali (gli stampi) non sono state espatriate.
2.2. Il motivo in esame, che, diversamente da quanto prospettato dal controricorrente, è ammissibile nei termini appena sintetizzati (deducendo violazione o falsa applicazione di legge), è fondato, per quanto di seguito esplicitato.
Esso inerisce la corretta interpretazione dell’art. 12 d.P.R. n. 633 del 1972, ai sensi del quale «il trasporto, la posa in opera, l’imballaggio, il confezionamento, la fornitura di recipienti o contenitori e le altre cessioni o prestazioni accessorie ad una cessione di beni o ad una prestazione di servizi, effettuati direttamente dal cedente o prestatore ovvero per suo conto e a sue spese, non sono soggetti autonomamente all’imposta nei rapporti fra le parti dell’operazione principale» (comma 1). «Se la cessione o prestazione principale è soggetta all’imposta, i corrispettivi delle cessioni o prestazioni accessorie imponibili concorrono a formare la base imponibile» (comma 2).
La questione di diritto è quindi relativa al se, al fine di considerare una prestazione come essere accessoria, ai sensi del citato art. 12, a cessione di beni o prestazione di servizi in regime di non imponibilità per le cessioni all’esportazione (art. 8, comma 1, lett. a, del d.P.R. n. 633 del 1972) o per cessioni intracomunitarie non imponibili (ex art. 41 del d.l. n. 331 del 1993), sia necessario che il bene prodotto in forza della prestazione ritenuta come accessoria sia anche esso venduto al cedente ed esportato ovvero sufficiente la sua strumentalità, esclusiva, rispetto alla prestazione principale, implicante comunque la distruzione o il deterioramento del bene strumentale (tanto da non renderlo riutilizzabile in altri cicli produttivi ed incedibile).
Preliminarmente occorre chiarire che, come già questa Corte ha ritenuto, ai fini dell’applicazione dell’art. 12 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, una prestazione si configura come accessoria quando sia strumentale ad altra principale e cioè quando sia un mezzo per il completamento o la realizzazione dell’operazione principale (ex plurimis: Cass. sez. 5, 29/05/2013, n. 13312, Rv. 626834-01; Cass. sez. 5, 16/11/2011, n. 24049, Rv. 620336-01; Cass. sez. 5, 30/09/2011, n. 20029, Rv. 619241-01).
La portata del «nesso di accessorietà» in esame è stata poi da questa Corte ulteriormente circostanziata e delimitata in relazione alla nozione di «prestazione unitaria» (in quanto tale rilevante ai fini della medesima base imponibile) descritta dall’art. 11, comma 2, lett. b), della sesta direttiva del Consiglio del 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE (in materia di armonizzazione del sistema dell’IVA).
La detta normativa, in particolare, così come interpretata dalla Corte di Giustizia, fa rientrare nella medesima base imponibile (in quanto oggetto di «prestazione unitaria») le spese accessorie comunque addebitate all’acquirente da parte del cedente, riguardo a prestazioni non implicanti per il cessionario un fine a sé stante bensì il mezzo per fruire nelle migliori condizioni della prestazione principale (Corte Giust. CE 5 giugno 1997, C-2/95; Corte di Giust., 11 giugno 2009, C-572/07), in regime cioè di dipendenza funzionale (Corte Giust. CE Io dicembre 2005, C-394/04), onde ottenere una prestazione economica unica, indissociabile e solo artificiosamente scomponibile, Corte Giust. CE 11 febbraio 2010, C-88/09 (si veda sul punto Cass. sez. 5, 29/05/2013, n. 13312, Rv. 626834-01, che, argomentando dalla detta nozione di dipendenza funzionale, ha ritenuto applicabile la medesima aliquota prevista per la prestazione principale – cessione di prodotti agricoli – a contributi spese per la rivendita di merci a prezzo maggiorato).
In forza del descritto «nesso di dipendenza funzionale», tale da far rientrare quella principale e quella accessoria nell’evidenziata nozione di «prestazione unitaria», deve pertanto riconoscersi il «nesso di accessorietà», di cui all’art. 12 del d.P.R. n. 633 del 1972, con riferimento a cessione di beni (o prestazione di servizi) in regime di non imponibilità per le cessioni all’esportazione (art. 8, comma 1, lett. a, del d.P.R. n. 633 del 1972) o per cessioni intracomunitarie non imponibili (ex art. 41 del d.l. n. 331 del 1993) alle seguenti condizioni.
È necessario in particolare verificare se trattasi di prestazioni non implicanti per il cessionario un fine a sé stante bensì il mezzo per fruire nelle migliori condizioni della prestazione principale, in regime cioè di dipendenza funzionale, onde ottenere una prestazione economica unica, indissociabile e solo artificiosamente scomponibile.
Per converso, non è necessario che il bene prodotto in forza della prestazione ritenuta come accessoria sia anche esso venduto al cedente ed esportato, fermo restando il necessario nesso di strumentalità, esclusiva, rispetto alla prestazione principale, implicante comunque la distruzione o il deterioramento del bene strumentale tanto da renderlo non altrimenti utilizzabile nel ciclo produttivo del cedente, se non per l’esecuzione della prestazione in favore dello specifico cessionario destinatario della prestazione principale, e, comunque,non cedibile.
Con riferimento alla fattispecie in esame, quindi, in astratto ben potrebbe ritenersi un contributo spese per la realizzazione o l’adattamento di stampi per la realizzazione dei beni principali (solo questi ultimi venduti e trasferiti all’estero) facente parte del prezzo della prestazione principale, trattandosi di operazione economica unitaria e, quindi, di «prestazione unitaria».
Essa si caratterizzerebbe alla stregua di spesa accessoria comunque addebitata all’acquirente (del bene principale effettivamente alienato ed esportato), trattandosi di prestazioni (quelle relative all’adattamento degli stampi) non costituenti per il cliente un fine a sé stante bensì il mezzo per fruire nelle migliori condizioni della prestazione principale o, addirittura, necessarie per la fruizione della prestazione principale, in regime, cioè, di dipendenza \ funzionale, onde ottenere una prestazione economica unica, indissociabile e solo artificiosamente scomponibile.
Nel caso concreto però non emergono gli elementi fattuali tali da poter addivenire in questa sede ad una decisione nel merito, con particolare riferimento all’esclusività del nesso di strumentalità (in ordine allo specifico cessionario ed alla dedotta prestazione principale) nonché all’impossibilità di utilizzo degli stampi in altri cicli produttivi (ad esempio per distruzione o deterioramento degli stessi) e, comunque, in merito alla loro non cedibilità.
L’impossibilità di addivenire ad una decisione nel merito risiede altresì nel necessario accertamento in fatto in ragione di quanto esplicitato dallo stesso ricorrente circa la vendita (perlomeno in un caso) di stampi in favore di uno dei cessionari esteri (destinatario della prestazione principale) ed in assenza di sua esportazione, come sembrerebbe prospettare il contribuente.
Qualora ricorresse tale ultima fattispecie (vendita dello stampo a cessionario della prestazione principale), difatti, necessiterebbe l’effettiva esportazione, trovando applicazione principio, già esplicitato da Cass. sez. 5, 20/11/2015, n. 23761, Rv. 637563-01. In tema di IVA, in particolare, in caso di contratto di appalto tra operatori economici comunitari residenti in diversi Stati membri, che preveda anche la costruzione di modelli, forme, stampi o altri attrezzi necessari alla fabbricazione dei prodotti finali, da cedere al committente unitamente a questi ultimi, il presupposto del materiale trasporto del bene strumentale dallo Stato membro di origine a quello diverso di destinazione, a cui è subordinata la non imponibilità ex art. 41, comma 1, lettera a) del d.l. n. 331 del 1993, convertito nella l. n. 427 del 1993, ratione temporis vigente, deve essere verificato con riferimento alla cessazione del rapporto contrattuale in questione. Ai detti fini non possono assumere rilievo eventuali distinti contratti stipulati dalle stesse parti, anche se aventi ad oggetto ulteriori beni della stessa specie da ottenere mediante l’utilizzo degli stampi, dovendosi ritenere esaurita l’operazione di cessione intracomunitaria con l’estinzione dell’originano contratto avente ad oggetto la realizzazione del bene strumentale.
2.3. Da quanto innanzi deriva l’accoglimento del primo motivo di ricorso in applicazione del seguente principio di diritto, da enunciarsi ex art. 384, comma 1, c.p.c., del quale dovrà fare applicazione il Giudice del rinvio.
«In tema di IVA, deve riconoscersi il «nesso di accessorietà», di cui all’art. 12 del d.P.R. n. 633 del 1972, rispetto a cessione di beni (o prestazione di servizi) in regime di non imponibilità per le cessioni all’esportazione (art. 8, comma 1, lett. a, del d.P.R. n. 633 del 1972, ratione temporis applicabile) o per cessioni intracomunitarie non imponibili (ex art. 41 del d.l. n. 331 del 1993, ratione temporis applicabile), alle prestazioni non implicanti per il cessionario un fine a sé stante bensì il mezzo per fruire nelle migliori condizioni della prestazione principale, in regime cioè di dipendenza funzionale, onde ottenere una prestazione economica unica, indissociabile e solo artificiosamente scomponibile. Per converso, non è necessario che il bene prodotto in forza della prestazione ritenuta come accessoria sia anche esso venduto al cedente ed esportato, fermo restando il necessario nesso di strumentali, esclusiva, rispetto alla prestazione principale, implicante la distruzione o il deterioramento del bene strumentale e comunque tale da renderlo non cedibile e non altrimenti utilizzabile nel ciclo produttivo del cedente, se non per l’esecuzione della prestazione in favore dello specifico cessionario destinatario della prestazione principale».
3. Con il secondo motivo di ricorso (punto n. 4 del ricorso, ricomprendente anche il punto 4.1), ai sensi dell’art. 360, comma 1, V n. 3, c.p.c., si deducono violazione e falsa applicazione dell’art. 8, comma 1, lett. c.) del d.P.R. n. 633 del 1972, e dell’art. 1, comma 1, lett. c) del d.l. n. 746 del 1983 (nei testi rispettivamente in vigore nel 2004). In particolare le censure sono poste, letteralmente, «in riferimento alla necessità, sostenuta dalla CTR – affinché le cessioni ad esportatori abituali siano esonerate da IVA – che le c.d. lettere d’intento (con le quali gli esportatori chiedono di poter acquisite i beni dal cedente italiano senza applicazione dell’IVA, essendo tali beni destinati all’estero) siano consegnate al cedente prima della conclusione della vendita in Italia».
In sostanza, il ricorrente si duole della circostanza per la quale la CTR avrebbe interpretato le norme di cui innanzi, in particolare il citato art. 1, nel senso di ritenere non meramente formale la violazione consistente nell’aver fatturato, il cedente, ricorrendo al regime di sospensione d’IVA nonostante l’assenza della c.d. dichiarazione d’intenti del cessionario esportatore abituale (in quanto comunicata successivamente).
Si sostiene in particolare che, in applicazione dei principi della neutralità dell’imposta oltre che dell’abuso del diritto e della prevalenza della sostanza sulla forma, la normativa in esame dovrebbe interpretarsi, in ottica costituzionalmente orientata (con riferimento all’art. 53 Cost.), nel senso della non contestabilità della detta violazione nel caso di consegna delle dichiarazioni successivamente all’operazione (di cessione all’esportatore abituale). Quanto innanzi varrebbe in presenza dei presupposti di carattere soggettivo (qualifica di esportatore abituale del cessionario) ed oggettivo (la destinazione del bene ai mercati esteri) per l’applicabilità del regime di cessione in sospensione d’IVA.
Nella specie, ritiene il ricorrente, non vi sarebbe stata dall’Amministrazione finanziaria, né con l’atto impositivo né in sede processuale, contestazione sul punto relativo alla sussistenza dei detti requisiti, anzi l’amministrazione avrebbe precisato di non contestare l’esistenza e la «veridicità delle dichiarazioni d’intento» e la «regolarità della documentazione». Per E. s.p.a., quindi, la contestazione non sarebbe stata sollevabile per essere i cessionari effettivamente esportatori abituali, per la concreta esportazione dei beni acquistati e perché le dichiarazioni d’intento contenevano informazioni veritiere, ancorché materialmente partecipate al cedente dopo l’operazione a causa di un disguido.
3.1. Il motivo è fondato nei seguenti termini.
La questione di diritto inerisce il se il regime di cessione (all’esportazione) in sospensione d’imposta, di cui all’art. 8 del d.P.R. n. 633 del 1972, possa essere legittimamente applicato dal cedente anche prima della ricezione, da parte dello stesso, della dichiarazione del cessionario di cui all’art. 1, del d.l. 29 dicembre 1983, n. 746, a condizione che sussistano tutti i presupposti di fatto giustificanti l’applicazione del regime stesso.
La norma di riferimento, oggetto di interpretazione, è l’art. 1, del d. l. 29 dicembre 1983, n. 746 (conv., con modif., dalla I. 27 febbraio 1984, n. 17), nella sua versione, ratione temporis applicabile, in vigore dal 26 novembre 2003 e fino alle modifiche apportate a partire dalla I. 30 dicembre 2004, n. 311.
Ai sensi del citato art. 1, le disposizioni di cui alla lett. c) del primo comma e al secondo comma dell’art. 8 del d.P.R. n. 633 del 1972 (in materia di cessioni all’esportazione), e successive modificazioni, si applicano alle seguenti condizioni.
«…L’ammontare dei corrispettivi delle cessioni all’esportazione di cui alle lettere a) e b) dello stesso articolo effettuate, registrate nell’anno precedente,» deve essere «superiore al 10% del volume d’affari determinato a norma dell’art. 20 dello stesso decreto ma senza tenere conto delle cessioni di beni in transito o depositati nei luoghi soggetti a vigilanza doganale. I contribuenti, ad eccezione di quelli che hanno iniziato l’attività da un periodo inferiore a dodici mesi, hanno facoltà di assumere come ammontare di riferimento, in ciascun mese, quello dei corrispettivi delle esportazioni fatte nei dodici mesi precedenti, se il relativo ammontare superi la predetta percentuale del volume di affari, come sopra determinato, dello stesso periodo di riferimento» (lett. a) del comma 1, del citato art. 1).
«L’intento di avvalersi della facoltà di effettuare acquisti o importazioni senza applicazione dell’imposta» deve risultare «da apposita dichiarazione, redatta in conformità del modello approvato con decreto del Ministro delle finanze, contenente l’indicazione del numero di partita IVA del dichiarante nonché l’indicazione dell’Ufficio competente nei suoi confronti, consegnata o spedita al fornitore o prestatore, ovvero presentata in dogana, prima dell’effettuazione della operazione; la dichiarazione può riguardare anche più operazioni tra le stesse parti» (lett. c) del medesimo comma 1, la cui lett. b) è stata abrogata).
La dichiarazione in esame (c.d. «dichiarazione» o «lettera d’intenti»), dunque, deve essere consegnata o spedita al fornitore o prestatore, ovvero presentata in dogana, prima dell’effettuazione della operazione. Essa, prosegue il citato art. 1, redatta in duplice esemplare, deve essere progressivamente numerata dal dichiarante e dal fornitore o prestatore, annotata entro i quindici giorni successivi a quello di emissione o ricevimento in apposito registro tenuto a norma dell’art. 39 del d.P.R. n. 633 del 1972, e successive modificazioni, e conservata a norma dello stesso articolo. Gli estremi della dichiarazione devono essere indicati nelle fatture emesse in base ad essa.
Premesso l’inquadramento normativo di cui innanzi, alla prospettata questione deve darsi risposta affermativa, anche in considerazione del diritto eurounitario in materia di IVA quale tributo armonizzato, come interpretato anche dalla Corte di Giustizia oltre che da questa Corte, onde evitare che la disciplina in materia di IVA relativa alle «cessioni all’esportazione» non sia applicata in ragione di ^ mere circostanze formali, nella specie la tardiva comunicazione della ! dichiarazione d’intento.
Ciò, però, a condizione che il contribuente provi la sussistenza di tutti i presupposti fattuali caratterizzanti la detta cessione, in quanto derogatoria rispetto alla disciplina ordinaria.
Per il caso in cui la tardiva dichiarazione si manifesti ideologicamente falsa, il contribuente deve altresì dimostrare l’assenza di un proprio coinvolgimento nell’attività fraudolenta, ossia di non essere stato a conoscenza dell’assenza delle condizioni legali per l’applicazione del regime in esame o di non essersene potuto rendere conto, pur avendo adottato tutte le ragionevoli misure in suo potere (nel senso della sussistenza di un onere personale di diligenza nel verificare la sussistenza e la corrispondenza a realtà della dichiarazione di intento resa dal cessionario esportatore si vedano, ex plurimis: Cass. sez. 5, 05/10/2016, n. 19896, Rv. 641260-01, con particolare riferimento a dichiarazione ideologicamente falsa, e Cass. sez. 5, 21/01/2015, n. 984, Rv. 634153-01, che, argomentando dal detto onere, ha escluso la possibilità da parte del cedente di avvalersi di dichiarazioni emesse in favore di un soggetto diverso, originario titolare dell’azienda poi ceduta ad altri, non essendo consentita, una successione di quest’ultimo anche nella posizione fiscale del cedente).
Questa lettura è altresì in linea anche con quanto statuito da questa Corte in merito all’applicazione del regime relativo alle cessioni intracomunitarie, sempre argomentando anche in considerazione del diritto eurounitario in materia di IVA quale tributo armonizzato, come interpretato anche dalla Corte di Giustizia oltre che da questa Corte.
A tale riguardo, difatti, rileva evidenziare che in tema di cessioni intracomunitarie, l’omessa o errata comunicazione da parte del soggetto passivo del codice identificativo del tributo costituisce una violazione meramente formale che non incide sul regime di esenzione previsto per gli scambi tra operatori comunitari, quando la ricorrenza, in capo al destinatario, della qualità di soggetto d’imposta nello Stato d’appartenenza, secondo il principio di tassazione del luogo di destinazione dei beni, non sia contestata e non sussistano seri indizi che lascino supporre l’esistenza di una frode (in tal senso, Cass. sez. 5, 15/10/2018, n. 25651, Rv. 650719-019).
3.2. Da quanto innanzi deriva l’accoglimento del secondo motivo di ricorso in applicazione del seguente principio di diritto, da enunciarsi ex art. 384, comma 1, c.p.c., del quale dovrà fare applicazione il Giudice del rinvio.
«In tema di IVA, il regime di cessione (all’esportazione) in sospensione d’imposta, di cui all’art. 8 del d.P.R. n. 633 del 1972 (ratione temporis applicabile), può essere legittimamente applicato dal cedente anche prima della ricezione, da parte dello stesso, della dichiarazione di cui all’art. 1, del d.l. 29 dicembre 1983, n. 746 (ratine temporis applicabile), a condizione che egli provi la sussistenza di tutti i presupposti fattuali caratterizzanti la detta cessione, in quanto derogatoria rispetto alla disciplina ordinaria. Per il caso in cui la tardiva dichiarazione si manifesti ideologicamente falsa, il cedente deve dimostrare l’assenza di un proprio coinvolgimento nell’attività fraudolenta, ossia di non essere stato a conoscenza dell’assenza delle condizioni legali per l’applicazione del regime in esame o di non essersene potuto rendere conto pur avendo adottato tutte le ragionevoli misure in suo potere».
4. Con il terzo motivo di ricorso (punto n. 5 del ricorso, ricomprendente anche il punto 5.1), ai sensi dell’art. 360, comma 1, 3, si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 52 del d.P.R. n. 633 del 1972 (in materia di IVA), e 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 (in materia di accertamento delle imposte dirette), «nella parte in cui affermano che i documenti di cui è rifiutata l’esibizione in sede di indagine amministrativa non possono essere più presi in considerazione in favore del contribuente».
La doglianza si riferisce alla motivazione della sentenza impugnata in merito all’inutilizzabilità del contratto tra la contribuente e Saleri s.p.a., controllata al 100% dalla prima, ai fini della valutazione della deducibilità dei costi c.d. «infragruppo» (e detraibilità della relativa IVA).
La CTR, per il ricorrente, avrebbe ritenuto l’inutilizzabilità del documento in ragione della mancata dimostrazione dell’esistenza della causa non imputabile al contribuente della mancata presentazione.
Per la giurisprudenza di legittimità, sempre a detta del ricorrente, necessiterebbe il dolo del contribuente, non essendo neanche necessaria la colpa (nella specie invece ravvisabile, per lo stesso ricorrente, nell’essersi dimenticato il legale rappresentante della sussistenza della forma scritta del contratto).
4.1. Il motivo in esame è inammissibile per carenza di interesse.
La sentenza impugnata, sul punto in esame, si fonda non sulla mera (pur ritenuta) inutilizzabilità del documento (il contratto) ma sull’accertata insussistenza dei presupposti per la deducibilità dei costi (e, quindi, per la detraibilità della relativa IVA) anche in considerazione del detto contratto (a tal proposito, si veda la parte motiva a pag. 4 a partire da: «va in ogni caso …»).
La carenza di interesse ad impugnare sotto il detto profilo è poi esplicitata dallo stesso ricorrente. Egli stesso difatti chiarisce che la statuizione è stata sul punto presa al Giudice di secondo grado in ragione anche dello stesso contratto, avendo la CTR ritenuto l’operazione, di cui al contratto, antieconomica.
5. Con il quarto motivo di ricorso (punto n. 6 del ricorso, ricomprendente anche il punto 6.1), si deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1, 3, letteralmente: la «violazione e falsa applicazione, in riferimento al contratto tra la E. e Saleri, delle regole sulla deducibilità dei costi nella determinazione del reddito d’impresa, contenute nell’art. 109 del d.P.R. n. 917/1986, e nella determinazione della base imponibile IRAP, contenute negli artt. 5 e 11 bis del d.lgs. n. 446/1997 (nella versione in vigore nel 2004), nonché delle regole sulla detraibilità dell’IVA addebitata dal fornitore, ai sensi dell’art. 19 e seguenti del d.P.R. n. 633/1972 (sempre nel testo in vigore nel 2004) e del principio generale del divieto dell’abuso del diritto e della realizzazione di operazioni priva di valide ragioni economiche, volte ad ottenere indebiti vantaggi fiscali…».
5.1. Il motivo in esame è inammissibile.
Con esso, in sostanza, non si prospettano violazioni o false applicazioni delle norme di cui innanzi (quindi neanche errore di sussunzione della fattispecie nelle relative norme di riferimento) ma il ricorrente tenta di riproporre e sindacare valutazioni di merito (si veda in particolare pag. 40 del ricorso) oltre che di sostituire le proprie a quelle della Commissione regionale (si vedano le pagine da 40 a 50 ed in particolare le pagine 48 e ss. del ricorso).
Oltre a quanto innanzi detto, rileva altresì la circostanza per la quale (sempre per come emerge dalla pagine innanzi indicate) il motivo addirittura si spinge a sindacare, in sede di legittimità, prima il merito dello stesso avviso di accertamento impugnato innanzi al Giudice tributario e poi le valutazioni di merito circa l’insussistenza dei presupposti fattuali della deducibilità dei costi e dell’indetraibilità della relativa IVA.
6. Con il quinto motivo di ricorso (punto n. 7 del ricorso) ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., si deduce l’«insufficiente motivazione in riferimento alla dichiarata elusività del contratto concluso tra la ricorrente e la Saleri».
Ci si duole della detta insufficienza in merito alle ragioni logicogiuridiche per le quali la CTR avrebbe ritenuto insussistenti i presupposti per la deduzione dei c.d. costi «infragruppo» e per la detrazione della relativa IVA.
La sentenza impugnata, altresì, non spiegherebbe in cosa sarebbe consistito il beneficio fiscale ottenuto complessivamente dal gruppo, «posto che al costo deducibile per E. corrisponde un uguale importo di ricavi della Saleri», e la ragione per la quale la detta «operazione avrebbe avvantaggiato entrambe le società».
6.1. Il motivo è infondato.
Congruità, sufficienza e logicità della motivazione emergono dall’aver ritenuto la Commissione regionale «in ogni caso, … il servizio fornito dalla controllata alla ricorrente non … giustificato, alla luce delle acquisizioni documentali, se non sotto il profilo di poter trasferire utili e acquisite costi, volti a diminuire l’imponibile fiscale».
Le dette argomentazioni hanno infine portato il Giudice di merito a ritenere quella in oggetto un’«operazione niente affatto neutra nella specie, atteso il notevole risparmio fiscale della contribuente, rispetto al minimo incremento della controllata».
7. In conclusione, devono essere accolti solo i primi due motivi di ricorso (recanti le numerazioni 3, 3.1, 4 e 4.1), essendo inammissibili i motivi terzo e quarto (recanti le numerazioni 5, 5.1, 6 e 6.1) ed infondato l’ultimo motivo (recante il n. 7), nei termini e per le ragioni di cui innanzi. Sicché, la sentenza impugnata deve essere cassata, limitatamente ai motivi accolti, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, che provvederà anche in merito alle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie i primi due motivi di ricorso (recanti le numerazioni 3, 3.1, 4 e 4.1), dichiara inammissibili i motivi terzo e quarto (recanti le numerazioni 5, 5.1, 6 e 6.1) e rigetta l’ultimo motivo (recante il n. 7), cassa la sentenza impugnata, limitatamente ai motivi accolti, e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, che provvederà anche in merito alle spese del presente giudizio di legittimità.