CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 05 aprile 2019, n. 9613
Tributi – TIA – Stabilimento industriale – Applicazione del tributo – Legittimità
Fatti rilevanti e ragioni della decisione
1. La contribuente propone due motivi di ricorso per la cassazione della sentenza con cui la CTR per la Toscana, confermando la pronuncia di primo grado, ha respinto l’appello dalla stessa proposto. In particolare, si trattava di una pluralità di avvisi di accertamento con cui è stato chiesto il pagamento di maggiori importi della tariffa di igiene ambientale (TIA) con riferimento ad uno stabilimento industriale per gli anni di imposta dal 2006 al 2009. La CTR ha, in particolare, ritenuto: la sussistenza della delega dell’ente concessionario del servizio di gestione; il corretto utilizzo da parte dell’ente gestore dei dati riguardanti le superfici in suo possesso, in quanto le relative misurazioni erano già state oggetto di un precedente accertamento su cui si era formato un distinto contenzioso in attesa di definizione, mentre la denuncia di variazione presentata dalla contribuente nel 2012 aveva valore solo per l’avvenire; la mancanza di prova da parte della contribuente della produzione esclusiva o prevalente di rifiuti speciali.
2. L’ente impositore si costituisce con controricorso e deposita memoria.
3. Con il primo motivo la contribuente lamenta la violazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., dell’art. 112 c.p.c. In particolare, ci si duole che la sentenza impugnata abbia fornito una motivazione non comprensibile e priva di reale contenuto decisorio, sia in relazione alla questione dell’ambito della delega conferita dal comune all’ente gestore, sia in relazione all’utilizzo dei dati per la sua quantificazione.
3.1. Il motivo è inammissibile. Ritiene, infatti, il collegio di dare applicazione al consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui “In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione.(Cass. n. 8315 del 2013, n. 195 del 2016, n. 24155 del 2017). Nella specie il motivo di doglianza non enuncia alcun vizio di errata ricognizione della normativa applicata. Esso si limita, infatti, a rilevare l’incomprensibilità delle parti di motivazione censurate. In ogni caso, a volere diversamente qualificare la prima censura riguardante il primo motivo di impugnazione, è infondata. Con riguardo alla carenza di delega, infatti, la motivazione del giudice del merito è chiara laddove individua il potere di accertamento del tributo nella convenzione stipulata tra il comune e l’odierno ente impositore. La convenzione riprodotta nel ricorso, all’art. 5, rubricato, Recupero dell’evasione, prevede esplicitamente il potere di accertamento, in particolare nella parte ove dispone che “nell’ambito di espletamento del servizio oggetto del presente atto, ASCIT si impegna ad effettuare la necessarie verifiche al fine del recupero delle evasioni totali o parziali”. Non vi è dubbio che con tali espressioni si è inequivocabilmente attribuito all’ente gestore il potere di avvalersi di tutti gli atti utili al recupero dell’imposta ritenuta evasa, dunque, anche di quelli inerenti agli avvisi di accertamento. Né sul punto può ritenersi violata alcuna disposizione normativa, in quanto lo stesso art. 49, commi 9 e 13, del d.lgs. n. 22 del 1997 identifica nel gestore del servizio anche colui che è deputato all’applicazione ed alla riscossione del tributo.
Il motivo è del tutto inammissibile, poi, con riferimento al secondo profilo di doglianza, riguardante l’erronea individuazione delle superfici imponibili sulla base delle schede di rilevazione del 2004, anziché della denuncia di variazione presentata dalla contribuente il 30 gennaio 2012.
Esso, infatti, sollecita una diversa ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa del tutto esterna all’esatta interpretazione della norma; attività che inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione.
Un ulteriore aspetto di inammissibilità si rinviene anche nel difetto di specificità. In particolare, la parte contribuente ha sostenuto l’esistenza di una variazione nelle superfici, ma non ha provveduto ad identificarle, né tantomeno nel ricorso vi è un rinvio agli atti dei precedenti gradi di giudizio ove risulta effettuata tale specificazione.
Correttamente, viceversa, la sentenza impugnata ha ritenuto utilizzabili le schede di rilevazione del 2004. L’art. 27 del Regolamento del 2009, (allegati dall’ASCIT, cui si fa rinvio alla pag. 12 del controricorso), prevede che: “le dichiarazioni presentate dall’utente o gli accertamenti disposti dall’ufficio., hanno effetto anche per gli anni successivi”. Tale previsione è, poi, ripetuta nei regolamenti degli anni successivi.
L’art. 28 del predetto Regolamento stabilisce che la denuncia di variazione deve essere effettuata “entro 60 giorni dai soggetti obbligati al variare degli elementi di imposizione” e che “nel caso in cui la tardiva denuncia sia relativa ad elementi che comportino una diminuzione della tariffa dovuta, la variazione (abbia) efficacia dal giorno in cui viene comunicata”. La sentenza impugnata, in ossequio alle norme sopra riportate, del tutto correttamente dà atto che nessuna rilevanza può essere data alla denuncia di variazione comunicata dalla parte contribuente nel 2012.
Né vale a confutare tale affermazione la circostanza dedotta dalla parte contribuente che nel caso di specie in realtà si trattava di una denuncia di variazione che comportava una maggiorazione dell’importo TIA pagato in regime Tarsu.
Sotto tale aspetto anche tale deduzione difetta di specificità, non avendo la parte contribuente provveduto a chiarire in quali termini si fosse realizzata la citata maggiorazione, né ha fatto rinvio ad atti dei precedenti gradi di giudizio per chiarire la citata circostanza.
4. Con il secondo motivo la contribuente lamenta la violazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. degli artt. 21 e 49, commi 3 e 4 del d.lgs. n. 22 del 1997, dell’art. 2697 c.c., dell’art. 17 del regolamento per la gestione dei rifiuti, adottato con la delibera del comune n. 27 del 13 aprile 1994. In particolare, ci si duole che, a fronte della domanda della contribuente di ottenere la dichiarazione di esenzione di determinate superfici degli stabilimenti industriali in oggetto, la motivazione abbia confuso tra i concetti di esenzione e di riduzione utilizzati nella sentenza impugnata. Si lamenta anche che non si sia tenuto conto della quantità di rifiuti prodotta, nella specie tale da non potere essere smaltita attraverso il pubblico servizio e a tale proposito richiama una coeva delibera comunale a suo avviso ignorata dal giudice di merito.
4.1. Il motivo è infondato per i motivi di seguito esposti.
4.2. Originariamente sussisteva un’assimilazione ope legis ai rifiuti urbani di quelli provenienti dalle attività artigianali, commerciali e di servizi, purché aventi una composizione merceologica analoga a quella urbana, secondo i dettagli tecnici contenuti nella deliberazione CIPE del 27 luglio 1984, ai sensi dell’art. 39 della I. n. 146 del 1994. L’art. 17, comma 3, della I. n. 128 del 1998, ha abrogato il predetto art. 39 e, a questo proposito la S.C. ha chiarito che, venendo meno tale assimilazione ope legis, “risulta pienamente operativo l’art. 21, comma 2, lett. g), del d.lgs. n. 22 del 1997, attributivo ai Comuni della facoltà di assimilare o meno ai rifiuti urbani quelli derivanti dalle attività economiche, sicché, a partire dall’annualità d’imposta 1997, assumono decisivo rilievo le indicazioni proprie dei regolamenti comunali circa l’assimilazione dei rifiuti provenienti dalle attività economiche ai rifiuti urbani ordinari“(Cass. n. 22223 del 2016).
Per quanto rileva nel presente giudizio, dunque, trova applicazione l’art. 21, comma 2, del d.lgs. n. 22 del 1997, che ha attribuito ai comuni il potere di disciplinare la gestione dei rifiuti urbani attraverso appositi regolamenti. La norma contiene un’analitica e dettagliata previsione circa il contenuto di tali regolamenti, tra cui la disciplina delle modalità di raccolta dei rifiuti urbani, di quelli urbani pericolosi, la promozione di forme di recupero, e alla lettera g) la possibilità dell’ “assimilazione per qualità e quantità dei rifiuti speciali non pericolosi ai rifiuti urbani ai fini della raccolta e dello smaltimento sulla base dei criteri fissati ai sensi dell’articolo 18, comma 2, lettera d”. Tale ultima disposizione attribuisce, poi, allo Stato “la determinazione dei criteri qualitativi e qualiquantitativi per l’assimilazione, ai fini della raccolta e dello smaltimento, dei rifiuti speciali ai rifiuti urbani.”
I rifiuti speciali non assimilabili sono assoggettati ad una disciplina normativa differente da quella prevista per quelli assimilabili. In particolare, i rifiuti speciali non assimilabili sono regolati dall’art. 62, comma 3, del d.lgs. n. 507 del 1993, ai sensi del quale i locali ove si producono tali rifiuti sono esenti dal pagamento dell’imposta. Nella determinazione della superficie tassabile non si tiene conto, infatti, di quella parte di essa nella quale, per specifiche caratteristiche strutturali e per destinazione, si formano di regola rifiuti speciali, tossici o nocivi, per il cui smaltimento sono tenuti a provvedere a proprie spese i produttori stessi in base alle norme vigenti. In tali casi il comune può individuare nel regolamento categorie di attività produttive di rifiuti speciali tossici o nocivi a cui applicare una percentuale di riduzione rispetto all’intera superficie su cui l’attività viene svolta. Ciò sul presupposto che in un locale in cui si producono rifiuti speciali si formano anche, di regola, rifiuti ordinari.
Diversamente, la produzione ed il recupero dei rifiuti speciali assimilati e assimilabili è disciplinata dall’art. 49, comma 14, del d.lgs. n. 22 del 1997, nonché dall’art. 7, comma 2, del d.p.r. n. 158 del 1999.
Ai sensi dell’art. 49, commi 2, 3, e 4, del d.Ig. n. 22 del 1997: “2. I costi per i servizi relativi alla gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti di qualunque natura o provenienza giacenti sulle strade ed aree pubbliche e soggette ad uso pubblico, sono coperti dai Comuni mediante l’istituzione di una tariffa. 3. La tariffa deve essere applicata nei confronti di chiunque occupi oppure conduca locali, o aree scoperte ad uso privato non costituenti accessorio o pertinenza dei locali medesimi, a qualsiasi uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale. 4. La tariffa è composta da una quota determinata in relazione alle componenti essenziali del costo del servizio, riferite in particolare agli investimenti per le opere e dai relativi ammortamenti, e da una quota rapportata alle quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornito, e all’entità dei costi di gestione, in modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio”
Diretta applicazione del comma 3 dell’articolo sopra riportato è che il presupposto del tributo è costituito dalla semplice occupazione o detenzione di aree scoperte o locali a qualunque uso adibiti, fatta eccezione per le aree pertinenziali o accessorie ad abitazione.
Condivide, poi il collegio l’orientamento di legittimità, per il quale sotto il profilo degli oneri probatori, grava sul contribuente l’onere di provare la sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle deroghe o delle riduzioni delle tariffe (in questo senso Cass. n. 18054 del 2016).
4.3. Nella fattispecie in oggetto si tratta di rifiuti assimilati, in quanto è pacificamente riconosciuto dalle parti che la delibera comunale n. 28 del 13 aprile 2004, ha provveduto all’assimilazione ai rifiuti urbani di tutti i rifiuti industriali, fatta eccezione di quelli pericolosi. La stessa parte contribuente ha provveduto, poi, a riprodurre nel ricorso il contenuto della delibera comunale n. 27 del 13 aprile 2004, la quale provvede a regolamentare i criteri qualitativi per l’assimilazione (art. 16) ed i criteri quantitativi per il conferimento dei rifiuti assimilati al pubblico servizio.
Alla luce di quanto sopra esposto, si ritiene, che nel caso di specie, era ammesso, il potere regolamentare del comune di assimilare i rifiuti speciali a quelli urbani e, tenuto conto che la delibera comunale ha previsto di procedere “all’assimilazione ai rifiuti solidi urbani, di tutte le tipologie di rifiuti speciali non pericolosi…” comprendendo in essi anche i rifiuti da lavorazioni industriali (doc. n. 6 fasc. controricorso), sussisteva il presupposto per l’applicazione del tributo.
Tenuto conto poi della delibera comunale che ha proceduto all’assimilazione dei rifiuti e a determinare i criteri qualitativi e quantitativi dei rifiuti assimilabili (n. 27 del 13 aprile 2004), la fattispecie deve essere disciplinata dall’art. 49, comma 14, del d.lgs. n. 22 del 1997, nonché dall’art. 7, comma 2, del d.p.r. n. 158 del 1999, per le ragioni sopra esposte.
Ne consegue che in tal caso era onere della parte contribuente provare la sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle deroghe o delle riduzioni delle tariffe, sulla base dell’indirizzo di legittimità sopra richiamato.
A questo proposito la sentenza impugnata ha ritenuto che la parte contribuente non abbia fornito la prova della “produzione esclusiva o prevalente di rifiuti speciali, avendo dimostrato lo smaltimento tramite ditte specializzate di batterie, metalli, imballaggi, carta e cartone, ma non avendo escluso lo smaltimento di scarti della produzione e dello stoccaggio, da ritenere assimilati ai rifiuti solidi urbani sulla base delle specifiche deliberazioni comunali, tramite il servizio pubblico e di raccolta svolto da ASCIT”. La parte contribuente, lamentando che i giudici del merito non abbiano correttamente letto i formulari MUD prodotti, ha sostanzialmente chiesto una rivisitazione del materiale istruttorio del tutto preclusa al giudice di legittimità. Per altro verso si precisa che nella fattispecie correttamente i giudici del merito non hanno provveduto alla disapplicazione delle delibere, in quanto l’assimilazione dei rifiuti speciali a quelli urbani è stata effettuata correttamente con adeguata enucleazione dei criteri quantitativi e qualitativi.
La tassa oggetto del giudizio è, infatti, finalizzata a consentire all’amministrazione locale di soddisfare l’esigenza generale della collettività e non, invece, quella di fornire secondo una logica commutativa prestazioni riferibili a singoli utenti. Ne consegue che essa “è dovuta indipendentemente dal fatto che l’utente utilizzi il servizio, salva l’autorizzazione dell’ente impositore allo smaltimento lo dei rifiuti secondo altre modalità, purché il servizio sia istituito e sussista la possibilità della utilizzazione” (in questo senso Cass. n. 18022 del 2013, n. 1963 del 2018, n. 11451 del 2018). La contribuente ha dimostrato il quantitativo di rifiuti prodotto e di avere provveduto in proprio allo smaltimento.
Occorreva, quindi, che fornisse la prova della richiesta di riduzione tariffaria e dell’autorizzazione in tal senso da parte dell’amministrazione comunale.
In ordine ai dati forniti, relativi all’esistenza ed alla delimitazione delle aree che ad avviso della contribuente non potevano concorrere alla quantificazione della complessiva superficie imponibile, si ribadisce come l’esenzione nel caso di specie non poteva trovare applicazione, in virtù della delibera comunale di assimilazione sopra richiamata e non avendo la contribuente fornito la prova dell’esenzione nei termini sopra esposti. Si osserva, inoltre che non risulta allegato, né provato, che la stessa abbia richiesto ed ottenuto l’autorizzazione allo smaltimento in proprio dei rifiuti.
Non ci sono, viceversa, contestazioni sull’istituzione del servizio di smaltimento dei rifiuti da parte del comune, né specifiche censure circa l’impossibilità della sua utilizzazione.
L’esonero dalla privativa comunale, previsto dall’art. 21, comma 7, del d. lgs n. 22 del 1997, inoltre, in caso di un comprovato avviamento al recupero, non determina la riduzione della superficie tassabile, ma il diritto alla riduzione tariffaria determinata in concreto, a consuntivo, in base ai criteri di proporzionalità rispetto alla quantità effettivamente avviata al recupero.
A tale proposito è stato condivisibilmente affermato che “grava sul contribuente l’onere di provare la sussistenza delle condizioni per beneficiare della riduzione, desumibile dal regime delineato dall’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997, in caso di produzione di rifiuti assimilati e smaltiti in proprio” (Cass. n. 10787 del 2016).
Ai sensi dell’art. 49, comma 14, del d.lgs. n. 22 del 1997, infatti, “Sulla tariffa è applicato un coefficiente di riduzione proporzionale alle quantità di rifiuti assimilati che il produttore dimostri di aver avviato al recupero mediante attestazione rilasciata dal soggetto che effettua l’attività di recupero dei rifiuti stessi”.
Nel caso in esame, dunque, la sentenza impugnata ha fatto buon governo dei principi sopra esposti, laddove ha ritenuto che la contribuente non abbia fornito la prova circa la produzione di rifiuti speciali. Sotto altro profilo non ha fornito alcun dato, neanche richiamando gli atti del giudizio di merito, da cui evincere la possibilità di applicare una riduzione della tariffa o di calcolare la percentuale di rifiuti su cui avrebbe dovuto essere applicata la tariffa in misura ridotta.
5. Ne consegue il rigetto del ricorso. Tenuto conto della peculiarità della fattispecie le spese dei precedenti gradi di giudizio vengono compensate, mentre nel presente giudizio la condanna alle spese segue il principio della soccombenza e queste vengono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna la parte contribuente a pagare in favore dell’ente impositore le spese di lite del presente giudizio, che liquida nell’importo di € 4.000,00 per compensi, oltre rimborso e spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 — bis dello stesso articolo 13.
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