CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 05 dicembre 2018, n. 31487
Accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro – Nomen iuris del contratto – Elemento distintivo del rapporto di agenzia rispetto al rapporto di lavoro subordinato – Autonomia nella scelta dei tempi e dei modi della stessa, nel rispetto delle istruzioni ricevute dal preponente
Fatti di causa
1. La Corte di appello di Milano, respingendo il reclamo principale di I.B. s.p.a. e quello incidentale di A.S., ha confermato la sentenza del Tribunale della stessa città che aveva accertato e dichiarato la natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso tra le parti e, dichiarato risolto il rapporto a far data dal 11.2.2015, ha condannato la società al pagamento di una indennità risarcitoria che ha quantificato in 18 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dal dovuto al saldo.
2. La Corte territoriale ha ritenuto che al di là del nomen iuris utilizzato al momento della conclusione del contratto, il rapporto intercorso tra le parti si era svolto con modalità tali da dover essere inquadrato come rapporto di lavoro subordinato e, con riguardo al licenziamento intimato l’11 febbraio 2015, così qualificato il recesso per non avere raggiunto gli obiettivi assegnati, ha ritenuto che la condotta accertata – mancato raggiungimento degli obiettivi assegnati per il solo anno 2014 – pur rivelando un comportamento negligente, non era così grave da integrare il notevole inadempimento ed ha applicato la tutela prevista dall’art. 18 comma 5 della legge 20 maggio 1970 n. 300 come modificato dall’art. 1 comma 42 lett. b) della legge 28 giugno 2012 n. 92.
3. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la I.B. s.p.a. con dieci motivi. Ha resistito con controricorso A.S. che ha, a sua volta, impugnato la sentenza con autonomo ricorso affidato a due motivi. La I.B. s.p.a. hanno depositato memorie illustrative ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ..
Ragioni della decisione
4. Va esaminato con precedenza il ricorso proposto da I.B. s.p.a. ed i primi sei motivi, da esaminare congiuntamente poiché investono sotto vari profili il capo della decisione che ha accertato la natura subordinata del rapporto intercorso tra la I.B. s.p.a. ed il signor S., sono infondati per le ragioni di seguito esposte.
4.1. La Corte territoriale nell’accertare l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato non è incorsa nella denunciata violazione e falsa applicazione dell’art. 1742 cod. civ. in relazione all’art. 2094 cod. civ. nei vari profili denunciati (primo, quarto e sesto motivo di ricorso) né, tanto meno, la motivazione ha trascurato di prendere in esame fatti decisivi e di esplicare il percorso logico seguito (secondo, terzo e quinto motivo di ricorso).
4.2. Va qui ribadito che l’elemento distintivo tra il rapporto di agenzia e il rapporto di lavoro subordinato va individuato nella circostanza che il primo ha per oggetto lo svolgimento a favore del preponente di un’attività economica esercitata in forma imprenditoriale, con organizzazione di mezzi e assunzione del rischio da parte dell’agente, che si manifesta nell’autonomia nella scelta dei tempi e dei modi della stessa, pur nel rispetto – secondo il disposto dall’art. 1746 cod. civ. – delle istruzioni ricevute dal preponente, mentre oggetto del secondo è la prestazione, in regime di subordinazione, di energie lavorative, il cui risultato rientra esclusivamente nella sfera giuridica dell’imprenditore, che sopporta il rischio dell’attività svolta (cfr. Cass. 07/02/2013 n. 2937, 23/04/2009 n. 9696 e 01/09/2003 n. 12756).
4.3. La Corte territoriale si è attenuta a tali principi e, con valutazione di merito a lei riservata che non incorre nei vizi di motivazione denunciati, ha accertato che il rapporto si era svolto con uno stabile inserimento nell’organizzazione aziendale all’interno dei locali della società, utilizzando strumentazioni ed applicativi dalla stessa forniti e con le stesse modalità utilizzate da altri lavoratori, che diversamente dal ricorrente legato alla società da un rapporto di agenzia erano subordinati, nel rispetto di turni organizzati dalla banca per tutti i collaboratori e svolgendo compiti che esulavano da quelli complementari ed accessori alla sua attività di promozione. Inoltre ha verificato che le direttive provenienti dalla società incidevano direttamente sul contenuto della prestazione, che era assoggettato a controlli e non sopportava alcun rischio di impresa. Ha poi accertato che tutti i mesi gli veniva erogata una somma sostanzialmente uguale e che non era emerso che fossero stati disposti conguagli, né in positivo né in negativo, che avesse sopportato spese per la sua formazione, per le trasferte, per il leasing dell’autovettura e per la stessa l’iscrizione agli albi professionali, spese che erano risultate tutte a carico della società.
4.4. Ha escluso pertanto che nella sostanza fossero ravvisabili i tratti distintivi del rapporto di agenzia, pur richiamato dal contratto sottoscritto dalle parti, che come si è detto si concreta nella realizzazione da parte dell’agente di un’attività economica organizzata, rivolta ad un risultato di lavoro svolto autonomamente nell’interesse, per conto ed eventualmente anche in nome del preponente cui compete il limitato potere di impartire all’agente istruzioni generali di massima, oltre al diritto di pretendere ogni informazione utile per la valutazione della convenienza dei singoli affari, ricadendo il rischio economico e giuridico dell’attività suddetta esclusivamente sull’agente medesimo. Proprio prendendo in esame il contenuto dei contratti intercorsi tra le parti ne ha verificato l’effettività sulla base delle dichiarazioni rese dai testi escussi, tenendo conto della peculiarità dell’attività svolta (banca ori line). In concreto ha accertato che il rapporto si era svolto in regime di subordinazione avendo verificato che la prestazione era stata resa con soggezione al potere direttivo del datore di lavoro e nell’ambito di un’organizzazione il cui rischio è riferibile esclusivamente a quest’ultimo.
5. Neppure la sentenza è incorsa nel denunciato omesso esame di un fatto decisivo in relazione all’art. 360 primo comma n. 5 cod. proc. civ..
5.1. La Corte ha tenuto conto espressamente dell’esistenza di pregressi contratti ed ha analiticamente esaminato le caratteristiche del contratto stipulato tra le parti nel 2011 ed ha accertato, in concreto, con motivazione ampia dettagliata ed ancorata alle emergenze probatorie acquisite, che le modalità con le quali si era svolto il rapporto convergevano nel far ritenere sussistente la subordinazione. Neppure ha trascurato di considerare quelle attività complementari alle operazioni di investimento connaturate al rapporto di promozione finanziaria ma ha sottolineato che erano prevalenti compiti estranei a tale rapporto e rivolti in maniera indifferenziata a tutti i clienti della Banca.
5.2. Ne consegue che le censure formulate nel secondo, terzo e quinto motivo di ricorso sono in parte inammissibili ed in parte infondate. Con la riformulazione da parte dell’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134 dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., è stato introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). L’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. Ridotto al “minimo costituzionale” il sindacato di legittimità sulla motivazione è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. per tutte Cass. Sez. U. 07/04/2014 n. 8053).
6. Il settimo motivo di ricorso – con il quale la Banca denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 18 della legge n. 300 del 20 maggio 1970 e ss. mm. in relazione agli artt. 2119 e 1456 cod. civ. sul rilievo della ritenuta natura parasubordinata del rapporto – resta assorbito per effetto della conferma della sentenza nella parte in cui ha accertato che tra le parti esisteva un rapporto di lavoro in regime di subordinazione. Alla risoluzione di tale rapporto da qualificarsi come licenziamento consegue, necessariamente, l’applicazione della tutela propria dettata dall’art. 18 citato.
7. Quanto alle censure che investono sotto vari profili la ritenuta illegittimità del licenziamento (ottavo, nono e decimo motivo di ricorso) si osserva quanto segue:
7.1. Il giudice di appello, nell’accertare l’insussistenza di una giusta causa di licenziamento, non è incorso nella denunciata violazione dell’art. 416 cod. proc. civ. e dell’art. 2119 cod. civ. (ottavo motivo) né tanto meno nella violazione dell’art. 360 primo comma n. 5 cod. proc. civ. (nono motivo). La Corte di merito, infatti, ha dato atto che i fatti che avevano condotto alla risoluzione del rapporto erano risultati positivamente accertati ed ha valutato in concreto l’importanza dell’inadempimento accertato e la sua idoneità e nel contesto degli obblighi di diligenza nell’esecuzione della prestazione lavorativa X, ha escluso che il mancato raggiungimento degli obiettivi assegnati in un solo anno potesse costituire quel notevole inadempimento, espressione di una grave violazione dei doveri di diligenza e correttezza nello svolgimento della prestazione che, giustifica il recesso datoriale.
7.2. Nella sua ricostruzione dei fatti la Corte non ha affatto violato il principio di non contestazione ma piuttosto ha esaminato i fatti tenendo conto di tutte le allegazioni delle parti e delle contestazioni formulate e ne ha valutato in concreto la rilevanza ai fini dell’accertamento del notevole inadempimento posto a fondamento del recesso per escludere che la condotta accertata, complessivamente valutata, integrasse una violazione così grave dei doveri di diligenza da giustificare il recesso della datrice di lavoro. Nel pervenire a tale conclusione la Corte, con accertamento e valutazione in fatto a lei riservata, ha valorizzato la circostanza che il mancato raggiungimento degli obiettivi (con un risultato inferiore alla media degli altri promotori nel medesimo periodo) era tuttavia limitato ad un solo anno, atteso che negli anni precedenti l’obiettivo assegnato era stato sempre conseguito, ed ha evidenziato che ad altri promotori – i quali, del pari, non avevano raggiunto i loro obbiettivi – non era stato contestato alcunché. Va qui ribadito che il giudizio di proporzionalità tra licenziamento e addebito, che si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento del lavoratore e dell’adeguatezza della sanzione, attiene al merito della controversia e, ove le questioni siano risolte dal giudice di appello con apprezzamento in fatto adeguatamente giustificato con motivazione esauriente e completa, si sottrae al riesame in sede di legittimità (cfr. Cass. 25/05/2012 n. 8293, 07/04/2011 n. 7948 e 22/03/2010 n. 6848).
7.3. Del pari è infondata la censura formulata nel decimo motivo di ricorso con la quale ci si duole della violazione dell’art. 2119 cod. civ. e dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 in relazione alla sussistenza di una giusta causa e/o di un giustificato motivo di recesso. Sostiene la ricorrente che la Corte di merito, a cagione della non corretta ricostruzione dei fatti, sarebbe incorsa nella denunciata violazione avendo omesso di valutare la condotta dello S. in termini di “scarso rendimento”.
7.4. Va rammentato che il rapporto è stato risolto dalla Banca attivando la clausola risolutiva espressa prevista dal contratto di agenzia per il caso di mancato raggiungimento degli obiettivi annuali contrattualmente assegnati. Tuttavia la Corte territoriale, una volta accertato che tra le parti era intercorso un rapporto di lavoro subordinato, ha, conseguentemente, verificato la rilevanza dell’inadempimento contestato ed accertato ed ha escluso che lo stesso potesse essere ritenuto “notevole” sì da giustificare la risoluzione del rapporto di lavoro. Come ritenuto da questa Corte “il licenziamento per cosiddetto scarso rendimento costituisce un’ipotesi di recesso del datore di lavoro per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore, che, a sua volta, si pone come specie della risoluzione per inadempimento di cui agli artt. 1453 e segg. cod. civ. sicché, fermo restando che il mancato raggiungimento di un risultato prefissato non costituisce di per sé inadempimento, ove siano individuabili dei parametri per accertare se la prestazione sia eseguita con diligenza e professionalità medie, proprie delle mansioni affidate al lavoratore, lo scostamento da/ essi può costituire segno o indice di non esatta esecuzione della prestazione, sulla scorta di una valutazione complessiva dell’attività resa per un’apprezzabile periodo di tempo” (cfr. Cass. 09/07/2015 n. 14310 e 23/02/1996 n. 1421). In sostanza deve risultare provata, sulla scorta della valutazione complessiva dell’attività resa dal lavoratore stesso ed in base agli elementi dimostrati dal datore di lavoro, una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente – ed a lui imputabile – in conseguenza dell’enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, tenuto conto della media di attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione (cfr. Cass. n. 04/09/2014 n. 18678). Tale valutazione è stata operata dalla Corte di merito che sulla base dei parametri sopra indicati ha verificato che i risultati erano sì inferiori alla media ma solo per l’ultimo anno e che anche altri promotori non avevano conseguito gli obiettivi assegnati. Anche tale ultima censura deve perciò essere rigettata e conclusivamente il ricorso proposto dalla I.B. s.p.a. deve essere rigettato.
8. Con il suo ricorso A.S. ha censurato la sentenza con due motivi.
8.1. Con il primo motivo ha denunciato la violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della legge n. 604 del 15 luglio 1966 e dell’art. 18 commi 4 e 5 della legge n. 300 del 20 maggio 1970 come modificato dall’art. 1 comma 42 lett. b) della legge 28 giugno 2012 n. 92. Sostiene il ricorrente che una volta qualificato, correttamente, da parte della Corte di appello il rapporto di lavoro intercorso tra le parti in termini di subordinazione il licenziamento, intimato in relazione ad un preteso notevole inadempimento, deve essere qualificato come licenziamento per giustificato motivo soggettivo. Tanto premesso ritiene che non solo non può essere considerato notevole l’inadempimento consistente nel mancato raggiungimento degli obiettivi prefissati ma che sarebbe illogico considerarlo in assoluto un inadempimento delle obbligazioni gravanti sul prestatore di lavoro subordinato. Conseguentemente ritiene che essendo insussistente o, quantomeno irrilevante giuridicamente, il fatto per il quale la I.B. ha risolto il rapporto la Corte avrebbe dovuto applicare la tutela reintegratola attenuata prevista dall’art. 18 comma 4 dello Statuto nel testo ratione temporis vigente. Inoltre deduce che la società non avrebbe, comunque, offerto la prova della sussistenza del il fatto addebitato al lavoratore neppure valutandolo in termini di scarso rendimento con riferimento al mancato raggiungimento degli obiettivi assegnati.
8.2. Con il secondo motivo di ricorso, poi, denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. e dell’art. 5 della legge n. 604 del 1966 per aver posto sul lavoratore l’onere di dimostrare che il mancato raggiungimento degli obiettivi non fosse dipeso da una causa a lui non imputabile, laddove invece era onere della società dimostrare la colpevole violazione da parte del lavoratore degli obblighi di collaborazione e lealtà ovvero I’ inadempimento delle obbligazioni gravanti sul lavoratore.
9. Le censure, che investono la prova dell’esistenza dell’inadempimento posto a fondamento del recesso, la distribuzione degli oneri probatori e la tutela applicabile, devono essere esaminate congiuntamente. Alla Corte è chiesto infatti di verificare sotto vari profili se nell’accertare l’insussistenza del notevole inadempimento posto a fondamento del recesso il giudice di appello abbia fatto un buon governo degli oneri probatori ed abbia tratto esatte conseguenze in termini di tutela applicabile.
9.1. Va osservato in primo luogo che la Corte territoriale ha ritenuto che il mancato raggiungimento degli obbiettivi assegnati al lavoratore fosse sintomatico di una negligenza nello svolgimento della prestazione che, per essere rimasto privo di giustificazione con riguardo all’esistenza di un comportamento datoriale inadempiente ovvero da collegare a scelte commerciali errate, e calato nella complessiva realtà aziendale, risultava piuttosto collegabile ad una condotta negligente del lavoratore.
9.2. Escluso che la condotta che ha dato luogo al recesso fosse riconducibile all’ipotesi del c.d. scarso rendimento – che, come si è ricordato al paragrafo 7.4., integra il notevole inadempimento che giustifica il recesso per giustificato motivo soggettivo – il giudice di secondo grado, così come già il Tribunale, nel valutare l’inadempimento dal quale era scaturito il recesso, ha tenuto conto del grado di diligenza normalmente richiesto per la prestazione lavorativa e di quello effettivamente usato dal lavoratore, dell’incidenza della organizzazione complessiva del lavoro nell’impresa e dei fattori socio-ambientali così come erano emersi nel corso dell’istruttoria.
9.3. In particolare la Corte di merito ha accertato che la datrice di lavoro aveva dimostrato che il lavoratore, che nell’ultimo hanno di lavoro non aveva conseguito gli obiettivi che gli erano stati assegnati, non aveva offerto la prova, che su di lui gravava, che tale suo inadempimento fosse imputabile a fattori esterni quando non addirittura ad una condotta inadempiente della banca e a sue scelte commerciali errate. Pertanto la Corte ha accertato una condotta inadempiente del lavoratore connotata anche da una importanza che autorizzava a ricollegarlo ad una violazione dei doveri di diligenza cui si deve attenere il lavoratore nello svolgimento della prestazione. Nel valutare l’importanza dell’inadempimento, poi, la Corte ha contestualizzato l’inadempimento ed ha escluso che questo rivestisse quel grado di importanza che avrebbe potuto giustificare il recesso.
9.4. Così facendo la Corte territoriale si è attenuta ai principi più volte affermati da questa Corte e che devono essere qui ribaditi alla luce dei quali in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione all’illecito commesso è rimesso al giudice di merito e si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto; l’inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 cod. civ., sicché l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (cfr Cass. 22/03/2010 n. 6848 v. anche Cass. 24/07/2017 n. 18184 ed ivi le richiamate Cass. 25/05/2016 n. 10842, 16/10/2015 n. 21017 e 25/06/2015 n. 13162).
9.5. Accertata da un cantò l’illegittimità del recesso nonostante la sussistenza di un fatto giuridicamente rilevante sotto il profilo disciplinare, correttamente il giudice di appello ha ritenuto applicabile al caso in esame la tutela indennitaria c.d. forte disciplinata dall’art. 18 comma 5 della legge 300 del 1970 e ss. mm..
9.6. L’ “insussistenza del fatto contestato”, di cui all’art. 18, comma 4, st.lav., come modificato dall’art. 1, comma 42, lett. b), della I. n. 92 del 2012, fattispecie cui si applica la tutela reintegratoria cd. attenuata, comprende l’ipotesi del fatto materiale che si riveli insussistente e quella in cui il fatto, pur esistente, non presenti profili di illiceità (cfr. Cass. 05/12/2017 n. 29062) mentre si applica il comma 5 della citata disposizione nelle “altre ipotesi” in cui si accerti che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro. La graduazione delle tutele introdotta dalla legge n. 92 del 2012 richiede al giudice una duplice valutazione.
Con una prima verifica occorre accertare l’assenza di una giusta causa o di un giustificato motivo soggettivo di licenziamento apprezzandone gli elementi oggettivi e soggettivi che caratterizzano il caso concreto, per valutarne la idoneità a ledere il vincolo fiduciario.
Una volta accertata l’insussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo soggettivo, poi, per individuarne le conseguenze occorrerà verificare se il fatto contestato ed accertato sia apprezzabile sotto il profilo disciplinare. Ove il fatto risulti giuridicamente insussistente troverà applicazione il quarto comma dell’art. 18 e la tutela reale attenuata da tale disposizione prevista (reintegrazione e indennità risarcitoria nella misura non superiore a dodici mensilità di retribuzione). Ove invece si accerti che il fatto ha un rilievo disciplinare che non giustifica l’irrogazione del licenziamento si verte in quelle “altre ipotesi” a cui il legislatore al comma 5 dell’art. 18 ha inteso collegare solo la tutela indennitaria, c.d. forte (cfr. Cass. 25/05/2017 n. 13178). In continuità con i precedenti sopra citati (e vedi anche Cass. 22/06/2017 n. 15590) deve ritenersi che quanto alla tutela applicabile va espunto il criterio della proporzionalità dall’area della insussistenza del fatto, salvo il caso in cui la non proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato sia stata oggetto di una previsione dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, che stabiliscano per la condotta accertata una sanzione conservativa.
9.7. Poiché la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione di tali principi la sentenza deve essere anche per tale aspetto confermata.
10. In conclusione e per le esposte considerazioni anche il ricorso dello S. deve essere rigettato.
11. Le spese del giudizio di legittimità vanno compensate tra le parti in ragione dell’accertata reciproca soccombenza mentre va dato atto che ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 sussistono i presupposti per il versamento da parte della ricorrente principale e del ricorrente incidentale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il rispettivo ricorso a norma dell’art. 13 comma 1 bis del citato d.P.R..
P.Q.M.
Rigetta entrambi i ricorsi riuniti. Compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente principale e del ricorrente incidentale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale e incidentale a norma dell’art. 13 comma 1 bis del citato d.P.R..
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