CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 05 dicembre 2019, n. 31806
Tributi – Imposta di successione – Beni mobili e immobili appartenenti al Trust – Trasferimento mortis causa della proprietà del bene, alla cessazione del Trust, dalla de cuius agli eredi
Fatto
Con sentenza nr 182/2013 la CTR della Lombardia, sez distaccata di Brescia, dichiarava illegittimo l’avviso di liquidazione ed irrogazione di sanzioni impugnato da G.M. e M.V.F.M., ed emesso dall’Agenzia delle Entrate in relazione alla dichiarazione di successione presentata dai contribuenti a seguito del decesso di L.B..
Il Giudice di appello rilevava la ritualità della notifica anche nei confronti di D.F., il cui ricorso era stato accolto in primo grado.
In relazione ai profili in contestazione, osservava che il bene immobile acquisito da un Trust, caduto in successione, era stato sottoposto ad una tassazione pari al 7%, sicchè la tassazione operata dall’Agenzia delle Entrate in misura pari al 6% non era dovuta ai sensi dell’art. 2, comma 47 del D.I. 262/2006, convertito con modificazioni dalla legge 286/2006, in quanto in caso di successione o donazione non si realizza il presupposto impositivo in capo ai beneficiari.
Con riguardo alla tassazione delle somme di denaro e all’indebita applicazione della presunzione del 10%, rilevava che le disponibilità liquide indicate nella s dichiarazione in € 650.092,00 erano state inserite nel menzionato Trust nella cifra di € 647.271,00 e quindi, per analoghe ragioni a quelle sopra indicate (divieto di doppia imposizione), non erano soggette ad imposta di successione.
Avverso tale sentenza l’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione affidato a 5 motivi, cui resistono con controricorso G.M. e M.V.F.M..
Con il primo motivo la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c., sostenendo che la CTR sarebbe incorsa in un vizio di ultrapetizione dichiarando l’illegittimità in toto dell’atto opposto, malgrado i contribuenti avessero chiesto unicamente la riduzione dell’imposta nella misura di € 69.669,00.
Con il secondo motivo denuncia la nullità della sentenza per violazione degli art. 111 Cost. e 331 c.p.c. in relazione all’art. 360 co. 1^ nr 4 c.p.c..
Osserva infatti la ricorrente che il giudice di appello, nel rilevare la ritualità e la correttezza del procedimento notificatorio, avrebbe pronunciato la sentenza anche nei confronti di D.F. la quale non aveva però partecipato al giudizio di secondo grado.
Con il terzo motivo deduce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 36 d.lvo. nr 546/1992, dell’art. 132 c.p.c. in relazione all’art. 360 co. 1^ nr 4 c.p.c.. Denuncia, in particolare, l’inesistenza della motivazione e dell’iter argomentativo che ha condotto la CTR ad accogliere le tesi dei contribuenti senza in alcun modo prendere posizione sulla distinzione effettuata dalla CTP, la quale aveva differenziato l’acquisto effettuato nel 2004 da parte del Trust ed il successivo trasferimento mortis causa alla morte del disponente, nell’anno 2010, e alla cessazione del Trust.
L’Ufficio evidenzia che, anche per quel che attiene alle somme di denaro, la motivazione della sentenza fosse da ritenersi apparente, non dando in alcun modo conto delle ragioni per le quali la tassazione fosse da ritenere illegittima a fronte dell’ampia illustrazione delle proprie posizioni da parte dell’Amministrazione.
Con il quarto motivo deduce la violazione dell’art. 2 comma 47 del d.lvo. 262/2006 in relazione all’art. 360 co. 1^ nr 3 c.p.c.
Osserva infatti che l’acquisto e il conferimento dei beni immobiliari e mobiliari risalgono alla costituzione del trust nell’anno 2004, quando non era vigente alcuna disposizione impositiva sul medesimo, sicché tali atti non erano mai stati tassati.
In secondo luogo, era da escludere una doppia imposizione, giacché un conto è l’acquisto dell’appartamento effettuato dal Trust su disposizione della disponente, ed altra cosa è il successivo trasferimento mortis causa della proprietà del bene, alla cessazione del Trust, dalla de cuius agli eredi.
Sostiene che analogo ragionamento avrebbe dovuto essere fatto per le somme di denaro per le quali non si sarebbe verificata, diversamente da quanto affermato dalla CTR, alcuna doppia imposizione in capo ai beneficiari.
Con l’ultimo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 9, comma secondo, d.lvo. 346/1990 in relazione all’art. 360 co. 1^ nr 3 c.p..
Critica infatti la decisione laddove ha inteso escludere dalla massa ereditaria imponibile anche quel valore presuntivo del 10% di denaro, mobilio e gioielli conteggiato dall’Ufficio in applicazione del richiamato art 9, vanificando in tal modo la disposizione impositiva.
Il primo motivo è fondato.
L’annullamento totale dell’atto impugnato da parte della CTR , come del resto riconoscono anche gli stessi controricorrenti, è andato al di là delle domande che erano state formalizzate dai medesimi, i quali si erano limitati a chiedere una riduzione dell’imposta nella misura di € 69.669,00.
Con riguardo al secondo motivo, se ne deve rilevare l’infondatezza.
L’Agenzia delle Entrate, come emerge dall’esame degli atti, ha proposto appello incidentale in data 5.7.2013 avverso la sentenza della CTP depositata il 9.11.2012 e, quindi in epoca successiva alla proposizione dell’appello principale da parte di M.V. e G., il cui atto di gravame risulta depositato in data 8.5.2013.
L’appello incidentale è stato pertanto introdotto tardivamente dopo la scadenza del termine lungo di sei mesi dalla pubblicazione della sentenza di primo grado applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame.
Ciò posto, occorre svolgere alcune brevi considerazioni relativamente ai limiti operativi che indirizzano l’esercizio dell’impugnazione incidentale tardiva.
In questo senso va ricordato che l’appello incidentale tardivo è senza dubbio proponibile anche nel processo tributario, sia perchè il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 49, richiama per le impugnazioni le norme processuali civili con la sola esclusione dell’art. 337 c.p.c., sia perchè l’art. 54 del citato D.Lgs., norma che disciplina espressamente l’appello incidentale tributario, non contiene alcuna limitazione di sorta in ordine ai contenuti di questo strumento di difesa (Cass. n. 11080/2008, n. 11349/2001).
L’appello incidentale proposto tempestivamente gode di autonomia rispetto all’appello principale, non essendo condizionato dall’ammissibilità di quest’ultimo (Cass. n. 8154/2003 nell’ambito del processo civile); l’appello incidentale tardivo, al contrario, è strettamente dipendente dall’appello principale, ripercuotendosi la inammissibilità di quest’ultimo sulla ammissibilità del primo (Cass. n. 14609/2014, n. 15483/2008), atteso che, ai sensi dell’art. 334 c.p.c., comma 2, “se l’impugnazione principale è dichiarata inammissibile, l’impugnazione incidentale perde ogni efficacia”.
Da quanto sopra consegue che la parte, ove intenda ottenere, incondizionatamente, una decisione sulla propria impugnazione, deve proporre impugnazione tempestiva e, se non ha esercitato tale potere, ha inteso, implicitamente, accettare il rischio del passaggio in giudicato della sentenza già emessa, ed allora vale il principio del favor iudicati, e non può dolersi della mancata decisione della impugnazione tardivamente proposta.
La ratio che si ricava dal sistema delle impugnazioni è quella di consentire alla parte che avrebbe di per sè accettato la sentenza di primo grado, di contrastare, con l’impugnazione tardiva, l’iniziativa della controparte, volta a rimettere in discussione il rapporto controverso, e, quindi, l’assetto di interessi derivante dalla pronuncia impugnata (Cass. n. 1879/2018), senza subire pregiudizio nell’apprestamento delle proprie difese dall’iniziativa di controparte, la quale abbia – magari – impugnato la sentenza nell’ultimo giorno di scadenza del termine all’uopo consentito.
Diversamente opinando, ciascuna parte sarebbe costretta ad effettuare una impugnazione “cautelativa” sul capo autonomo rispetto al quale è rimasta soccombente. Cosa che darebbe adito ad una proliferazione di processi di impugnazione, viceversa evitabile se ciascuna parte sa di poter impugnare anche se ha fatto (momentaneamente) acquiescenza, o siano decorsi i termini, qualora sia l’altra parte ad impugnare, rimettendo in discussione l’equilibrio della intera sentenza.
Pertanto, ferme le esigenze legate alla stabilità del giudicato ed alla formazione di esso all’interno del processo, è bene ribadire che l’istituto della impugnazione incidentale tardiva garantisce – in attesa della decisione da cui dipende la definitiva regolamentazione degli interessi dedotti dalle parti in causa – un ragionevole bilanciamento delle facoltà processuali delle parti, nella ottica della cosiddetta parità delle armi, ed evita l’inutile moltiplicazione dei giudizi, che produrrebbe un effetto inflattivo confliggente con l’obiettivo – costituzionalizzato – della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.).
In quest’ottica è stato ritenuto che l’impugnazione incidentale tardiva possa investire qualsiasi capo della sentenza, ancorché autonomo rispetto a quello investito dall’impugnazione principale (Cass. n. 6470/2012, n. 1120/2014).
Con riferimento ai limiti soggettivi, l’impugnazione incidentale tardiva è preclusa alle parti non necessarie, a cui l’impugnazione sia stata notificata nelle cause scindibili a norma dell’art. 332 c.p.c., nonché verso le stesse parti, atteso che nessun ostacolo giuridico o logico impedisce il passaggio in giudicato della sentenza rispetto ad una (o alcune) delle parti, nonostante l’impugnazione ad opera di un’altra (o di più altre) delle parti stesse; per cui ciascuna parte di ogni singolo rapporto controverso è tenuta ad impugnarla per evitare la formazione del giudicato in relazione al rapporto che la concerne (Cassazione civile, sez. trib., 12/07/2018, n. 18415).
Ciò posto, nella fattispecie in esame l’impugnazione principale proposta dai soli contribuenti G. e M.V. F., i quali nella fase del giudizio erano risultati totalmente soccombenti, ha investito la sentenza nella parte in cui ha riconosciuto la legittimità dell’avviso di liquidazione, il quale invece è stato annullato nei confronti dell’altra parte D.F. per vizio di notifica.
In questo quadro non era consentito all’Ufficio di proporre l’impugnazione incidentale tardiva – c.d. controimpugnazione – nei confronti di un soggetto diverso per il quale la medesima pronuncia era ormai divenuta irrevocabile. Quanto poi alla mancata prospettazione nel giudizio di secondo grado della questione relativa alla tempestività o meno dell’appello incidentale, questa Corte ha più volte affermato che tale questione può essere eccepita (o rilevata d’ufficio) per la prima volta anche in sede di legittimità (cfr., in senso specifico, Cass. n. 13427/2001, Cass. n. 15705/2006 e Cass. n. 1188/2007) senza che si possa ritenere determinata una preclusione processuale nella deduzione dell’assenta tardività dell’appello incidentale con il ricorso per cassazione (2019 nr 16979).
Relativamente al terzo motivo ed alla prospettata nullità della sentenza per motivazione apparente, va ricordato che il vizio di motivazione meramente apparente della sentenza ricorre allorquando il giudice, in violazione di un preciso obbligo di legge, costituzionalmente imposto (art. 111 Cost., comma 6), e cioè dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 (in materia di processo civile ordinario) e del D.Lgs. n. 546 del 1992, omologo art. 36, comma 2, n. 4 (in materia di processo tributario), omette di esporre concisamente i motivi in fatto e diritto della decisione, di specificare o illustrare le ragioni e l’iter logico seguito per pervenire alla decisione assunta, e cioè di chiarire su quali prove ha fondato il proprio convincimento e sulla base di quali argomentazioni è pervenuto alla propria determinazione, in tal modo consentendo anche di verificare se abbia effettivamente giudicato iuxta alligata et probata (Cass. n. 2876 del 2017; v. anche Cass., Sez. U., n. 16599 e n. 22232 del 2016 e n. 7667 del 2017 nonché la giurisprudenza ivi richiamata).
Alla stregua di tali principi consegue che la sanzione di nullità colpisce non solo le sentenze che siano del tutto prive di motivazione dal punto di vista grafico (che sembra potersi ritenere mera ipotesi di scuola) o quelle che presentano un “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e che presentano una “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (cfr. Cass. S.U. n. 8053 del 2014; conf. Cass. n. 21257 del 2014), ma anche quelle che contengono una motivazione meramente apparente, del tutto equiparabile alla prima più grave forma di vizio, perchè dietro la parvenza di una giustificazione della decisione assunta, la motivazione addotta dal giudice è tale da non consentire “di comprendere le ragioni e, quindi, le basi della sua genesi e l’iter logico seguito per pervenire da essi al risultato enunciato” (cfr. Cass. n. 4448 del 2014), venendo quindi meno alla finalità sua propria, che è quella di esternare un “ragionamento che, partendo da determinate premesse pervenga con un certo procedimento enunciativo”, logico e consequenziale, “a spiegare il risultato cui si perviene sulla res decidendi (Cass., Sez. U, Sentenza n. 22232 del 2016, Rv. 641526-01; conf. Cass., Sez. 6-5, Ordinanza n. 14927 del 2017).
Va altresì ricordato che “La riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (Cass., Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830; Cass 13977/2019).
La motivazione della sentenza impugnata non rientra paradigmaticamente nelle gravi anomalie argomentative individuate in detti arresti giurisprudenziali. La CTR, quantunque in modo succinto, fornisce una spiegazione delle ragioni per le quali non si è realizzato il presupposto impositivo in capo ai beneficiari, chiarendo che il ‘Trust Manon’ ha acquistato da terzi l’immobile in questione in data 7.7.2004 con il versamento dell’imposta del 7%, sicché nulla era più dovuto a titolo di imposta di successione a prescindere dalla tipologia del Trust stesso, in quanto in caso di successione non si realizza il presupposto impositivo in capo ai beneficiari ex art. 2,comma 47 del decreto legislativo 262/2006.
Analoghe considerazioni sono state svolte relativamente alle disponibilità liquide indicate nella dichiarazione di successione in misura pari ad € 650.092,00 di cui l’importo di € 647.271,00 era inserito nel Trust.
Venendo al motivo n. 4, va osservato che l’atto di acquisto e di conferimento del bene immobile e del denaro nel trust sono avvenuti nel 2004, sicché a quell’epoca non era in vigore alcuna imposizione sul trust e sulla costituzione dei vincoli di destinazione di beni che è stata introdotta con l’art. 2,comma 47 del D.L. 262 del 2006.
Non vi era pertanto stata alcuna tassazione, e dunque non si può parlare di alcuna doppia imposizione all’atto della successione e del passaggio dei beni mortis causa alla proprietà degli eredi.
Il bene conferito poi nel trust è stato acquistato inter vivos dal trust su richiesta del disponente e sottoposto alla normale tassazione di trasferimento. Correttamente il predetto bene al termine del trust è stato poi sottoposto all’imposta del successione in ragione del trasferimento mortis causa agli eredi. Analoghe considerazioni vanno fatte per le somme di denaro che, presenti nel patrimonio e destinate al funzionamento del trust, non erano state ab origine tassate, sicché correttamente alla cessazione del trust sono state assoggettate all’imposta di successione stante il trasferimento mortis causa in capo agli eredi.
Con riguardo al quinto motivo si osserva che l’esclusione dalla base imponibile del valore presuntivo calcolato dall’Ufficio è dovuto, secondo il ragionamento seguito dalla CTR,al fatto che la gran parte delle somme liquide, indicate nella dichiarazione di successione in misura pari ad € 650.092,00, era stata inserita nel trust in percentuale corrispondente ad € 647.271,00.
La norma di cui si tratta (D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, art. 9) – premesso che l’attivo ereditario è costituito da tutti i beni ed i diritti che formano oggetto della successione, esclusi quelli specificamente esentati dall’imposta (primo comma) – stabilisce, per quanto interessa, che denaro, gioielli e mobilia si presumono compresi nell’attivo “per un importo pari al dieci per cento del valore globale netto imponibile dell’asse ereditario anche se non dichiarati o dichiarati per un importo minore”.
Tale norma deve essere interpretata nel senso che il valore presunto di tale bene comprende anche quanto eventualmente dichiarato dal contribuente, con la conseguenza che è illegittima la pretesa del fisco di calcolare la percentuale presuntiva del 10% sull’attivo ereditario, dopo aver aggiunto il valore dichiarato dall’erede per denaro, gioielli e mobilia; in presenza pertanto di un valore dichiarato inferiore a quello presunto, l’imposta principale di successione deve essere sempre calcolata, per quanto riguarda i beni mobili, sul valore presunto, mentre l’imposta complementare deve essere liquidata sulla differenza fra il valore presunto e quello dichiarato (Cass 25.2.2008 nr 4751).
Si deve dunque ritenere illegittima la pretesa del fisco di calcolare la percentuale presuntiva del dieci per cento sull’attivo ereditario alla luce di importi dichiarati ‘superiori’ alla suddetta percentuale.
Diversamente opinando si verrebbe a determinare una doppia tassazione, in quanto il 10% verrebbe conteggiato su somme di denaro già dichiarate.
Il motivo va rigettato.
Le conclusioni sopra raggiunte in relazione all’esclusione della doppia tassazione impongono la cassazione della sentenza ed il rinvio alla CTR Lombardia in diversa composizione, che dovrà procedere – in relazione ai motivi accolti – al ricalcolo delle imposte dovute nei soli confronti di M.V. e G., stante l’accertato passaggio in giudicato della sentenza nei riguardi di D.F. M. (per ragioni solo a questa personali).
P.Q.M.
– accoglie il primo e quarto motivo di ricorso, respinti gli altri;
– cassa la decisione impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla CTR Lombardia in diversa composizione anche per le spese.
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