CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 05 dicembre 2019, n. 31852
Associazione professionale – Rapporto professionale intercorso fra le parti – Attività difensiva – Incarico professionale – Legge mediazione (legge n. 28/2010)
Fatti di causa
1. Con atto di citazione del febbraio 2011, l’avvocato C.Z., in proprio e quale legale rappresentante dell’associazione professionale “Studio legale Z.”, conveniva in giudizio i coniugi L.P. e F.C., chiedendo al Tribunale di accertare l’esistenza del rapporto professionale intercorso fra le parti e quindi di condannare i convenuti al pagamento di euro 84.406,87, per l’attività difensiva prestata in favore dei convenuti in relazione a due processi penali e a una vertenza civile relativa all’esercizio in forma associativa dell’attività di farmacia in un immobile di proprietà di una società terza (circa la quale chiedeva il compenso per la redazione di un parere stragiudiziale, di un atto di citazione introduttivo di un giudizio ordinario di cognizione, di uno introduttivo di giudizio arbitrale e di un contratto disciplinante un c.d. patto di quota lite), nonché di euro 50.000 a titolo di danno non patrimoniale. Costituendosi in giudizio, L.P. e F.C. contestavano le domande proposte, tra l’altro eccepivano l’invalidità del contratto di incarico professionale, per mancato adempimento dell’attore all’obbligo informativo di cui all’art. 4 del d.lgs. 28/2010, e chiedevano in via riconvenzionale la condanna di Z. alla restituzione delle somme da loro versate a titolo di acconti nonché al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale da loro subito. Rispetto a tali difese, l’attore chiedeva la chiamata in causa dell’avvocato D., che lo aveva sostituito nell’assistenza dei convenuti, e quindi, per l’ipotesi di accoglimento delle avversarie eccezioni, domandava in via ulteriormente riconvenzionale la condanna dei convenuti ex art. 2041 c.c., in ragione dell’utilità dell’attività prestata in loro favore.
Il Tribunale di Forlì, negata la richiesta di chiamata in causa dell’avvocato D., concedeva alla prima udienza i termini per le memorie di cui all’art. 183 c.p.c., nella seconda delle quali i convenuti rinunciavano all’azione risarcitoria proposta in via riconvenzionale contro Z.. Con sentenza n. 25/2013, il Tribunale annullava il contratto d’opera professionale concluso tra le parti, limitatamente alla fase successiva all’attività stragiudiziale della lite civile, a fronte del mancato assolvimento al dovere di informativa di cui all’art. 4, comma 3, d.lgs. n. 28/2010, rigettava le domande dell’attore ed accoglieva quella proposta in via riconvenzionale dai convenuti, condannando Z. alla restituzione della differenza tra acconti ricevuti e compenso a lui dovuto, pari a euro 552,96.
2. Avverso la sentenza proponeva appello C.Z.,
lamentando: l’erroneità della sentenza di primo grado nella parte in cui aveva annullato il contratto d’opera intercorso tra le parti per violazione dell’obbligo di informativa previsto dall’art. 4 d.lgs. n. 28/2010 in materia di mediazione, ritenuto dall’appellante non applicabile al caso di specie; il mancato riconoscimento del compenso professionale per la predisposizione dell’atto introduttivo del giudizio arbitrale e per la redazione del patto di quota lite; la riduzione dei compensi per le prestazioni stragiudiziali; il mancato accoglimento della domanda di ingiustificato arricchimento ex art. 2041 c.c.; la liquidazione dei compensi maturati per l’attività svolta nei procedimenti penali; la condanna alla restituzione degli acconti percepiti e quella al pagamento delle spese di lite.
Con sentenza 10 marzo 2015, n. 492, la Corte d’appello di Bologna rigettava l’appello, confermando la sentenza impugnata.
3. Contro la sentenza ricorre per cassazione C.Z., in proprio e in qualità di legale rappresentante dell’associazione professionale “Studio legale Z.”.
Resistono con controricorso L.P. e F.C..
Il ricorrente ha depositato memoria.
Ragioni della decisione
1. Il ricorso, che enumera quindici motivi, è in realtà articolato in quattordici motivi.
1) Il primo, il secondo, il terzo e il quarto motivo attengono alla conferma da parte del giudice d’appello della decisione di primo grado di annullamento del contratto di prestazione professionale, limitatamente all’incarico ad agire in giudizio, per violazione dell’obbligo informativo di cui all’art. 4 del d.lgs. 28/2010.
Preliminarmente all’esame dei motivi, va rilevato che il ricorrente in memoria invita questa Corte a sollevare questione di legittimità costituzionale (e anche a rinviare la questione alla Corte europea di giustizia) dell’art. 4 del d.lgs. 28/2010. La disposizione, laddove prevede che, in caso di violazione degli obblighi di informazione circa la possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione e delle relative agevolazioni fiscali, il contratto tra l’avvocato e l’assistito è annullabile, sarebbe in contrasto con l’art. 76 Cost., avendo violato i principi e i criteri direttivi della legge di delegazione (la legge n. 69/2009).
La questione è priva di fondamento. La Corte costituzionale, con la pronuncia 6 dicembre 2012 n. 272, che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 5 del d.lgs., ha dichiarato “in via consequenziale” l’illegittimità dell’art. 4, comma 3, limitatamente al secondo periodo («L’avvocato informa altresì l’assistito dei casi in cui l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale») e al sesto periodo, limitatamente alla frase «se non provvede ai sensi dell’articolo 5, comma 1». Il d.l. 69/2013, che ha reintrodotto la mediazione c.d. obbligatoria, si è limitato a operare un inserimento nel comma 3, ma la legge 98/2013, di conversione del medesimo, all’art. 1, allegato a) ha previsto la sostituzione del comma, così che non si può porre la questione di legittimità della norma sotto il profilo dell’art. 76 Cost.
Venendo ai quattro motivi:
a. Il primo denuncia “omesso esame circa un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione fra le parti ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., ed in particolare omesso esame della circostanza fattuale secondo cui l’avvocato C.Z. aveva sempre allegato e sostenuto e chiese sempre di provare che i resistenti avevano commissionato una semplice bozza dell’atto di citazione riservandosi gli intimati di valutarne il contenuto sicché per detta ipotesi non era assolutamente necessaria una informativa sulla mediazione”.
b. Il secondo motivo, proposto in “via alternativa e/o concorrente” al precedente e per le stesse ragioni, contesta “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 4 della legge mediazione (legge n. 28/2010) in relazione all’art. 360, n. 3 c.p.c.”.
c. Il terzo motivo lamenta nuovamente “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 4 della legge mediazione (legge n. 28/2010) in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.”, per avere la Corte d’appello ritenuto irrilevante, ai fini dell’adempimento dell’obbligo di cui all’art. 4, il fatto che L.P. abbia “sottoscritto delega ad litem a margine di un foglio in bianco, contenente, tra l’altro, anche l’informativa sulla mediazione”.
d. Il quarto motivo denuncia “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 4, 5 e 23 legge mediazione (d.lgs. n. 28/2010) in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.”, per avere la Corte d’appello escluso la riconducibilità della controversia per cui era stato conferito l’incarico professionale dall’ambito di operatività dell’art. 409 c.p.c., ritenendo perciò operante il dovere di informativa di cui al d.lgs. n. 28/2010.
I quattro motivi non possono accolti.
A fronte dell’articolato rigetto da parte del giudice d’appello del motivo di gravame che contestava l’applicabilità del richiamato art. 4 (pp. 4-7 della sentenza impugnata), il ricorrente anzitutto contesta (primi due motivi) che non è stato considerato che le controparti “ebbero a commissionare una semplice bozza dell’atto di citazione”, bozza rispetto alla quale “non appariva necessaria alcuna informativa sulla mediazione”. La censura è contraddittoria. È infatti stato il ricorrente a chiedere (pp. 4-5 del ricorso) il compenso per “la redazione dell’atto di citazione relativamente alla causa civile”, compenso distinto da quello relativo alla “fase stragiudiziale” della lite (euro 20.622,40). Delle due una: o l’atto faceva ancora parte della fase stragiudiziale, preparatoria, fase per quale non si poneva l’obbligo di informazione e per la quale è stato riconosciuto il compenso dai giudici di merito, ovvero si è trattato della stesura di un atto giudiziale, in bozze perché poi non depositato, che presupponeva la preventiva informazione circa la possibilità di risolvere la lite in mediazione.
II terzo e il quarto motivo ripropongono due rilievi già proposti al giudice d’appello: una delle due controparti, P., aveva in realtà firmato una delega al ricorrente che conteneva anche l’informativa, delega posta a margine di un foglio bianco (terzo motivo); l’obbligo di informativa non poteva trovare applicazione perché la lite era riconducibile all’art. 409 c.p.c.
Al riguardo, correttamente il giudice d’appello ha affermato che la controversia in questione non era di lavoro (il che trova conferma nel fatto che l’atto redatto era un atto di citazione e non un ricorso) e che la sottoscrizione di una delega in bianco non rispondeva ai requisiti posti per l’informativa dal richiamato art. 4.
2) Il quinto e il sesto motivo riprendono i primi due in relazione all’atto introduttivo del giudizio arbitrale:
a. Con il quinto motivo (indicato come sesto) il ricorrente denuncia “omesso esame circa un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione fra le parti, ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.”, con particolare riferimento “all’omesso esame della circostanza fattuale secondo cui l’avvocato C.Z. aveva sempre allegato e sostenuto e chiedeva di provare che i resistenti avevano commissionato una semplice bozza dell’atto di devoluzione in arbitrato riservandosi di valutarla”.
b. Il sesto motivo (indicato come settimo), proposto in “via alternativa e/o concorrente” al precedente e per le medesime ragioni, lamenta “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 4 della legge mediazione (legge n. 28/2010) in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.”.
I due motivi sono inammissibili in quanto non si confrontano con le ragioni che hanno portato il giudice d’appello a confermare la decisione di primo grado circa il mancato riconoscimento del compenso per la predisposizione dell’atto introduttivo del giudizio arbitrale. Il ricorrente lamenta che, come per l’atto di citazione, anche per l’atto introduttivo dell’arbitrato “i resistenti avevano commissionato una semplice bozza (..) sicché, per ognuna delle ipotesi, non appariva necessaria una informativa della mediazione”. In realtà, il giudice d’appello, come quello di primo grado, non ha affatto motivato l’esclusione del compenso sulla mancanza della informativa, ma sul difetto di prova dell’incarico a predisporre l’atto (pp. 7-8 della sentenza impugnata).
3) Il settimo e l’ottavo sono tra loro strettamente connessi:
a. Il settimo motivo (indicato come ottavo) denuncia “omesso esame circa un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 n. 5 c.p.c.)” in relazione alla “mancata ammissione di prove decisive a proposito dell’incarico per il c.d. patto di quota lite”.
b. L’ottavo motivo (indicato come nono), proposto in subordine al precedente e per le medesime ragioni, lamenta violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2697 c.c. e dell’art. 115 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.
Il settimo motivo è inammissibile in base ai commi 4 e 5 dell’art. 348 – ter c.p.c. (il limite alla proposizione del ricorso per cassazione trova applicazione, a differenza di quanto sostiene il ricorrente in memoria, anche fuori dei casi di cui all’art. 348-bis, quando l’impugnata sentenza d’appello ha confermato la decisione di primo grado). Il motivo ripropone infatti la questione della prova del conferimento dell’incarico per la redazione del patto di quota lite già proposta al giudice d’appello (pp. 8-9 della sentenza impugnata e pp. 46-52 del ricorso). Inammissibile, per genericità, è l’ottavo motivo che si limita a lamentare, in relazione alla mancata ammissione delle prove di cui al precedente motivo, la violazione dell’art. 2697 c.c., che è invece la disposizione che distribuisce tra le parti il rischio della mancata prova, e l’art. 115 c.p.c., che detta la generale regola della disponibilità della prova contrapposta al potere d’ufficio del giudice di assumerla.
4) Il nono, il decimo e l’undicesimo motivo concernono il rigetto da parte della Corte d’appello del motivo di gravame relativo al mancato accoglimento della domanda di arricchimento senza causa ex art. art. 2041 c.c.:
a. Il nono motivo (indicato come decimo) contesta “violazione degli artt. 342, 345 e 346 c.p.c. posto che la corte di appello, in tema di interpretazione della domanda ex art. 2041 c.c., non ha tenuto conto della regola per la quale gli atti processuali debbono essere valutati secondo il canone dell’interpretazione complessiva e dunque in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. ovvero, ove quest’ultimo non sia ritenuto applicabile, ex art. 360 n. 4 c.p.c.”.
b. Il decimo motivo (indicato come undicesimo), proposto in subordine al precedente e sempre in tema di interpretazione della domanda ex art. 2041 c.c., denuncia “error in procedendo anche per violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.”, in quanto la Corte doveva comunque pronunciare sulla domanda.
c. L’undicesimo motivo (indicato come dodicesimo) denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2041 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., per avere la Corte d’appello giudicato infondata, oltreché inammissibile, la domanda proposta ex art. 2041 c.c.
I motivi non possono essere accolti. Il nono motivo contrappone al rilievo del giudice d’appello dell’avvenuta rinuncia alla domanda in quanto non riproposta in sede di precisazione delle conclusioni, l’inconferente assunto che “il giudice di merito deve sempre considerare il dato sostanziale della pretesa azionata”. Il decimo motivo lamenta che il giudice d’appello non si sia comunque pronunciato sulla domanda, per poi nel motivo successivo contestare la pronuncia resa, pronuncia di infondatezza che comunque non era necessaria alla luce dell’avvenuta rinuncia alla domanda.
5) Il dodicesimo motivo (indicato come tredicesimo) riporta “violazione del d.lgs. 4-3-2010 n. 28 ed in particolare, fra gli altri, del suo art. 4 avendo la Corte di merito parificato le vertenze penali a quelle civili ai fini dell’obbligo di informativa ed in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.”.
Il motivo, di non facile comprensione, non può essere accolto in quanto il giudice d’appello non ha affatto parificato i procedimenti penali a quelli civili in relazione all’obbligo di informativa di cui all’art. 4 del d.lgs. 28/2010, avendo unicamente confermato la liquidazione del complessivo compenso dovuto al ricorrente nella misura determinata dal Tribunale (v. p. 11 della sentenza impugnata).
6) Il tredicesimo motivo (indicato come quattordicesimo) lamenta “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 n. 5 c.p.c.)”, per non avere la Corte d’appello tenuto in debita considerazione, ai sensi dell’art. 91 c.p.c., “l’abbandono da parte dei convenuti della domanda riconvenzionale di risarcimento del danno in relazione alla quale esso appellante aveva svolto una notevole attività difensiva”.
Il motivo è inammissibile ai sensi dell’art. 348-ter, commi 4 e 5 c.p.c.: il ricorrente ripropone le stesse ragioni che ha già fatto valere davanti al giudice d’appello e che questi ha ritenuto infondate (cfr. pp. 11-12 della sentenza impugnata).
7) Il quattordicesimo motivo (indicato come quindicesimo) denuncia “violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. nonché 2233 e 2234 c.c. per avere disposto la restituzione di somme versate in acconto”.
Il motivo, scarsamente comprensibile, non può essere accolto: da un lato la regola richiamata dal giudice d’appello, di restituzione della differenza tra l’importo degli acconti ricevuti e il compenso spettante, è regola non discutibile, dall’altro lato è oscuro il richiamo agli artt. 2233 e 2234 c.c. e poco chiaro il riferimento al “decoro” della professione forense.
II. Il ricorso va quindi rigettato.
Le spese, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 – quater, del d.p.r. n. 115/2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 – bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio in favore dei controricorrenti che liquida in euro 7.700, di cui euro 200 per esborsi, oltre spese generali (15%) e accessori di legge.
Sussistono, ex art. 13, comma 1-quater del d.p.r. n. 115/2002, i presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
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