CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 05 giugno 2018, n. 14391
Licenziamento – Rifiuto di svolgere mansioni di magazziniere – Atteggiamento oppositivo – Assenza di proporzionalità
Fatti di causa
1. La Corte d’Appello di Firenze, con sentenza nr. 185 del 2016, accoglieva il reclamo proposto ai sensi della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 58, avverso la sentenza del Tribunale di Lucca che, giudicando sull’impugnativa del licenziamento intimato in data 26.9.2012 dalla società F. S.p.A. a L.M. aveva respinto la domanda del lavoratore.
La Corte territoriale premetteva che il M. era stato licenziato a seguito di lettera del 18.9.2012 con cui gli si addebitava una grave insubordinazione per essersi rifiutato di svolgere mansioni di magazziniere.
I giudici di merito osservavano che effettivamente il lavoratore, nel corso del colloquio del 17.9.2012 con il direttore del personale ed alla presenza di componenti della RSU, aveva affermato di non essere disponibile a svolgere mansioni diverse da quelle fino a quel momento svolte e da altre consistenti nell’inserimento di taluni dati nel sistema informativo e che dunque aveva tenuto un comportamento oppositivo.
Osservavano, però che, ai fini della valutazione del disvalore della condotta, doveva considerarsi la circostanza che il lavoratore aveva manifestato il suo disappunto, prima di conoscere l’esito della visita di idoneità che lo avrebbe giudicato idoneo allo svolgimento di mansioni di magazziniere, sia pure con rilevanti limitazioni, e, cosa ancora più importante, prima ancora che il datore di lavoro individuasse concretamente, all’esito del giudizio del medico competente, le mansioni che riteneva esigibili in quanto compatibili con il suo stato di salute.
Secondo la Corte di merito, solo in presenza di tali ultime circostanze, la condotta avrebbe potuto giustificare il licenziamento per la lesione irrimediabile del vincolo fiduciario mentre quella del M., che si arrestava sul piano di un atteggiamento oppositivo “di mera affermazione”, era inidonea ad integrare una giusta causa o un giustificato motivo di recesso.
Quanto alle conseguenze di tale accertamento, la Corte di merito osservava che il codice disciplinare stabiliva, per l’insubordinazione, tanto la sanzione espulsiva quanto quella conservativa, in ragione della diversa gravità della condotta: per quella concretamente accertata, il codice disciplinare stabiliva la sanzione conservativa e, pertanto, in applicazione del comma 4 dell’art. 18 della legge 300 del 1970, andava riconosciuta la tutela reintegratoria.
2. Per la cassazione della sentenza, ha proposto ricorso la società F., affidato a due motivi, cui ha resistito, con controricorso, L.M..
3. Il lavoratore ha depositato memorie di costituzione di nuovi difensori.
4. La società ha depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ. in prossimità dell’udienza pubblica.
Ragioni della decisione
5. Deve preliminarmente dichiararsi la nullità della procura ad litem in favore dell’avvocato M.L. in quanto non rilasciata nelle forme stabilite dall’art. 83 cod.proc.civ., ratione temporis applicabile.
6. Con il primo motivo, si censura la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 cod.civ. per aver la sentenza ritenuto insussistente la giusta causa di licenziamento in presenza di una grave insubordinazione costituita dal conclamato diniego di svolgere le mansioni assegnate dal datore di lavoro.
Si critica, in particolare, la decisione laddove ricostruisce la condotta del lavoratore in termini di rifiuto a svolgere una serie molto vaga di compiti ritenuti pregiudizievoli e non di diniego ad eseguire quelli che in concreto il datore di lavoro aveva individuato e di cui aveva richiesto l’esecuzione (cfr. pagg.10 e 11 ricorso); l’ordine di servizio conteneva una dettagliata descrizione dei compiti che il lavoratore avrebbe dovuto svolgere, unicamente rispettando le limitazioni prescritte e coincidenti con quelle indicate dal medico competente.
7. Il motivo è infondato.
In tema di licenziamento, questa Corte ha, più volte, affermato che la giusta causa costituisce una nozione che la legge configura con una disposizione, ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali, che richiede di essere specificata in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni, relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito (Cass. 16.5.2016 n. 10017 che richiama Cass. 2.3.2011 n. 5095 e Cass. 26.4.2012 n. 6498).
E’ stato ripetutamente precisato che il vizio di cui all’art. 360 nr. 3 cod. proc. civ. comprende anche la falsa applicazione della norma, ossia il vizio di sussunzione del fatto, che consiste o nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista – pur rettamente individuata e interpretata – non è idonea a regolarla o nel trarre dalla norma in relazione alla fattispecie concreta conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione (ex plurimis, Cass. 23.9.2016 nr. 18715).
Il vizio di sussunzione è ipotizzabile anche nel caso di norme che contengano clausole generali o concetti giuridici indeterminati ma, per consentirne lo scrutinio in sede di legittimità, è indispensabile, così come in ogni altro caso di dedotta falsa applicazione di legge, che si parta dalla ricostruzione della fattispecie concreta così come effettuata dai giudici di merito; altrimenti si trasmoda nella revisione dell’accertamento di fatto di competenza di detti giudici (Cass. nr. 18715 del 2016 cit.).
Altrimenti detto, il vizio di cui all’art. 360 nr. 3 cod. proc. civ viene in rilievo in relazione al fatto nei termini in cui è accertato in sentenza e non già rispetto a fatti diversamente ricostruiti dalla parte ricorrente.
La ricostruzione del fatto costituisce infatti un prius rispetto alla applicazione delle norme di diritto ed è censurabile, in sede di legittimità, nei soli limiti del vizio della motivazione ex articolo 360 nr. 5 cod. proc.civ.
Nel caso di specie, la Corte di Appello di Firenze ha escluso che integrasse giusta causa di licenziamento il rifiuto del lavoratore a svolgere mansioni diverse, opposto prima di conoscere gli esiti della visita medica di idoneità cui era stato sottoposto e relativamente ad un ordine di servizio generico che non individuava ancora esattamente i nuovi compiti da espletare.
Il giudizio reso in ordine al momento storico in cui la condotta è stata realizzata (prima della conoscenza del giudizio medico) così come quello relativo ai contenuti (generici) del provvedimento datoriale costituiscono apprezzamenti di fatto rimessi al giudice di merito che, non censurati, non sono più in discussione in questa sede.
Osserva la Corte che, rispetto al fatto accertato, la decisione impugnata non si è discostata dagli insegnamenti della giurisprudenza che impongono di apprezzare in concreto la gravità dell’addebito, a tal fine considerando tutti i connotati oggetti e soggettivi del fatto, vale a dire il danno arrecato, l’intensità del dolo o il grado della colpa, i precedenti disciplinari nonché ogni altra circostanza tale da incidere in concreto sulla valutazione del livello di lesione del rapporto fiduciario tra le parti.
I giudici di merito hanno valorizzato, in particolare, che il lavoratore avesse agito senza essere a conoscenza degli esiti del giudizio di idoneità delle mansioni e, quindi, in condizioni soggettive particolari dovute – evidentemente – all’incertezza dello stato di salute e degli effetti che avrebbero potuto avere mansioni diverse da quelle fino ad allora svolte.
8. Con il secondo motivo, si censura la violazione e falsa applicazione dell’art. 2106 cod.civ., dell’art. 3 della legge nr. 604 del 1966 e degli artt. 9 e 10 del CCNL dell’Industria Metalmeccanica Privata del 15.10.2009.
Si critica la sentenza che, dopo aver escluso la giusta causa di licenziamento per assenza di proporzionalità, ha riconosciuto la tutela reintegratoria sul presupposto che il CCNL stabiliva per l’insubordinazione sia la sanzione conservativa che quella espulsiva in ragione della diversa “gravità” dell’insubordinazione e concluso che quella posta in essere dal lavoratore integrava l’ipotesi sanzionata con misura più lieve.
La Corte territoriale, secondo la società, avrebbe commesso un errore interpretativo delle norme collettive ed, in particolare, degli artt. 9 e 10 del CCNL che distinguono tre ipotesi di insubordinazione (“grave insubordinazione – insubordinazione – lieve insubordinazione”), in particolare, riconducendo la condotta concreta nell’ambito di quella meno grave.
9. Il motivo, con riferimento alla dedotta violazione del codice disciplinare, è inammissibile per difetto di specificità.
Quando sia denunziata in ricorso la violazione di norme del contratto collettivo la deduzione della violazione deve essere accompagnata dalla trascrizione integrale delle clausole, al fine di consentire alla Corte di individuare la ricorrenza della violazione denunziata (cfr. Cass. nr. 25728 del 2013; nr. 2560 del 2007; nr. 24461 del 2005) oltre che dal deposito integrale della copia del contratto collettivo (Cass. SU nr. 20075 del 2010) o dalla indicazione della sede processuale in cui detto testo è rinvenibile (Cass. SU nr. 25038 del 2013).
Nella fattispecie di causa le clausole del contratto collettivo di cui si denunzia la violazione (artt. 9 e 10 del CCNL) sono riportate solo per sintesi dei contenuti, sicché non è consentito alla Corte alcun esame del loro effettivo ed integrale tenore testuale.
10. In merito, invece, alla violazione dell’art. 2106 cod. civ. e dell’ art. 3 della legge 604 del 1966, il giudizio reso in ordine alla “gravità” dell’insubordinazione, in quanto mediato dalle risultanze di causa, è giudizio di fatto, non adeguatamente censurato in questa sede.
11. Il ricorso va, dunque, complessivamente respinto.
12. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 4.000,00 per compensi professionali oltre agli esborsi liquidati in euro 200,00, alle spese forfettarie del 15% ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. nr. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso articolo 13.
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