CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 05 giugno 2020, n. 10685
Tributi – Importazioni – Dazi doganali – Valore delle merci – Inclusione delle royalties – Condizioni
Fatti di causa
1. L’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia, depositata il 3 marzo 2014, che, in accoglimento dell’appello della P. s.p.a., ha annullato gli avvisi di rettifica dell’accertamento dei diritti doganali e dell’i.v.a., nonché l’atto di irrogazione delle relative sanzioni, richiesti in relazione ad operazioni di importazione poste in essere dalla contribuente.
1.1. Dall’esame della sentenza impugnata si evince che con gli atti impositivi impugnati l’Ufficio ha contestato la fedeltà della dichiarazione doganale nella parte relativa al valore indicato, in quanto non teneva conto delle royalties pagate dalla contribuente.
2. Il giudice di appello ha accolto il gravame della società, evidenziando che i diritti di licenza da quest’ultima pagati non potevano considerarsi quali condizioni imprescindibili di vendita e, conseguentemente, non dovevano essere inclusi nella determinazione del valore della merce in dogana.
3. Il ricorso è affidato a quattro motivi.
4. Resiste con controricorso la P. s.p.a., la quale deposita memoria ai sensi dell’art. 380 bis. 1 c.p.c.
5. A seguito di rimessione della causa all’odierna pubblica udienza, ai sensi dell’art. 375, secondo comma, c.p.c., l’Agenzia delle Entrate deposita memoria illustrativa del ricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso l’Agenzia denuncia, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 57, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, e 112 c.p.c., per aver la sentenza impugnata dichiarato illegittimo il recupero della maggiore i.v.a. accertata, benché lo stesso non fosse stato oggetto dei motivi del ricorso originario e la novità del motivo di gravame vertente sul punto fosse stata tempestivamente eccepita dall’Ufficio.
2. Con il secondo motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 57, d. lgs. n. 546 del 1992, e 112 c.p.c., per aver il giudice di appello, con riferimento alla medesima statuizione di illegittimità, consentito un ampliamento dei termini della controversia attraverso la prospettazione di nuovi motivi innanzi al giudice di secondo grado non dedotti nel ricorso introduttivo.
2.1. I motivi, esaminabili congiuntamente, sono infondati.
Dall’esame del controricorso – che riproduce, per stralci, il contenuto del ricorso introduttivo – può evincersi che l’impugnazione ha interessato l’atto impositivo nella sua integralità e, dunque, sia nella parte in cui provvede al recupero dell’i.v.a., sia nella parte in cui provvede al recupero dei diritti doganali, e che i motivi dell’impugnazione proposta investono, in relazione ai diversi profili prospettati, anche il recupero concernente l’i.v.a.
3. Con il terzo motivo di ricorso l’Agenzia si duole della violazione e falsa applicazione degli artt. 32, par. 1, lett. c), e par. 5, Regolamento (CEE) n. 2913/92, 157, par. 2, Regolamento (CEE) n. 2454/93, e 2729 c.c., per aver la sentenza impugnata escluso che ricorressero le condizioni in presenza delle quali i corrispettivi pagati a titolo di royalties dalla contribuente debbano essere inclusi nel valore in dogana delle merci importate.
3.1. In relazione a tale motivo di ricorso la controricorrente eccepisce l’inammissibilità dello stesso, in quanto tenderebbe ad ottenere dal giudice di legittimità un riesame degli elementi di fatto accertati dal giudice di appello ed una diversa valutazione degli elementi probatori esaminati dai giudici di merito.
3.2. L’eccezione è priva di pregio.
Con il motivo del ricorso la ricorrente non contesta la ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito, né, tanto meno, l’interpretazione delle clausole dell’accordo di licenza dagli stessi offerta, ma assume che tali fatti e, in particolare, il contenuto di tale accordo, così come individuato nella sentenza impugnata, determinerebbero l’applicazione della fattispecie astratta invocata, rappresentata dalla inclusione del valore delle royalties pagate alla licenziante nel valore delle merci importate, ai fini della determinazione dell’importo dei diritti doganali dovuti.
Si è, dunque, in presenza di una doglianza che non investe la ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di merito, ma la individuazione che questi ha compiuto della norma applicata a quel fatto così come accertato, riconducibile all’ipotesi di falsa applicazione della legge, usualmente definita «vizio di sussunzione».
Come noto, infatti, il vizio di cui all’art. 360, primo comma, n. 3), c.p.c. consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, mentre esula dallo stesso l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, prospettabile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione e il cui esame, a differenza dalla censura per violazione di legge, è mediato dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (cfr. Cass., ord., 5 febbraio 2019, n. 3340; Cass., ord., 30 aprile 2018, n. 10320; Cass., ord., 13 ottobre 2017, n. 24155).
Le espressioni violazione o falsa applicazione di legge, di cui all’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., descrivono i due momenti in cui si articola il giudizio di diritto: quello concernente la ricerca e l’interpretazione della norma ritenuta regolatrice del caso concreto e quello afferente l’applicazione della norma stessa una volta correttamente individuata ed interpretata.
Mentre il vizio di violazione di legge investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o inesistenza di una norma ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non possiede, avuto riguardo alla fattispecie in essa delineata, il vizio di falsa applicazione di legge consiste o nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista – pur rettamente individuata e interpretata – non è idonea a regolarla o nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione (cfr. Cass., ord., 14 gennaio 2019, n. 640; Cass. 26 settembre 2005, n. 18782).
Fa, dunque, parte del sindacato di legittimità secondo il paradigma della «falsa applicazione di norme di diritto» il controllare se la fattispecie concreta (assunta così come ricostruita dal giudice di merito e, dunque, senza che si debba procedere ad una valutazione diretta a verificarne l’esattezza e meno che mai ad una diversa valutazione e ricostruzione o apprezzamento ricostruttivo), è stata ricondotta a ragione o a torto alla fattispecie giuridica astratta individuata dal giudice di merito come idonea a dettarne la disciplina oppure al contrario doveva essere ricondotta ad altra fattispecie giuridica oppure ancora era irriconducibile ad una fattispecie giuridica astratta, sì da non rilevare in iure, oppure ancora non è stata erroneamente ricondotta ad una certa fattispecie giuridica cui invece doveva esserlo, essendosi il giudice di merito rifiutato expressis verbis di farlo (così, Cass. 31 maggio 2018, n. 13747).
Non è, quindi, affatto precluso al giudice di legittimità stabilire se il giudice di merito abbia correttamente sussunto sotto l’appropriata previsione normativa i fatti da lui accertati – ferma restando l’insindacabilità di questi ultimi e l’impossibilità di ricostruirli in modo diverso – e l’errore eventualmente commesso non è un errore di accertamento, ma un errore di giudizio, consistente nello scegliere in modo non corretto quella, tra le tante norme dell’ordinamento, della quale deve farsi applicazione al caso concreto (cfr. Cass., ord. 18 gennaio 2018, n. 1106).
4. Nel merito, il motivo è fondato.
L’art. 29, Reg. (CEE) n. 2913/92, applicabile ai fatti di causa ratione temporis, stabilisce che il valore in dogana delle merci importate è, di regola, il valore di transazione, ossia il prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci quando siano vendute per l’esportazione a destinazione del territorio doganale dell’Unione, fatte salve, però, le rettifiche da effettuare conformemente al successivo art. 32 (cfr. Corte UE, 21 gennaio 2016, Stretinskis; Corte UE, 12 dicembre 2013, Christodoulou).
Esso deve, comunque, riflettere il valore economico reale della merce importata e, quindi, considerarne tutti i fattori economicamente rilevanti (in termini, da ultimo, Corte UE, 20 dicembre 2017, Hamamatsu).
Il menzionato art. 32, nell’individuare gli elementi che devono essere aggiunti al prezzo effettivamente pagato per determinare il valore in dogana, attribuisce rilevanza, tra gli altri, alla lett. c), ai «corrispettivi e i diritti di licenza relativi alle merci da valutare, che il compratore è tenuto a pagare, direttamente o indirettamente, come condizione della vendita delle merci da valutare, nella misura in cui detti corrispettivi e diritti di licenza non sono stati inclusi nel prezzo effettivamente pagato o da pagare».
L’art. 157, par. 1, Reg. (CEE) n. 2454/93 (che fissa talune disposizioni d’applicazione del regolamento che istituisce il codice doganale comunitario), chiarisce che per «corrispettivi e diritti di licenza», ai fini dell’articolo 32, par. 1, lettera c), del codice doganale comunitario deve intendersi, in particolare, quanto versato per l’utilizzo di diritti inerenti alla fabbricazione delle merci importate, alla vendita per l’esportazione di tale merce e all’impiego e alla rivendita delle stesse.
Il successivo par. 2 del medesimo articolo precisa che al prezzo effettivamente pagato o da pagare devono essere aggiunti i corrispettivi o diritti di licenza soltanto nel caso in cui tale pagamento, da un lato, si riferisca alle merci oggetto della valutazione e, dall’altro, costituisca una condizione di vendita di tali merci.
L’art. 159, poi, stabilisce che al prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci importate va aggiunto un corrispettivo o diritto di licenza relativo al diritto di utilizzare un marchio commerciale o di fabbrica soltanto se il corrispettivo o il diritto di licenza si riferisce a merci rivendute tal quali o formanti oggetto unicamente di lavorazioni secondarie successivamente all’importazione, le merci sono commercializzate con il marchio di fabbrica, apposto prima o dopo l’importazione, per il quale si paga il corrispettivo o il diritto di licenza, e l’acquirente non è libero di ottenere tali merci da altri fornitori non legati al venditore.
Così ricostruito il quadro normativo deve concludersi, in coerenza con quanto affermato nella sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 9 marzo 2017, GE Healthcare, che la rettifica prevista dall’articolo 32, par. 1, lett. c), del codice doganale comunitario si applica quando ricorrono le seguenti tre condizioni cumulative: in primo luogo, che i corrispettivi o i diritti di licenza non siano stati inclusi nel prezzo effettivamente pagato o da pagare; in secondo luogo, che essi si riferiscano alle merci da valutare; e, in terzo luogo, che l’acquirente sia tenuto a versare tali corrispettivi o diritti di licenza come condizione della vendita delle merci da valutare.
Da ciò consegue che i corrispettivi o i diritti di licenza assumono rilevanza quale base imponibile e vanno considerati come «relativi alle merci da valutare» anche se non determinati al momento della conclusione del contratto di licenza o dell’insorgenza dell’obbligazione doganale.
4.1. Con particolare riferimento alla terza condizione, ossia che l’acquirente sia tenuto a versare tali corrispettivi o diritti di licenza come condizione della vendita delle merci da valutare, la richiamata pronuncia della Corte unionale ha affermato che la nozione «condizione di vendita» sta ad indicare la situazione in cui, nell’ambito dei rapporti contrattuali tra il venditore – o la persona ad esso legata – e l’acquirente, l’assolvimento del corrispettivo o del diritto di licenza rivesta un’importanza tale per il venditore che, in difetto, quest’ultimo non sarebbe disposto a vendere, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.
Ha, quindi, aggiunto, che qualora, come nel caso in esame, il beneficiario delle royalties sia soggetto diverso dal venditore, occorre «verificare se la persona legata al venditore eserciti un controllo, sul medesimo o sull’acquirente, tale da poter garantire che l’importazione delle merci, assoggettate al suo diritto di licenza, sia subordinata al versamento, a suo favore, del corrispettivo o del diritto di licenza ad esse afferente».
Ciò, in coerenza con l’art. 160, Reg. (CEE) n. 2454/93, secondo cui il pagamento delle royalties costituisce una condizione della vendita quando il venditore o una persona ad esso legata chiede all’acquirente di effettuare tale pagamento.
Può, dunque, ritenersi che i corrispettivi e i diritti di licenza (cd. royalties) dovuti dall’importatore in relazione alle merci importate costituisce una «condizione della vendita», ai fini della rilevanza degli stessi quale componente del valore della merce in dogana di cui all’art. 32 del codice doganale comunitario e, conseguentemente, dell’applicazione del potere di rettifica dell’Ufficio, non solo quando l’operazione è subordinata espressamente, nelle clausole dell’accordo di licenza, all’assolvimento di tali pagamenti, ma anche quando tale rapporto di subordinazione si evince dal tenore delle clausole contrattuali che interessano anche diversi soggetti che possono intervenire nell’operazione medesima, quando, come nel caso in esame, il venditore è soggetto diverso dall’avente diritto alla percezione delle royalties (cfr., sul tema, Cass. 6 aprile 2018, n. 8473).
4.2. Con riferimento alla nozione di controllo utilizzata nella richiamata pronuncia della Corte di Giustizia e presa in considerazione dall’art. 143, par. 1, lett. e), Reg. (CEE) n. 2454/93, si osserva che l’allegato 23 a tale Regolamento chiarisce che «si considera che una persona ne controlli un’altra quando la prima sia in grado di esercitare, di diritto o di fatto, un potere di costrizione o di orientamento sulla seconda».
Il controllo è dunque inteso in un’accezione ampia: da un lato, sul piano della fattispecie, perché è assunto per la sua rilevanza anche di fatto; dall’altro, su quello degli effetti, perché ci si contenta del potere di «orientamento» del soggetto controllato (così, Cass. n. 8473/18).
Quest’accezione ampia e necessariamente casistica, d’altronde, ben si coordina con la nozione economica del valore doganale, la quale si traduce nel rilievo, anch’esso di fatto, degli elementi che definiscono il valore economico del bene.
Al fine della individuazione del contenuto della nozione di «controllo» utili indicatori possono essere tratti dall’esemplificazione presente nel Commento n. 11 del Comitato del codice doganale (Sezione del valore in dogana) contenuto nel documento TAXUD/800/2002, nella versione italiana del 2007, sull’applicazione dell’art. 32, paragrafo 1, lettera c), del codice doganale.
Tale documento è ormai parte dell’acquis communautaire con valore di soft law, come riconosciuto anche dalla menzionata pronuncia della Corte di Giustizia secondo cui le conclusioni del predetto Comitato «sebbene non giuridicamente cogenti, costituiscono tuttavia strumenti importanti per garantire un’uniforme applicazione del codice doganale da parte delle autorità doganali degli Stati membri e possono, quindi, essere di per sé considerate strumenti validi per l’interpretazione di detto codice».
Ebbene, il documento annovera, tra gli elementi utili per determinare la presenza di un controllo, tra gli altri, i seguenti: il licenziante sceglie il produttore e lo impone all’acquirente; il licenziante esercita, direttamente o indirettamente, un controllo di fatto sulla produzione (per quanto attiene ai centri di produzione e/o ai metodi di produzione); il licenziante esercita, direttamente o indirettamente, un controllo di fatto sulla logistica e sulla consegna delle merci all’acquirente; il licenziante decide a chi il produttore può vendere le merci o impone delle restrizioni per quanto concerne i potenziali acquirenti; il licenziante fissa le condizioni del prezzo al quale il produttore/venditore vende le proprie merci o il prezzo al quale l’importatore/l’acquirente rivende le merci; il licenziante sceglie i metodi di produzione da utilizzare/fornisce dei modelli ecc.; il licenziante sceglie/limita i fornitori dei materiali/componenti; il licenziante limita le quantità che il produttore può produrre; il licenziante non autorizza l’acquirente a comprare direttamente dal produttore, ma attraverso il titolare del marchio (licenziante) che potrebbe agire anche come agente di acquisto dell’importatore; il produttore non è autorizzato a produrre prodotti concorrenti (privi di licenza) in assenza del consenso del licenziante; le merci fabbricate sono specifiche del licenziante (cioè nella loro concezione/nel loro design e con riguardo al marchio di fabbrica); le caratteristiche delle merci e la tecnologia utilizzata sono definite dal licenziante.
Come precisato dallo stesso Commento n. 11, nessuno di questi elementi esft costituisce di per sé una condizione di vendita, tuttavia una combinazione di questi elementi dimostra che esiste quel «potere di orientamento» della licenziante sulla venditrice, tale per cui il pagamento dei diritti di licenza costituisce una condizione di vendita.
Peraltro, possono esistere anche altri elementi, diversi da quelli presi in considerazione dal Commento n. 11, rivelatori dell’esistenza di una siffatta relazione tra le parti.
Deve, dunque, concludersi, in coerenza con quanto previsto dal richiamato Commento, che assumono rilevanza, ai fini che qui interessano, l’esistenza in capo alla licenziante di poteri di controllo e orientamento sull’attività di fabbricazione, che non si risolvono in un mero controllo di qualità dei beni, ma investono segmenti del processo produttivo.
4.3. Non risulta rilevante, né dirimente, la circostanza relativa alla soppressione del richiamato documento, in quanto il documento TAXUD/B4/2016, che fornisce linee orientative più sintetiche (ma non meno lineari) e si correla al dettato del nuovo codice doganale (Regolamento n. 952/2013/UE) e al corrispondente Regolamento di esecuzione (Regolamento n. 2015/2447/UE).
In proposito, si osserva che l’art. 70 del vigente codice doganale comunitario, pone, al primo comma, la regola generale per il valore in dogana è quello di transazione, ossia «il prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci», mentre il comma successivo dispone che questo «è il pagamento totale che è stato o deve essere effettuato dal compratore nei confronti del venditore, o dal compratore a una terza parte, a beneficio del venditore, per le merci importate, e comprende tutti i pagamenti che sono stati o devono essere effettuati, come condizione della vendita delle merci importate».
Con riguardo alla questione in esame, il successivo art. 71 individua tra gli elementi da includere nel valore di transazione «c) i corrispettivi e i diritti di licenza relativi alle merci da valutare, che il compratore, direttamente o indirettamente, è tenuto a pagare come condizione per la vendita delle merci da valutare, nella misura in cui detti corrispettivi e diritti di licenza non siano stati inclusi nel prezzo effettivamente pagato o da pagare».
L’art. 136 del regolamento di esecuzione, precisa, poi, che «I corrispettivi e i diritti di licenza sono considerati pagati come condizione della vendita delle merci importate quando è soddisfatta una delle seguenti condizioni: a) il venditore o una persona ad esso collegata chiede all’acquirente di effettuare tale pagamento; b) il pagamento da parte dell’acquirente è effettuato per soddisfare un obbligo del venditore, conformemente agli obblighi contrattuali; c) le merci non possono essere vendute all’acquirente o da questo acquistate senza versamento dei corrispettivi o dei diritti di licenza a un licenziante» (quarto comma).
La nuova disciplina consente, pertanto, di includere le royalties nel valore delle merci anche in assenza di un collegamento tra il venditore e il licenziante, escludendo che tale circostanza abbia valore essenziale.
In tal senso si esprime il TAXUD/B4/2016, secondo cui «il criterio applicabile è capire se il venditore può vendere o se il compratore può comprare le merci senza pagare royalties o diritti di licenza. La condizione può essere implicita o esplicita. In alcuni casi sarà specificato nell’accordo di licenza se la vendita delle merci importate è subordinato al pagamento di un corrispettivo o di un diritto di licenza. Tuttavia, non è richiesto che ciò debba essere precisato negli accordi».
Quanto alla nozione di «controllo», va rilevato che la stessa conserva importanza, venendo presa in considerazione dall’art. 127, Reg. (UE) n. 2015/2447, secondo la quale, ai fini della determinazione del valore in dogana, «si ritiene che una parte controlli l’altra quando la prima è in grado, di diritto o di fatto, di imporre orientamenti alla seconda».
Una siffatta locuzione è più generica ed ampia di quella precedente e non richiede necessariamente che il potere di orientamento investa la totalità delle attività del soggetto controllato.
E’, dunque, evidente che il documento TAXUD-800-2002 mantiene inalterato il suo valore orientativo, sia perché riferito alla disciplina contenuta nel codice doganale comunitario applicabile ratione temporis, sia perché la normativa successivamente introdotta fornisce una regolamentazione della materia che privilegia in misura più incisiva la rilevanza delle royalties pagate ai fini della determinazione del valore delle merci, sia perché anche il nuovo documento TAXUD del 2016 non si discosta dalle linee generali fondamentali già affermate.
4.4. Ciò posto, nel caso in esame, la sentenza impugnata ha escluso la sussistenza del diritto dell’Ufficio di operare la rettifica delle dichiarazioni doganali in considerazione della mancata dimostrazione di «legami cogenti in materia di controlli incisivi nell’ambito della organizzazione contabile, gestionale ed amministrativa delle licenzianti nei confronti del produttore cinese».
Evidenzia che alle licenzianti era riconosciuto un potere di controllo finalizzato ad una verifica, ex post, della qualità dei prodotti e della corretta configurazione dei marchi d’impresa oggetto delle licenze, anche in relazione al rispetto di un codice di natura etica per evitare lo sfruttamento dei lavoratori minorenni e garantire la sicurezza degli impianti di produzione, ma che tale potere di controllo non era tale da dar luogo ad un condizionamento del produttore, rilevante ai fini che qui interessano.
Con particolare riferimento all’individuazione dell’oggetto di un siffatto controllo, viene in evidenza, essendo riconosciuto anche dalla società contribuente nel proprio atto di appello, riportato per estratto nel ricorso, che, secondo le clausole dell’accordo di licenza, la scelta da parte del licenziatario del produttore doveva essere previamente approvata dalla licenziante.
Orbene, ritiene questa Sezione che la facoltà riconosciuta alla licenziante di approvare preventivamente i fornitori scelti dal licenziatario costituisce un elemento che offre adeguata dimostrazione dell’esistenza di un potere di orientamento del licenziante sul produttore/venditore, in relazione alla sua incisività nell’indirizzamento dell’attività di produzione.
Viene, infatti, in rilievo non già un controllo di mera qualità del prodotto, come tale non implicante necessariamente – secondo quanto osservato dal menzionato Commento n. 11 – l’esistenza di un potere di orientamento, bensì un controllo sulle modalità di svolgimento dell’attività di fabbricazione dei prodotti.
Pertanto, la Commissione regionale non ha fatto corretta applicazione dei richiamati principi di diritto, in quanto ha omesso di considerare che una situazione di controllo – intesa, come evidenziato in precedenza, quale possibilità di esercizio, di diritto o di fatto, di un potere di costrizione o di orientamento – può rinvenirsi anche qualora l’individuazione del produttore sia preventivamente approvata dal licenziante.
5. L’accoglimento del terzo motivo di ricorso impone l’accoglimento anche del motivo residuo, con cui si censura la sentenza di appello per violazione e falsa applicazione degli artt. 303, primo e secondo comma, Testo unico 23 gennaio 1973, n. 43, e 70, d.P.R. 26 settembre 1972, n. 633, nella parte in cui ha accolto il gravame anche relativamente all’irrogazione delle sanzioni, in relazione al venir meno del presupposto dell’annullamento dell’atto sanzionatorio.
6. La sentenza impugnata va, dunque, cassata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Lombardia in diversa composizione, che provvederà, oltre che al regolamento delle spese, anche all’esame delle questioni assorbite.
P.Q.M.
Accoglie il terzo e quarto motivo di ricorso e rigetta i restanti; cassa la sentenza impugnata con riferimento ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione.
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