CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 05 marzo 2018, n. 5077
Licenziamento orale – Inefficacia – Pagamento delle retribuzioni dalla data di messa in mora – Società in accomandita semplice – Ingerenza nell’attività della società da parte del socio accomandante – Responsabilità per le obbligazioni sociali
Fatti di causa
1. Con sentenza n. 1079/2012 la Corte di appello di Torino ha confermato la decisione di primo grado la quale, in parziale accoglimento della domanda proposta da R.D.L., aveva condannato in solido la M.C. s.a.s. ed il socio accomandante, G.C., al pagamento, in favore della D.L., della somma d € 40.05911, oltre accessori, a titolo di differenze retributive e, accertata la inefficacia del licenziamento orale intimato a quest’ultima, al pagamento delle retribuzioni dovute dalla data di messa in mora (settembre 2009) fino al maggio 2012. Ha posto a carico dell’appellante C. le spese di lite nei confronti degli appellati costituiti.
1.1. La Corte di merito ha respinto il gravame proposto dal C. avverso la decisione di primo grado rilevando che: a) la istruttoria aveva dimostrato l’ingerenza nell’attività della società da parte del C., socio accomandante, per cui lo stesso, in virtù di tale ingerenza, ai sensi dell’art. 2320 cod. civ., era divenuto responsabile per le obbligazioni sociali; b) le somme a titolo di compenso straordinario liquidate in primo grado si riferivano alle prestazioni offerte dalla D.L. in relazioni agli interventi di emergenza effettuati al di fuori dei normali orari di apertura diurna dello studio medico mentre il riconosciuto compenso relativo alla reperibilità, seppure non previsto dal contratto collettivo Studi professionali, trovava fondamento nel principio di proporzionalità della retribuzione sancito dall’art. 36 Cost.; c) la esistenza di un comportamento concludente, tradottosi nella estromissione di fatto della lavoratrice, era evincibile dalla documentazione da questa prodotta in ordine alle comunicazioni intercorse con la società alla luce delle quali dovevano essere lette le deposizioni dei testi P. e N., rivelatrici della inequivocabile volontà del C. di porre fine al rapporto con la D.L.; d) era corretta la declaratoria di inammissibilità della domanda con la quale il C. aveva chiesto la condanna di M.P., terzo chiamato iussu iudicis, quale socio accomandatario della società, avendo la difesa della lavoratrice esplicitato di non voler estendere al detto P. la domanda spiegata nei confronti della società e del C.; questi, infatti, non aveva proposto un’azione di rivalsa nei confronti del P. ma, in via subordinata, aveva chiesto di essere condannato in solido con quest’ultimo.
2. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso G.C. sulla base di quattro motivi; R.D.L. ha resistito con tempestivo controricorso; M.P. è rimasto intimato. La M.C. s.a.s. non ha svolto attività difensiva.
Ragioni della decisione
1. Preliminarmente deve darsi atto che la notifica del ricorso per cassazione alla società M.C. s.r.l., rimasta contumace nei precedenti gradi di giudizio, non è andata a buon fine. Ciò nonostante, attesa la infondatezza del ricorso per cassazione e in ossequio al principio di ragionevole durata del processo, si ritiene di definire il procedimento senza disporre il rinnovo della notifica, trattandosi di un’attività processuale del tutto ininfluente sull’esito del giudizio. (Cass. 17/06/2013 n. 15106; Cass. Sezioni unite 22/03/2010 n. 6826).
2. Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione, falsa applicazione e insufficiente motivazione ai sensi dell’art. 360 comma primo n. 5 cod. proc. civ., in merito a fatto controverso rappresentato dalla responsabilità ex art. 2320 cod. civ. in capo al C. ed alla sua conseguente condanna in via solidale con la M.C. s.a.s. . Si assume l’erronea interpretazione delle risultanze istruttorie in punto di ritenuta ingerenza nell’attività societaria da parte di esso C.; si sostiene che la presenza di questi all’interno della sede della società, così come gli sporadici atti di incasso di somme e anche di assegni della M.C. s.a.s., riferiti dai testi, risultavano giustificati dal fatto che il C. era il legale rappresentante della P.I. s.r.l., proprietaria dell’azienda e che gli incassi in questione costituivano quanto dovuto dalla M.C. s.r.l. per i canoni di affitto di azienda e per i rimborsi delle spese di locazione.
3. Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione ai sensi dell’art. 360 comma primo n. 3 cod. proc. civ. delle norme di diritto e dei contratti collettivi nazionali di lavoro relativi al lavoro straordinario notturno e festivo, nonché violazione, falsa applicazione e insufficiente motivazione, ai sensi dell’art. 360 comma primo n. 5 cod. proc. civ., in merito a fatto controverso rappresentato dal numero di ore di lavoro straordinario effettuate dalla ricorrente e dalla legittimità della indennità di reperibilità. Si censura la decisione per non avere rilevato la denunziata contraddittorietà della sentenza di primo grado la quale, pur escludendo la prova della effettuazione di lavoro straordinario con riferimento ai normali turni di lavoro, aveva ritenuto provata la prestazione di lavoro straordinario con riguardo agli interventi di urgenza effettuati in orario notturno e in giorni festivi. Si assume che la lavoratrice, ove avesse inteso ottenere la remunerazione del lavoro notturno o festivo, avrebbe dovuto formulare specifica domanda in tal senso; si deduce la illegittimità di un compenso per la reperibilità telefonica in assenza di specifica previsione nel contratto collettivo e si evidenzia che tale reperibilità trovava, in ogni caso, adeguato remunerazione nel riconoscimento di lavoro straordinario.
4. Con il terzo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione ai sensi dell’art. 360 comma primo n. 3 cod. proc. civ. delle norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro relativi al licenziamento nonché violazione e falsa applicazione e insufficiente motivazione ai sensi dell’art. 360 comma primo n. 5 cod. proc. civ. in merito a fatto controverso rappresentato dall’accertamento del licenziamento per facta concludenza. Si critica la sentenza impugnata per avere ritenuto non contestata la provenienza dalla M.C. s.r.l. del fax prodotto dalla D.L. dal quale si evincerebbe la volontà della società di estromettere la lavoratrice. Si assume che, comunque, anche ove ritenuto riconducibile alla società il fax in questione, non sarebbe ravvisabile l’autonoma volontà del C. di porre fine al rapporto.
Si evidenzia che vi era stata contestazione della provenienza del fax dalla società e che, in ogni caso, dalla prova orale era emersa la volontà della D.L. di porre fine al rapporto.
5. Con il quarto motivo si deduce violazione e falsa applicazione delle norme di diritto relative alla condanna alle spese, censurandosi, in sintesi, la decisione di appello per avere confermato la statuizione del giudice di prime cure in ordine alla infondatezza della domanda dell’esponente nei confronti del P. senza pronunziarsi in ordine al punto espressamente impugnato dal C.. Questi aveva infatti dedotto che, della espressa autorizzazione del giudice alla chiamata in causa del terzo P., avrebbe dovuto tenersi conto in sede di condanna alle spese nei propri confronti.
6. Il primo motivo di ricorso presenta plurimi profili di inammissibilità. In primo luogo, la denunzia di vizio di motivazione non è articolata con modalità coerenti con l’attuale formulazione dell’art. 360 comma primo n. 5 cod. proc. civ., il cui testo risulta applicabile ratione temporis in ragione della data di pubblicazione della sentenza impugnata. Parte ricorrente, infatti, omette di indicare lo specifico fatto storico, di carattere decisivo, il cui esame è stato omesso dal giudice di appello, (v. per tutte, Cass. Sezioni unite. 07/04/2014 n.8053). In secondo luogo, le critiche alla sentenza impugnata si risolvono nella diretta richiesta di un diverso apprezzamento di fatto del materiale probatorio, apprezzamento precluso al giudice di legittimità (Cass. 4/11/2013 n. 24679, Cass. 16/12/2011 n. 2197, Cass. 21/9/2006 n. 20455, Cass. 4/4/2006 n. 7846, Cass. 7/2/2004 n. 2357). In terzo luogo, in violazione delle prescrizioni di cui all’art. 366 n. 6 cod. proc. civ. (v. tra le altre, Cass. 12/12/2014, n. 26174), parte ricorrente non riproduce il contenuto integrale delle deposizioni testimoniali che assume non correttamente valutate, né specifica, con riferimento alle ulteriori circostanze di fatto alla base delle censure articolate, da quale atto o documento, ritualmente acquisito al giudizio di merito, le stesse siano state tratte.
7. Il secondo motivo di ricorso è infondato. Come evidenziato dal giudice di appello il fatto che la sentenza impugnata abbia escluso la prova dello straordinario in riferimento ai normali turni di lavoro espletati dalla D.L. non si pone in contraddizione con il riconoscimento del compenso per lavoro straordinario per prestazioni connesse agli interventi di emergenza effettuati nei giorni festivi o in orario notturno. Tali ultime prestazioni sono fondate, infatti, su presupposti di fatto diversi e scaturiscono dalla particolare modalità di funzionamento dell’attività dello studio medico che rimaneva aperto ventiquattr’ore su ventiquattro. Il compenso per lavoro straordinario richiesto in relazione a tali prestazioni è destinato a remunerare un profilo dell’attività di lavoro concettualmente diverso da quello destinato a remunerare la prestazione di lavoro notturno o festivo di talché del tutto ininfluente ai fini di causa è la circostanza, valorizzata dal ricorrente, che la lavoratrice non aveva formulato alcuna richiesta per maggiorazioni collegate alla prestazione in orario notturno o festivo. Inammissibile per la sua genericità ed in quanto non sorretta dalla esauriente esposizione della vicenda processuale con riguardo alle opposte allegazioni e deduzioni della parte ricorrente attinenti alla indennità di reperibilità, è poi la ulteriore censura con la quale si critica il riconoscimento a tale titolo di un ulteriore compenso.
8. Il terzo motivo di ricorso è inammissibile. Si premette che parte ricorrente, pur denunziando formalmente violazione di norme di diritto e di contratto collettivo, norme che peraltro omette specificamente di individuare, incentra le proprie censure sulla ricostruzione in fatto del giudice di appello, per avere questi fatto risalire alla iniziativa, per facta concludentia, della società la estromissione della lavoratrice dal posto di lavoro. La modalità di articolazione della doglianza non è idonea alla valida censura della decisione in relazione all’attuale configurazione dell’art. 360 comma primo n. 5 cod. proc. civ., secondo quanto già osservato in sede di esame del primo motivo di ricorso. Parte ricorrente non individua, infatti, come prescritto (v. Cass. Sez. Un. 8053/2014 cit.), alcun fatto storico, di rilevanza decisiva, oggetto di discussione tra le parti il cui esame è stato omesso dal giudice di appello. Tale fatto, in particolare, non potrebbe essere costituito dalla questione relativa alla contestazione o meno della provenienza dalla società del fax sia perché la sentenza impugnata ha preso espressamente in considerazione tale vicenda e, pur dando atto che il C. aveva affermato di non aver mai visto il detto documento, ne ha ritenuta la riferibilità, comunque alla M.C. ed al suo amministratore di fatto, sia perché la riferibilità alla iniziativa datoriale dell’allontanamento della lavoratrice è frutto della valutazione complessiva e globale delle circostanze tratte dalla prova orale e documentale e dalle stesse difese del C. nella memoria di costituzione (v. sentenza pag. 18), di talché la questione relativa alla contestazione o meno della provenienza del fax non assume, nell’economia della motivazione, alcun rilievo dirimente. Deve, infine, evidenziarsi che la deduzione relativa all’errore del giudice di appello per avere ritenuto non contestata la provenienza del fax dalla società, non è sorretta, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, dalla adeguata esposizione della vicenda processuale nelle fasi di merito, idonea a consentire la verifica ex actis degli assunti del ricorrente.
9. Il quarto motivo di ricorso è inammissibile, sia perché anch’esso, come il precedente, non è sorretto dalla esposizione della vicenda processuale con particolare riguardo alle allegazioni e deduzioni delle parti in ordine alle spese di lite, sia per l’assoluta genericità delle critiche articolate, affidate a considerazioni che non evidenziano alcuno specifico errore di diritto del giudice di appello, dovendo altresì osservarsi come parte ricorrente neppure individua nella rubrica del ricorso la specifica norma della cui violazione e falsa applicazione in tesi si duole (sulla corretta modalità di deduzione del vizio di cui all’art. 360 comma primo n. 3 cod. proc.civ., v. tra le altre, Cass. 03/08/2005 n. 5353 e Cass. 17/05/2006 n. 11501).
10. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità nei confronti della parte controricorrente.
11. – La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in € 4.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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