CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 05 marzo 2020, n. 6242
Tributi – Imposte sui redditi – Oneri deducibili – Svalutazione crediti concessi a imprese operanti nei Paesi a fiscalità privilegiata – Deducibilità – Esimente – Condizioni – Prova
Fatti di causa
1. B. of A.N.A. (in seguito: «BANA») svolge attività bancaria anche in Italia tramite la succursale di Milano, la quale, ai fini delle imposte sui redditi, si qualifica come una stabile organizzazione (in seguito: «filiale», «SO», «branch» o «Banca») e concede linee di credito a favore di società e gruppi industriali italiani, compreso (a partire dal 1999) il Gruppo P. Spa.
2. «BANA», filiale di Milano, impugnò innanzi alla CTP di Milano l’avviso di accertamento IRPEG, per l’annualità 2003, che recuperava a tassazione, quali componenti negativi di reddito indeducibili, le svalutazione dei crediti concessi a diverse società del Gruppo P., alcune delle quali operanti in Paesi a fiscalità privilegiata (c.d. black list), rilevando: (a) da un lato, che una parte delle svalutazioni dei crediti dedotte dalla succursale milanese avrebbe dovuto essere attribuita alla casa madre statunitense, la quale, a sua volta, aveva addebitato alla filiale italiana, gli interessi passivi sui fondi ad essa trasferiti; (b) d’altro lato, che le svalutazione dei crediti erogati a società operanti in Paesi a fiscalità privilegiata (c.d. black list), secondo il meccanismo dell’art. 71, comma 3, t.u.i.r., temporalmente vigente, erano state effettuate in assenza dei presupposti di legge.
3. La CTP di Milano, giusta sentenza n. 305/01/2010, accolse il ricorso, con decisione che è stata parzialmente riformata dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia, la quale, con la sentenza in epigrafe, nel contraddittorio della Banca, in parziale accoglimento dell’appello dell’Agenzia, ha riconosciuto l’indeducibilità della quota parte delle svalutazioni dei crediti inerenti ai rapporti riguardanti le aziende aventi sede in Paesi a fiscalità privilegiata (c.d. black list), e, per il resto, ha confermato la decisione di primo grado.
4. Il giudice d’appello, per un verso, ha ritenuto legittimo l’atto impositivo, con riferimento alla ripresa delle svalutazioni dei crediti erogati a società operanti in Paesi a fiscalità privilegiata, rilevando che «BANA» non aveva fornito la prova, su di essa gravante, circa l’effettiva attività commerciale svolta dalle imprese finanziate, ovvero che le operazioni compiute rispondessero ad un effettivo interesse economico e che esse avessero avuto concreta esecuzione; la CTR ha ancorato l’indeducibilità di tali componenti reddituali anche alla circostanza che la Banca aveva omesso di evidenziare dette svalutazioni, nella dichiarazione dei redditi, come componenti negativi derivanti da operazioni black list diversamente da quanto prescritto, a pena d’indeducibilità, dall’art. 76, comma 7-bis, t.u.i.r., all’epoca vigente.
5. Per altro verso, invece, la Commissione regionale ha respinto l’appello contro l’annullamento della ripresa riguardante la svalutazione dei crediti erogati ad altre società del Gruppo P., non operanti in Paesi a fiscalità privilegiata, rilevando che la contribuente era la «SO» di una banca extracomunitaria avente sede in uno dei 10 Paesi più industrializzati (c.d. «Gruppo dei dieci»), la quale, conformandosi alle disposizioni di Bankitalia (circolare n. 229 del 21/04/1999, in tema di «Istruzioni di Vigilanza per le banche»), aveva ottenuto dall’organo di vigilanza bancaria l’autorizzazione alla disapplicazione della disciplina concernente la concentrazione dei rischi (sussistendo le condizioni di reciprocità ed un adeguato sistema di vigilanza nel Paese d’origine, ossia negli Stati Uniti d’America).
6. Infine, la Commissione regionale, disattendendo il relativo motivo d’impugnazione dell’Agenzia, ha escluso l’applicabilità delle sanzioni per la sussistenza di obiettive condizioni d’incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle norme tributarie.
7. La Banca ricorre per la cassazione di questa sentenza, articolando sette motivi, illustrati anche con una memoria; l’Agenzia resiste con controricorso, nel quale svolge ricorso incidentale, con tre motivi, cui la contribuente resiste con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo del ricorso principale (1. Violazione e falsa applicazione dell’art. 76, commi 7-bis e 7-ter, del D.P.R. n. 917/1986 per essere le svalutazioni contestate considerate alla stregua di componenti negativi di reddito derivanti da operazioni black-list (art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.), la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere ritenuto che le svalutazioni dei crediti fossero componenti negativi di reddito, derivanti da operazioni black list, come tali soggette ai limiti di deducibilità previsti dagli articoli menzionati in rubrica, nonché all’obbligo di separata indicazione nella dichiarazione dei redditi, senza considerare che la peculiarità di tali elementi reddituali comporta che essi siano sottratti alle prescrizioni di tali articoli.
1.1. Il motivo è infondato.
È il caso di richiamare l’art. 76, commi 7-bis e 7-ter, t.u.i.r., vigente ratione temporis, secondo cui: «7-bis. Non sono ammessi in deduzione le spese e gli altri componenti negativi derivanti da operazioni intercorse tra imprese residenti e imprese domiciliate fiscalmente in stati o territori non appartenenti all’Unione europea aventi regimi fiscali privilegiati. Si considerano privilegiati i regimi fiscali di stati o territori individuati, con decreto del ministro delle finanze da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale, in ragione del livello di tassazione sensibilmente inferiore a quello applicato in Italia, ovvero della mancanza di un adeguato scambio di informazioni, ovvero di altri criteri equivalenti. 7-ter. Le disposizioni di cui al comma 7-bis non si applicano quando le imprese residenti in Italia forniscano la prova che le imprese estere svolgono prevalentemente un’attività commerciale effettiva, ovvero che le operazioni poste in essere rispondono a un effettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto concreta esecuzione. L’amministrazione, prima di procedere all’emissione dell’avviso di accertamento d’imposta o di maggiore imposta, deve notificare all’interessato un apposito avviso con il quale viene concessa al medesimo la possibilità di fornire, nel termine di 90 giorni, le prove predette. Ove l’amministrazione non ritenga idonee le prove addotte, dovrà darne specifica motivazione nell’avviso di accertamento. La deduzione delle spese e degli altri componenti negativi di cui al comma 7-bis è comunque subordinata alla separata indicazione nella dichiarazione dei redditi dei relativi ammontari dedotti.».
Tali disposizioni, per quanto adesso interessa, pongono un limite di deducibilità generale, riguardante tutte le spese e tutti gli altri componenti negativi derivanti da operazioni concluse tra imprese residenti e imprese fiscalmente domiciliate in Paesi soggetti a fiscalità privilegiata (c.d. black list), e, diversamente da quanto prospetta la Banca, non prevedono alcuna distinzione in base alla diversa tipologia di spesa o di componente negativo del reddito che le imprese domestiche intendano dedurre dalla base imponibile.
La conseguenza di tale premessa è che, conformemente a quanto ritenuto, prima, dall’Amministrazione finanziaria, e, in seguito, dalla Commissione regionale, il regime giuridico appena individuato trova piena applicazione anche in tema di «svalutazione dei crediti». Queste ultime, infatti, costituiscono, indiscutibilmente, «componenti negativi» del reddito di impresa che, ai fini impositivi, incidono sulla rilevanza delle perdite sui crediti successivamente registrate, rappresentando – le svalutazione dei crediti – la (temporanea) anticipazione, in termini reddituali (il che giustifica la loro appostazione nel conto economico, ai sensi dell’art. 2425, primo comma, lett. B), n. 10, lett. d), e lett. D), n. 19, lett. b), cod. civ., a seconda della diversa natura – commerciale o finanziaria – del credito), del decremento di ricchezza manifestato (definitivamente) dalle «perdite sui crediti», le quali, per effetto della loro correlazione con le svalutazioni dei medesimi diritti, sono deducibili, nel computo del reddito di impresa, al netto della parte che eccede l’ammontare delle svalutazioni e degli eventuali accantonamenti già dedotti nei precedenti esercizi (cfr., nello stesso senso, Cass. 14/12/2018, n. 32428, in motivazione; 04/05/2018, n. 10686).
2. Con il secondo motivo (2. Violazione e falsa applicazione dell’art. 76, commi 7-bis e 7-ter, del D.P.R. n. 917/1986, in quanto le esimenti ivi menzionate vengono considerate cumulative e non alternative (art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.) la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere erroneamente affermato che le esimenti dell’art. 76, commi 7-bis e 7-ter, cit., siano cumulative, mentre esse sono alternative, sicché è sufficiente che ne ricorra anche una sola per potere dedurre i componenti negativi derivanti da operazioni intercorse tra imprese residenti ed imprese domiciliate fiscalmente in Paesi a fiscalità privilegiata.
2.1. Il motivo è infondato.
La doglianza in esso contenuta è priva del requisito della decisività, in ragione del fatto che, sebbene la CTR abbia reputato – errando – il carattere cumulativo delle esimenti, la quali, invece, operano alternativamente (Cass. 22/02/2019, n. 5264), sicché ai fini della deducibilità dei componenti negativi delle operazioni concluse dalle imprese domestiche con le imprese fiscalmente residenti in Paesi black list è sufficiente che ricorra anche una soltanto di esse, cionondimeno, il giudice d’appello, avendo escluso la ricorrenza di ciascuna esimente, è pervenuto alla medesima conclusione alla quale sarebbe giunto se, correttamente, avesse colto il loro rapporto d’alternatività.
3. Con il terzo motivo (3. Violazione e falsa applicazione dell’art. 8, comma 3-bis, del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 e dell’art. 1, comma 303, della L. 27 dicembre 2006, n. 296 (art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c.), la ricorrente censura la sentenza impugnata per non avere riconosciuto che, per effetto dell’aggiunta, nell’art. 8, del d.lgs. n. 471/1997, del comma 3-bis, con legge n. 296/2006, la mancata separata indicazione dei componenti negativi di reddito derivanti da transazioni con Paesi c.d. black list è punita solo con sanzione amministrativa pecuniaria, pari al 10% dell’importo complessivo delle spese e dei componenti negativi non indicati nella dichiarazione dei redditi.
3.1. Il motivo è infondato.
Per orientamento costante di questa Corte (Cass. 30/10/2018, n. 27613, la quale richiama, Cass. nn. 5085/2017, 11933/2016), la materia è regolata dai seguenti princìpi di diritto:
(a) con decorrenza dal 10 gennaio 2007, i commi 301 e 302, dell’art. 1, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (il primo modificando il d.P.R. n. 917 del 1986, art. 110, commi 10 e 11 – già art. 76, commi 7-bis e 7-ter, il secondo mediante l’inserimento del comma 3-bis nel d.lgs. n. 471 del 1997, art. 8) hanno mutato la disciplina che sanciva l’indeducibilità dei costi scaturenti da operazioni commerciali intercorse con soggetti residenti in Stati a fiscalità privilegiata (c.d. Paesi black list) – ove non fosse provato che i contraenti esteri svolgessero effettiva attività commerciale, che le operazioni poste in essere rispondessero ad un effettivo interesse economico, che le stesse avessero avuto concreta esecuzione e, in ogni caso, che i costi non fossero stati separatamente indicati nella dichiarazione dei redditi -, degradando la separata indicazione dei costi da presupposto sostanziale della relativa deducibilità ad obbligo di carattere formale, passibile di corrispondente sanzione amministrativa, pari al 10% dell’importo complessivo delle spese e dei componenti negativi non (separatamente) indicati nella dichiarazione, con un minimo di euro 500 ed un massimo di euro 50.000;
(b) in ordine al regime transitorio dettato dalla legge n. 296 del 2006, art. 1, comma 303, anche le violazioni dell’obbligo di separata indicazione dei costi in esame poste in essere prima dell’entrata in vigore della legge non comportano, di per se stesse, l’applicazione del regime di assoluta indeducibilità dei costi medesimi (e di connessa sanzionabilità ai sensi del d.lgs. n. 471 del 1997, ex art. 1, comma 2), in quanto degradate a violazioni di carattere formale, soggette alla sanzione proporzionale suddetta, alla quale (solo per le situazioni di regime transitorio e, dunque, già assoggettate al rigoroso regime d’indeducibilità) si cumula, in forza del comma 303 cit., u.p., la sanzione prevista dal d.lgs. n. 471 del 1997, art. 8, comma 1, (che, per i vizi formali della dichiarazione, prevede la sanzione amministrativa da euro 258 a euro 2.065);
(c) in aggiunta alla sanzione di cui al comma 302 (pari al 10% dell’importo complessivo), «sempre che» (come espressamente previsto dalla norma) il contribuente fornisca la prova delle esimenti (ossia dimostri l’effettiva operatività delle società estere e la convenienza economica delle operazioni), si applica la sanzione più blanda di cui all’art. 8, comma 1, d.lgs. n. 471/1997 (Cass. 06/04/2016, n. 6651; 24/07/2018, n. 19624; 07/06/2018, n. 14852; 30/10/2018, n. 27613);
(d) tale lettura della disciplina di cui alla legge n. 296 del 2006, art. 1, commi 301, 302 e 303 – che appare l’unica idonea a garantirne la tenuta sul piano della razionalità – non viola il principio di legalità, posto che, sotto il profilo sanzionatorio e degli effetti che ne conseguono, il regime introdotto dalla normativa sopravvenuta è, nel suo complesso, certamente meno gravoso, per il contribuente, rispetto a quello previgente (Cass. n. 4030, n. 6205 e n. 21955 del 2015, 6338 e 6651 del 2016).
(e) nessun rilievo assume lo ius superveniens rappresentato dalla legge 28/12/2015, n. 208, art. 1, comma 142, lett. a), che ha abrogato l’art. 110, commi da 10 a 12-bis, stante l’irretroattività di tale normativa (Cass. 06/04/2016, n. 6651).
In applicazione di questi princìpi di diritto, tornando al motivo d’impugnazione, si appalesa errata la tesi giuridica della Banca secondo cui la CTR avrebbe commesso un errore di diritto nel non rilevare che, per effetto della descritta novella normativa, la mancata separata indicazione dei componenti negativi di reddito, derivanti da transazioni con Paesi c.d. black list, sarebbe punita soltanto con dianzi citata sanzione amministrativa proporzionale (del 10%).
4. Con il quarto motivo (4. Violazione e falsa applicazione dell’art. 2, comma 8, del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322 (art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c.), la ricorrente censura l’errore di diritto della sentenza impugnata per non avere considerato che la contribuente aveva indicato i costi black list in una dichiarazione integrativa, non potendosi sostenere, in astratto (dato che il giudice d’appello non si era pronunciato al riguardo), che il termine di emendabilità della dichiarazione integrativa incontri un limite nell’inizio di accessi, ispezioni o verifiche.
La censura è superata alla luce dell’indirizzo di questa Corte (Cass. 27613/2018, cit.), secondo cui:
(a) costituiscono causa ostativa alla presentazione della dichiarazione integrativa di cui al d.P.R. n. 322 del 1998, art. 2, comma 8, e – più specificamente – 8-bis, non solo la contestazione della violazione, ma anche l’inizio delle operazioni di verifica – nella specie risulta che la dichiarazione integrativa è stata presentata dalla branch in data 04/09/2008 (cfr. pag. 7 del ricorso), dopo l’inizio della verifica fiscale, conclusasi con la notifica (in data 08/09/2008) alla filiale milanese di «BANA» di un processo verbale di constatazione – in quanto in tal caso la correzione si risolverebbe in uno strumento elusivo delle sanzioni previste dal legislatore per l’inosservanza delle prescrizioni relative alla compilazione delle dichiarazioni dei redditi (tra altre, Cass. n. 5398 del 2012, n. 14999, n. 15285 e n. 15798 del 2015, 6651 del 2016);
(b) ancor prima – sul piano logico-giuridico -, la particolare fattispecie in esame, in cui l’inosservanza dell’onere dell’indicazione separata dei costi deducibili impediva (prima della novella introdotta dalla legge n. 296 del 2006, art. 1, commi 302 e 303) il perfezionamento della stessa fattispecie costitutiva del diritto alla deduzione di tali spese, è del tutto diversa dalle situazioni contemplate dall’art. 2, commi 8 e 8-bis, cit., poiché l’intervento emendativo non ha, in questo caso, la funzione di rideterminare correttamente componenti reddituali positivi o negativi omessi o errati, o di correggere errori di calcolo (così incidendo direttamente sul quantum di crediti e debiti esistenti al momento della presentazione della dichiarazione), ma è volto inammissibilmente a costituire ex novo un diritto – alla deduzione di determinate spese – prima inesistente, del quale, cioè, il contribuente non era già titolare (Cass. n. 24929 del 2013, nonché le citate Cass. n. 14999, n. 15285 e n. 15798 del 2015, n. 6651 del 2016).
5. Con il quinto motivo (5. Insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, avente ad oggetto la prova del requisito dell’economicità (art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. nel testo ante riforma di cui all’art. 54 del D.L. n. 83/2012 convertito dalla legge n. 134/2012), la ricorrente censura la carenza del percorso argomentativo della sentenza impugnata in punto di asserita insussistenza della seconda esimente di cui all’art. 76, commi 7-bis e 7-ter, cit., del d.P.R. n. 917/1986, per essersi la CTR limitata a negare che fossero «adeguatamente documentate» le argomentazioni addotte dalla Banca per dimostrare l’effettivo interesse economico delle operazioni di finanziamento nei confronti di società del Gruppo P. residenti in Paesi a fiscalità privilegiata, senza prendere realmente in considerazione gli elementi al riguardo offerti dalla «SO».
5.1. Il motivo è fondato.
Come si è già precisato (par. 1.1.), affinché trovi applicazione la seconda esimente è necessario che le imprese residenti in Italia forniscano la prova dell’effettivo interesse economico delle operazioni e che esse hanno avuto concreta esecuzione.
Secondo il costante orientamento di questa Sezione tributaria (Cass. 5464/2019, cit.), dal quale il Collegio non ha motivo di discostarsi, la verifica giudiziale della sussistenza della seconda esimente (ossia della dimostrazione, da parte dell’impresa domestica, dell’effettivo interesse economico), comporta la necessaria valutazione della «bontà» del risultato imprenditoriale conseguito, sicché occorre tenere conto di tutti gli elementi e le circostanze che caratterizzano il caso concreto, attribuendo rilevanza alle condizioni complessive dell’operazione (in tal senso si esprime anche la circolare n. 51/2010 dell’Agenzia delle entrate).
Ebbene, la «SO», nelle sue controdeduzioni in appello, aveva ribadito che era priva di fondamento la tesi giuridica dell’ufficio appellante circa la mancanza di una logica di convenienza nelle operazioni di finanziamento contestate, facendo rilevare che, al contrario, tale convenienza era agevolmente desumibile dalle caratteristiche economiche e dai rendimenti delle operazioni (come attestato dai contratti prodotti in atti), le quali garantivano alla Banca rendimenti effettivi (in termini di tassi d’interesse, fissi e variabili) pienamente in linea, se non superiori, a quelli di mercato generalmente applicati all’epoca dei finanziamenti.
Sotto questo aspetto lo sviluppo motivazionale della sentenza impugnata si appalesa carente e lacunoso in quanto il giudice d’appello, omettendo di cimentarsi – come sarebbe stato necessario – nella meticolosa analisi dei dati finanziari offerti dalla branch a sostegno della sussistenza di un effettivo interesse economico correlato all’apertura delle linee di credito a favore di imprese operanti nei Paesi a fiscalità privilegiata, ha negato, puramente e semplicemente, che ricorresse la seconda esimente, limitandosi ad affermare che la Banca non aveva adeguatamente documentato l’effettivo interesse economico dei finanziamenti, senza spiegare le ragioni del proprio convincimento (cfr. pag. 5 della sentenza impugnata).
6. Con il sesto motivo (6. Contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio attinente lo svolgimento di effettiva attività commerciale da parte delle società del Gruppo P. (art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c.), la ricorrente fa valere la contraddittorietà della sentenza impugnata che, pur avendo riconosciuto che l’onere probatorio della contribuente è circoscritto alla dimostrazione della sussistenza dell’interesse economico e dell’effettiva esecuzione delle operazioni (con le società operanti in Paesi a fiscalità privilegiata), ha poi concluso che non era stato adeguatamente documentato – dall’appellante – che le imprese finanziate svolgessero un’attività commerciale effettiva.
6.1. Il motivo è assorbito per effetto dell’accoglimento del precedente mezzo d’impugnazione.
7. Con il settimo motivo (7. Nullità della sentenza in relazione all’art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia su un motivo di appello incidentale avente ad oggetto la nullità dell’avviso di accertamento per contraddittorietà della motivazione (art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c.), la ricorrente premette che: (a) nel ricorso introduttivo, aveva fatto valere il vizio di contraddittoria motivazione dell’avviso di accertamento che, da un lato, sosteneva che i crediti e le relative svalutazioni black list erano tutti legittimamente attribuibili alla «SO», mentre, d’altro lato, per le svalutazioni non black list, sosteneva la parziale indeducibilità, sul presupposto che dette svalutazioni fossero pro quota attribuibili alla casa madre statunitense; (b) il giudice di primo grado non si era pronunciato su tale questione ritenendola assorbita per effetto dell’accoglimento di altri motivi d’opposizione; (c) nel giudizio di gravame promosso dall’Agenzia, la Banca, nelle controdeduzioni e appello incidentale, aveva riproposto la medesima doglianza («in via di riproposizione dei motivi di ricorso e, per quanto occorrer possa, in via di appello incidentale»).
Imputa, quindi, alla Commissione regionale di avere omesso di pronunciare sul motivo di appello incidentale riguardante l’illegittimità dell’avviso di accertamento per violazione dell’art. 7, della legge n. 212/2000, ossia per contraddittorietà della motivazione.
7.1. Il motivo è infondato.
A tratteggiare la questione, nella sua esatta connotazione processuale, vale l’insegnamento delle sezioni unite di questa Corte (Cass. sez. un. 25/05/2018, n. 13195), in base al quale: «La parte pienamente vittoriosa nel merito in primo grado, in ipotesi di gravame formulato dal soccombente, non ha l’onere di proporre appello incidentale per richiamare in discussione le proprie domande o eccezioni non accolte nella pronuncia, da intendersi come quelle che risultino superate o non esaminate perché assorbite; in tal caso la parte è soltanto tenuta a riproporle espressamente nel giudizio di appello o nel giudizio di cassazione in modo tale da manifestare la sua volontà di chiederne il riesame, al fine di evitare la presunzione di rinunzia derivante da un comportamento omissivo.».
Venendo all’esame del motivo, è utile ricordare che, secondo pacifico indirizzo della giurisprudenza di legittimità, non ricorre il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancata decisione su un punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto sul medesimo (Cass. 6/12/2017, n. 29191; conf.: 08/03/2007, n. 5351; 13/10/2017, n. 24155/2017).
La società appellata, nel chiedere alla CTR il rigetto del gravame dell’ufficio, in sostanza, ha riproposto tutte le questioni che aveva fatto valere, in primo grado, a fondamento del ricorso volto all’annullamento dell’atto impositivo, parte delle quali non erano state esaminate dal giudice di prima istanza, perché assorbite.
Dal canto suo, la CTR, laddove ha (parzialmente) accolto l’appello dell’ufficio in punto di legittimità della ripresa a tassazione delle svalutazione dei crediti a favore delle imprese operanti in Paesi black list, ha implicitamente disatteso tutti gli argomenti difensivi – nessuno escluso – allegati dalla filiale milanese per sostenere il prospettato vizio di contraddittoria motivazione dell’avviso di accertamento.
8. Con il primo motivo del ricorso incidentale (1. Violazione e falsa applicazione dell’art. 106, DPR 917/1986, dell’art. 7, Convenzione Italia – Stati Uniti d’America del 17.10.1984 (ratificata con legge n. 763/1985) per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e per prevenire le frodi e le evasioni fiscali, dell’art. 9 Modello OCSE sulle convenzioni contro le doppie imposizioni, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.), l’Agenzia censura l’errore di diritto della sentenza impugnata per avere dichiarato l’illegittimità del recupero fiscale delle svalutazioni (perdite) sui finanziamenti concessi al Gruppo P. attraverso liquidità ottenute da «BANA», tradotte in speculari interessi passivi rilevati dalla branch domestica nei confronti della casa madre statunitense, malgrado l’assenza di un’adeguata e corrispondente patrimonializzazione (c.d. fondo di dotazione) ottenuta – a monte – da quest’ultima.
8.1. Il motivo è fondato.
Questa Corte, di recente (Cass. 19/09/2019, n. 23355), occupandosi della Convenzione tra Italia e il Regno Unito in tema di doppia imposizione (il cui art. 7 ha lo stesso contenuto dell’art. 7 della citata Convenzione tra Italia e Stati Uniti d’America), ha precisato che:
(a) la stabile organizzazione, dal punto di vista fiscale, è un’entità distinta ed autonoma rispetto alla «casa madre», i cui redditi, prodotti nel territorio dello Stato, sono assoggettati ad imposta, ai sensi dell’art. 23, comma 1, lett. e), t.u.i.r.;
(b) l’art. 7, par. 2, della Convenzione tra Italia e Regno Unito contro le doppie imposizioni, stipulata il 21 ottobre 1988 (e ratificata con legge n. 329 del 1990), prevede che quando un’impresa di uno Stato contraente svolge la sua attività nell’altro Stato contraente per mezzo di una stabile organizzazione ivi situata, in ciascuno Stato contraente vanno attribuiti a detta stabile organizzazione gli utili che si ritiene sarebbero stati da essa conseguiti se si fosse trattato di un’impresa distinta e separata svolgente attività identiche o analoghe in condizioni identiche o analoghe e in piena indipendenza dall’impresa di cui essa costituisce una stabile organizzazione;
(c) il Commentario OCSE (par. 18.3.), in merito al detto art. 7, ha chiarito che la stabile organizzazione deve essere dotata: «di una struttura patrimoniale appropriata sia per l’impresa, sia per le funzioni che esercita. Per tali ragioni, il divieto di dedurre le spese connesse ai finanziamenti interni – ossia quelli che costituiscono mere attribuzione di risorse proprie della casa madre – dovrebbe continuare ad applicarsi in via generale.».
In aggiunta a questi aspetti, ove poi si consideri che:
le Convenzioni contro le doppie imposizioni hanno esteso alla stabile organizzazione il principio di piena e libera concorrenza (c.d. arm’s length); è incontestato che, nel periodo d’imposta di riferimento (2003), «BANA» svolse la propria attività bancaria, in Italia, senza disporre del fondo di dotazione prescritto da B. per le banche residenti nello Stato; l’Amministrazione finanziaria, da un lato, a fini fiscali, ha individuato un «fondo figurativo», imputabile alla «SO», e, dall’altro, ha ritenuto deducibili solo i componenti negativi del reddito (svalutazione dei crediti, perdite sui crediti e interessi passivi), eccedenti il capitale figurativo, con esclusione, quindi, della quota parte dei detti componenti negativi (definibili, complessivamente, come «perdite P.») riferibile alla casa madre;
si appalesa erronea la decisione della CTR laddove si afferma che, conformemente alle prescrizioni della Banca d’Italia, la filiale milanese fosse esonerata dall’obbligo di rispettare la disciplina dei «limiti alla concentrazione dei rischi», trattandosi della «SO» di una Banca extracomunitaria con sede negli Stati Uniti d’America, quale Paese appartenente al c.d. «Gruppo dei dieci».
A giudizio di questa Corte di legittimità, come sostiene l’ufficio, il processo decisionale seguito dalla CTR collide con le citate disposizioni convenzionali e con il principio della libera concorrenza, in virtù dei quali i criteri di determinazione dei redditi imponibili delle «SO» debbono essere omogenei rispetto a quelli che valgono per le imprese residenti nello Stato.
Ai fini della determinazione del reddito imputabile alla filiale italiana di una Banca estera, occorre che questa abbia una struttura patrimoniale appropriata in relazione all’attività svolta, al pari di un’impresa autonoma e indipendente che svolge attività analoghe, nelle medesime condizioni. In presenza di una branch bancaria sottocapitalizzata o priva di capitale di rischio, la deducibilità dei componenti negativi postula la necessaria adozione di correttivi che, nel caso di specie, l’Amministrazione finanziaria ha individuato in un «fondo di dotazione figurativo», rilevante, astrattamente, ai fini della determinazione del quantum delle svalutazioni (perdite) dei crediti deducibili dalla base imponibile della filiale milanese, per effetto della loro imputazione pro quota, rispettivamente, alla «SO» e alla casa madre statunitense.
Tale soluzione appare coerente rispetto alla citata disposizione (par. 18.3.) del Commentario OCSE (Cass. 17/04/2019, n. 10706; 28/07/2006, n. 17206, ha affermato che il Commentario OCSE, pur non avendo valore normativo, costituisce, comunque, una raccomandazione diretta ai Paesi aderenti alla medesima organizzazione) e agli artt. 109 (in tema d’inerenza dei costi), 110, comma 7, t.u.i.r., vigente ratione temporis, con riferimento al quale questa Corte ha affermato che: «In tema di reddito d’impresa, l’art. 110, comma 7, del d.P.R. n. 917 del 1986, va inteso come attuativo del principio di libera concorrenza, esclusa ogni qualificazione dello stesso come norma antielusiva, sicché la valutazione del valore normale delle operazioni poste in essere postula l’esame della loro sostanza economica, in una prospettiva di comparazione con analoghe operazioni effettuate tra imprese indipendenti e in libera concorrenza (…)» (Cass. 15/11/2017, n. 27018; conf.: 29/01/2019, n. 2387).
Attualmente la materia è disciplinata dall’art. 152, t.u.i.r., riguardante il «Reddito di società ed enti commerciali non residenti derivante da attività svolte nel territorio dello Stato mediante stabile organizzazione» che, nella nuova formulazione, è stato introdotto dall’art. 7, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 147/2015, che non ha efficacia retroattiva (e, perciò, non è applicabile al caso di specie) e che, al secondo comma, prevede che: (a) la «SO» si considera entità separata e indipendente, svolgente le medesime o analoghe attività, in condizioni identiche o similari, tenendo conto delle funzioni svolte, dei rischi assunti e dei beni utilizzati; (b) il fondo di dotazione riferibile alla «SO» è determinato in piena conformità ai criteri definiti in sede OCSE, tenendo conto delle funzioni svolte, dei rischi assunti e dei beni utilizzati.
9. Con il secondo motivo (2. Violazione dell’art. 36, d.lgs. n. 546/1992, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.), e con il terzo motivo (3. Violazione o falsa applicazione dell’art. 8, d.lgs. 546/1992 e dell’art. 10, legge n. 212/2000, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.), l’Agenzia premette che la CTR, pur accogliendo l’appello dell’ufficio in relazione all’indeducibilità dei costi connessi ad operazioni di finanziamento a favore di imprese operanti in Paesi a fiscalità privilegiata, tuttavia, ha annullato le sanzioni irrogate per la sussistenza di obiettive condizioni di incertezza sulle norme fiscali. Ciò premesso, l’ufficio fa valere la nullità della sentenza impugnata, per motivazione apparente, in difetto dell’indicazione delle ragioni dell’accoglimento della relativa domanda della Banca (riproposta con un motivo d’appello incidentale); in subordine, critica la sentenza impugnata per non avere compiuto la necessaria verifica circa l’effettiva ed oggettiva incertezza normativa.
9.1. Il secondo e il terzo motivo sono assorbiti per effetto dell’accoglimento del primo motivo del ricorso incidentale.
10. Alla stregua delle precedenti considerazioni, accolto il quinto motivo del ricorso principale, assorbito il sesto, e rigettati gli altri, accolto il primo motivo del ricorso incidentale e assorbiti gli altri, la sentenza è cassata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il quinto motivo del ricorso principale, dichiara assorbito il sesto motivo e rigetta gli altri; accoglie il primo motivo del ricorso incidentale e dichiara assorbiti gli altri, cassa la sentenza, in relazione ai motivi accolti, rinvia alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
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