CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 05 novembre 2018, n. 28136
Lavoro – Affitto di ramo d’azienda – Insolvenza del datore di lavoro – Diritto del lavoratore di ottenere dall’Inps il pagamento del TFR – Presupposti
Fatti di causa
A.M.I., premesso di essere stata ammessa al passivo della liquidazione coatta amministrativa della Cooperativa S.A. Onlus per un credito di € 2876,42 a titolo di TFR, chiese al Tribunale di Alessandria la condanna del Fondo di garanzia dell’Inps al pagamento della predetta somma.
Il giudice adito accolse il ricorso, ma tale decisione è stata riformata dalla Corte d’appello di Torino che, accogliendo l’impugnazione dell’Inps, ha rigettato la domanda della lavoratrice osservando che quest’ultima non aveva contestato di essere passata dalla C.S.A. alla cooperativa O. a seguito di affitto del ramo d’azienda, allorché la C.S.A. era ancora in bonis, fondando la sua pretesa esclusivamente sull’avvenuta ammissione allo stato passivo. Pertanto, secondo la Corte distrettuale, la mancata deduzione in fatto ed in diritto in merito all’avvenuta cessione comportava che nulla era dato desumere circa l’adempimento dell’obbligo legale posto a carico del datore affittuario o cessionario di pagare, seppure in via solidale, il TFR, tanto più che neppure era stato affermato che tale adempimento fosse stato a suo tempo richiesto o che lo stesso non fosse stato assolto dal datore di lavoro affittuario, a nulla valendo il successivo fallimento della cooperativa O.
Per la cassazione della sentenza propone ricorso A.M.I. con due motivi, cui resiste l’Inps con controricorso, illustrato da memoria.
Ragioni della decisione
1. Col primo motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2 della legge n. 297 del 1982, mentre col secondo motivo lamenta l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 n. 5 c.p.c.).
La ricorrente assume che fu ammessa allo stato passivo, poi reso esecutivo, e che in applicazione della predetta legge chiese all’Inps – Fondo di Garanzia il pagamento di quanto dovutole per T.F.R., ma nel contempo lamenta che la Corte di merito ha disapplicato la stessa norma ritenendo che sarebbe stato suo onere quello di dimostrare l’insolvenza della cessionaria “O. 3000”, accogliendo, in tal modo, la tesi dell’Inps. Aggiunge la ricorrente che il suo rapporto di lavoro con l’affittuaria subentrante O. 3000 era cessato il 31.12.2007, per cui anche se avesse voluto sottostare alla pretesa dell’Inps non avrebbe potuto più attivarsi in tal senso, in quanto alla data del 17.10.2013, in cui l’Inps le aveva respinto la predetta istanza, il suo credito nei confronti della cessionaria O. 3000 si era ormai prescritto.
Inoltre, la Corte territoriale non aveva tenuto conto dell’intervenuto fallimento della predetta cessionaria, senza contare che l’Inps – Fondo di Garanzia avrebbe dovuto corrisponderle un importo superiore a quello inizialmente richiesto, in quanto in conseguenza dei cinque mesi di lavoro alle dipendenze della O. aveva maturato ulteriore T.F.R. e che un’azione esecutiva contro la stessa si sarebbe rivelava altamente aleatoria,
2. I due motivi, che per ragioni di connessione possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati.
In sostanza, si tratta di stabilire se l’obbligo del Fondo di garanzia di cui all’art. 2 della legge n. 297 del 1982, valutate tutte le ricadute sul sistema, possa scaturire, incondizionatamente, dalla sola ammissione al passivo della domanda del lavoratore.
La questione, ad avviso del Collegio, non può non trovare risposta nei termini indicati dalla sentenza impugnata, seppure dei precedenti di questa Corte nn. 24730 e 23258 del 2015 vanno condivise le premesse relative alla ricostruzione sistematica dell’istituto di cui all’art. 2 della legge n. 297 del 1982.
3. In particolare, deve ricordarsi che secondo il consolidato orientamento espresso da questa Corte di legittimità, cui si intende dare continuità, il diritto del lavoratore di ottenere dall’Inps, in caso d’insolvenza del datore di lavoro, la corresponsione del TFR a carico dello speciale Fondo di cui alla L. n. 297 del 1982, art. 2, ha natura di diritto di credito ad una prestazione previdenziale, ed è, perciò, distinto ed autonomo rispetto al credito vantato nei confronti del datore di lavoro (restando esclusa, pertanto, la fattispecie di obbligazione solidale), diritto che si perfeziona (non con la cessazione del rapporto di lavoro ma) al verificarsi dei presupposti previsti da detta legge (insolvenza del datore di lavoro, verifica dell’esistenza e misura del credito in sede di ammissione al passivo, ovvero all’esito di procedura esecutiva), con la conseguenza che, prima che si siano verificati tali presupposti, nessuna domanda di pagamento può essere rivolta all’Inps, e, pertanto, non può decorrere la prescrizione del diritto del lavoratore nei confronti del Fondo di garanzia” (cfr. in termini Cass. 23 luglio 2012 n. 12852 ed anche nn. 10875, 20675 del 2013; 12971 del 2014).
4. Va, tuttavia, rimarcato che gli arresti della giurisprudenza di questa Corte di legittimità appena citati non hanno mai affrontato la specifica questione appena indicata, giacché non era prospettata in tali occasioni la carenza di taluno degli elementi costitutivi della stessa fattispecie di cui all’ art. 2 della legge n. 297 del 1982, ma si discuteva della relazione giuridica esistente tra l’obbligo retributivo del datore di lavoro insolvente e l’obbligo del fondo di sostituirsi al medesimo datore di lavoro, con particolare riferimento al regime della prescrizione ed al termine iniziale del suo decorso, alla eventuale soggezione alla decadenza prevista per le prestazioni previdenziali, al regime degli atti interruttivi della prescrizione, alla disciplina degli accessori in caso di ritardo, all’eventuale regime di solidarietà esistente con il datore di lavoro al fine di fare applicazione dell’art. 1310 cod. civ. etc…
In altri termini, quella giurisprudenza ha operato un inquadramento sistematico della disciplina del Fondo di garanzia che, attraverso il riconoscimento di una finalità esclusivamente assicurativa e previdenziale funzionale alla pienezza di protezione dei lavoratori dal rischio dell’insolvenza del proprio datore di lavoro, ha avuto il merito di svincolare l’operatività del meccanismo di garanzia dal legame con i presupposti concreti delle obbligazioni retributive rimaste inadempiute a causa dell’insolvenza che, dunque, diventano l’oggetto della diversa ed autonoma prestazione previdenziale. Se questo è il senso ed il contenuto del percorso interpretativo segnato dalle citate pronunce, resta, dunque, da dimostrare che dalla natura autonoma, rispetto all’originario obbligo retributivo datoriale, e previdenziale della prestazione possa ricavarsi anche l’astrazione totale dal separato ed originario credito retributivo fino al punto che, una volta ottenuta l’ammissione ai passivo fallimentare, nulla possa più impedire l’obbligo di intervento del Fondo di garanzia.
5. Infatti, mentre è chiaro che la natura autonoma dell’obbligo di corresponsione della prestazione impedisce all’Inps di poter opporre eccezioni derivanti da ragioni interne al rapporto di lavoro che mirino a contestare esistenza ed entità dei crediti in ragione del concreto atteggiarsi delle situazioni giuridiche soggettive del lavoratore e del datore di lavoro, come costantemente affermato da questa Corte di Cassazione, non altrettanto agevole è fare derivare dall’autonomia dell’obbligazione assicurativa attribuita al Fondo anche l’effetto di totale inibizione dell’accertamento giudiziale relativo agli elementi soggettivi ed oggettivi al cui ricorrere scatta l’obbligo di tutela assicurativa e che sono interni alla stessa autonoma fattispecie previdenziale. Non può, in particolare, ad avviso del Collegio, trarsi la necessaria conseguenza che, una volta ottenuta (a torto o a ragione) l’ammissione della domanda di insinuazione al passivo, ciò determini l’impossibilità per l’INPS, quale gestore del Fondo di garanzia, di contestare la concreta operatività della regola di intervento del Fondo, incentrata sul ricorrere degli elementi previsti dalla stessa fattispecie di cui alla legge 29 maggio 1982, n. 297, art. 2, ed all’art. 2 del d.lgs. n. 82 del 1990, sulla cui autonomia si è fondata la giurisprudenza di questa Corte sopra ricordata.
6. La prima delle citate disposizioni, intitolata <Fondo di garanzia>, risulta infatti espressamente finalizzata allo < scopo di sostituirsi al datore di lavoro in caso di insolvenza del medesimo nel pagamento del trattamento di fine rapporto, di cui all’articolo 2120 del codice civile, spettante ai lavoratori o loro aventi diritto>.
Pertanto, prevede la disposizione, < trascorsi quindici giorni dal deposito dello stato passivo, reso esecutivo ai sensi dell’articolo 97 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, ovvero dopo la pubblicazione della sentenza di cui all’articolo 99 dello stesso decreto, per il caso siano state proposte opposizioni o impugnazioni riguardanti il suo credito, ovvero dalla pubblicazione della sentenza di omologazione del concordato preventivo, il lavoratore o i suoi aventi diritto possono ottenere a domanda il pagamento, a carico del fondo, del trattamento di fine rapporto di lavoro e dei relativi crediti accessori, previa detrazione delle somme eventualmente corrisposte.
7. Il richiamo all’art. 2120 cod. civ., dunque, costituisce l’oggetto dell’obbligo assicurativo pubblico mediante rinvio alla disciplina contenuta in tale disposizione e rende palese la necessità, affinché sorgano i presupposti per l’intervento del Fondo, che: a) sia venuto ad esistenza l’obbligo di pagamento del t.f.r. fissato dall’art. 2120 cod. civ. in capo a! datore di lavoro; b) egli, in tale momento, si trovi in stato di insolvenza. Dunque, sempre ai sensi del disposto dell’art. 2120 cod. civ. citato è necessario, innanzi tutto, che sia intervenuta la risoluzione del rapporto di lavoro. Ciò, non solo perché il t.f.r. non può essere preteso se non alla cessazione del rapporto di lavoro (vd. da ultimo Cass. n. 2827 del 2018), ma anche in quanto è la stessa fattispecie di cui all’art. 2 della legge n. 297 del 1982 che include la risoluzione del rapporto, espressamente, fra i presupposti di applicazione della tutela.
Recita, infatti, la citata disposizione ai successivi commi cinque e sei <Qualora il datore di lavoro, non soggetto alle disposizioni del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, non adempia, in caso di risoluzione del rapporto di lavoro, alla corresponsione del trattamento dovuto o vi adempia in misura parziale, il lavoratore o i suoi aventi diritto possono chiedere al fondo il pagamento del trattamento di fine rapporto, […] Il fondo, ove non sussista contestazione in materia, esegue il pagamento del trattamento insoluto. Quanto previsto nei commi precedenti si applica soltanto nei casi in cui <la risoluzione del rapporto di lavoro e la procedura concorsuale od esecutiva> siano intervenute successivamente all’entrata in vigore della presente legge.
8. E’, dunque, testualmente previsto che, perché si determini l’intervento del Fondo di garanzia, l’insolvenza riguardi il soggetto titolare in atto del rapporti di lavoro, il datore di lavoro cioè che è tale al momento in cui avviene la risoluzione del rapporto stesso.
E’ evidente, infatti, che la disposizione di cui al sesto comma, nello stabilire l’irretroattività della normativa introdotta, si riferisce agli elementi indefettibili della fattispecie (risoluzione del rapporto di lavoro e soggezione del datore di lavoro a procedura concorsuale) intervenuti dopo l’entrata in vigore delle disposizioni in commento.
Il dato testuale è, peraltro, coerente con l’interpretazione che delle citate disposizioni deve darsi sul più vasto piano sistematico sia sovranazionale che interno.
Quanto al diritto dell’Unione europea va, infatti, ricordato che la normativa in esame costituisce applicazione, tardiva e travagliata secondo la dottrina, nel diritto dello Stato italiano di quanto fu stabilito dalla Direttiva CE n. 987 del 1980, che concerne il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relativamente alla tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro. Tale direttiva ha voluto garantire ai lavoratori subordinati una tutela minima in caso di insolvenza del datore di lavoro. A tale scopo la direttiva ha delineato un meccanismo di tutela basato sulla creazione di specifici organismi di garanzia, che si sostituiscono al datore di lavoro per il pagamento di taluni crediti dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza di quest’ultimo. In attuazione di detta direttiva, lo Stato italiano ha adottato due testi normativi, la L. 29 maggio 1982, n. 297, che ha istituito all’art. 2, il fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto, ed il D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 80, recante l’attuazione della direttiva 80/987/CEE in materia di tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro, con il quale la garanzia è stata estesa anche alle ultime retribuzioni (artt. 1 e 2).
9. Successivamente, la disciplina del fondo di garanzia è stata integrata dal D.Lgs. 19 agosto 2005, n. 186, adottato in attuazione della direttiva del Consiglio dell’Unione Europea 2002/74/CE del 23 settembre 2002, che ha modificato il D.Lgs. n. 80 del 1992 e la L. n. 297 del 1982, regolamentando le cd. situazioni transnazionali. La direttiva 80/987 è stata poi abrogata dall’articolo 16 della direttiva 2008/94/CE, che ne riprende i principi fondamentali. Ai sensi dell’articolo 3 della direttiva 80/987: «Gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché gli organismi di garanzia assicurino, fatto salvo l’articolo 4, il pagamento dei diritti non pagati dei lavoratori subordinati, risultanti da contratti di lavoro o da rapporti di lavoro, comprese le indennità dovute ai lavoratori a seguito dello scioglimento del rapporto di lavoro, se previste dal diritto nazionale».
10. I diritti di cui l’organismo di garanzia si fa carico sono le retribuzioni non pagate corrispondenti a un periodo che si colloca prima e/o eventualmente dopo una data determinata dagli Stati membri. La giurisprudenza della Corte di giustizia, in particolare, ha costantemente affermato che la direttiva 80/987 persegue un fine sociale che consiste nel garantire una tutela minima a tutti i lavoratori subordinati a livello dell’Unione in caso di insolvenza del datore di lavoro mediante il pagamento dei crediti non pagati derivanti da contratti o da rapporti di lavoro e vertenti sulla retribuzione relativa ad un periodo determinato (v., in particolare, sentenze Maso e a., C-373/95, EU:C:1997:353, punto 56; Walcher, C-201/01, EU:C:2003:450, punto 38, nonché Turner, C-311/13, EU:C:2014:2337, punto 42).
11. In tale contesto la Corte di Giustizia ha più volte sottolineato che, per loro stessa natura, i crediti retributivi sono di enorme importanza per l’interessato (v., in particolare, sentenza Visciano, C-69/08, EU:C:2009:468, punto 44 e giurisprudenza ivi citata). Il fine sociale che sorregge la ratio dell’intervento del Fondo e circoscrive l’ambito della tutela è indicato mediante il riferimento < a crediti non pagati relativi ad un periodo determinato>, con ciò fissandosi la nozione di <bisogno socialmente rilevante> che è tale perché collocato all’interno di un ambito temporale definito.
Significativamente, in conformità agli obblighi derivanti dalla direttiva 987/80, l’art. 2 del d.lgs. n. 82 del 1990, prevede :< Il pagamento effettuato dal Fondo di garanzia ai sensi dell’art. 1 è relativo ai crediti di lavoro, diversi da quelli spettanti a titolo di trattamento di fine rapporto, inerenti gli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro rientranti nei dodici mesi che precedono: a) la data del provvedimento che determina l’apertura di una delle procedure indicate nell’art. 1, comma 1; b) la data di inizio dell’esecuzione forzata; c) la data del provvedimento di messa in liquidazione o di cessazione dell’esercizio provvisorio ovvero dell’autorizzazione alla continuazione dell’esercizio di impresa per i lavoratori che abbiano continuato a prestare attività lavorativa, ovvero la data di cessazione del rapporto di lavoro, se questa è intervenuta durante la continuazione dell’attività dell’impresa>.
12. La fattispecie in esame, secondo quanto emerge dalla sentenza impugnata e dal contenuto incontestato degli atti delle parti, si caratterizza in quanto, l’intervento del Fondo di garanzia viene richiesto successivamente allo sviluppo di una vicenda circolatoria che ha interessato l’azienda. Dunque, ciò che va accertato è la compatibilità dell’intervento del Fondo di garanzia anche laddove sia inesistente la relazione causale e temporale tra inadempimento datoriale ed insolvenza dichiarata con procedura concorsuale che costituisce l’ambito applicativo fisiologico dell’intervento del Fondo di garanzia legato allo scopo sociale della normativa europea.
Di fatto, l’intervento del medesimo Fondo finisce per riconnettersi a situazioni in cui il credito del lavoratore non è più relativo al periodo < determinato> che connota lo scopo sociale dell’obbligo di copertura assicurativa, ma viene agganciato, senza limiti temporali e prescindendo dalla attuale individuazione dei soggetti del rapporto di lavoro, ad uno degli ex datori di lavoro, interessati dalle vicende circolatorie pregresse, che viene dichiarato fallito in epoca in cui il rapporto di lavoro non è più in essere nei confronti del lavoratore istante perché proseguito con altro soggetto; dunque, l’applicazione dell’ art. 2 della legge n. 297 del 1982 e dell’art. 2 del d.lgs. n. 80 del 1992, si allontana, oltre che dalla lettera delle norme citate, dalla funzione di tutela del bisogno socialmente rilevante indicato dalla direttiva 987/80 e successive modificazioni.
Il risultato di tale interpretazione, dunque, pare porsi in contrasto con l’obbligo di interpretazione conforme che incombe sul giudice nazionale ed, in concreto, pare consentire che il Fondo di garanzia, finanziato dai contributi dei datori di lavoro e dallo Stato ( art. 2 I. n. 297/1982), possa deviare dai compiti istituzionali con possibili effetti distorsivi, vietati espressamente dallo stesso art. 2, ottavo comma, I. n. 297/1982, secondo cui < Le disponibilità del fondo di garanzia non possono in alcun modo essere utilizzate al di fuori della finalità istituzionale del fondo stesso>.
13. Una simile interpretazione, inoltre, pare non considerare che le tutele dei lavoratori, in ipotesi di trasferimento d’azienda, formano oggetto di altre specifiche previsioni di derivazione comunitaria e che la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE (Sez. VI, 28/01/2015, n. 688), interpretando i contenuti della direttiva 2001/23, ha affermato che essa < […] stabilisce la regola generale secondo cui il cessionario è vincolato ai diritti e agli obblighi che risultano da un contratto di lavoro o da un rapporto di lavoro esistente tra il lavoratore e il cedente alla data del trasferimento dell’impresa. Come risulta dalla lettera e dalla struttura dell’articolo 3 di tale direttiva, la trasmissione al cessionario degli oneri a carico del cedente al momento del trasferimento dell’impresa, in presenza di lavoratori alle dipendenze del cedente, comprende tutti i diritti di questi ultimi laddove essi non ricadano in una delle eccezioni espressamente previste dalla stessa direttiva (v., per analogia, sentenza Beckmann, C-164/00, EU:C:2002:330, punti 36 e 37). Costituiscono parte integrante di questi oneri non soltanto i salari e altri emolumenti spettanti ai lavoratori dell’impresa in questione, ma anche i contributi al regime legale di previdenza sociale a carico del cedente, in quanto derivanti da contratti o da rapporti di lavoro vincolanti per quest’ultimo. Infatti, come emerge altresì dall’articolo 2, paragrafo 1, della direttiva 2001/23, nel disciplinare le condizioni di lavoro, un contratto di lavoro o un rapporto di lavoro implicano, ai sensi della direttiva in parola, un rapporto giuridico fra i datori di lavoro e i lavoratori (sentenza Kirtruna e Vigano, EU:C:2008:574, punto 41).
14. Peraltro, la Corte di giustizia UE, sez. III, 22/06/2017, n. 126, ha chiarito, ad ulteriore conferma della integrale copertura garantita al lavoratore interessato dalla cessione della propria azienda, che in relazione all’ipotesi di accordo pre-fallimentare per prosecuzione attività di impresa ad opera di un terzo, la Direttiva 2011/23/CE del Consiglio, del 12 marzo 2001, deve essere interpretata nel senso che la tutela dei lavoratori garantita dagli artt. 3 e 4 di tale direttiva permane in una situazione in cui un’impresa sia trasferita in seguito ad una dichiarazione di fallimento nell’ambito dell’assetto preconfezionato (c.d. “pre-pack”) preparato anteriormente a detta dichiarazione e realizzato immediatamente dopo la pronuncia di fallimento, al cui interno, in particolare, un “curatore designato” nominato da un giudice esamini la possibilità di un’eventuale prosecuzione delle attività dell’impresa ad opera di un terzo e prepari azioni da svolgere subito dopo la pronuncia di fallimento per realizzare tale prosecuzione; inoltre non è rilevante, a tal riguardo, che l’obbiettivo perseguito da tale operazione di “pre-pack” miri anche a massimizzare gli introiti della cessione per l’insieme dei creditori dell’impresa in oggetto.
15. Anche guardando alle ricadute sul sistema interno, inoltre, trova conferma la necessità di non sottrarre il riconoscimento dell’obbligo di intervento del Fondo di garanzia alla verifica giudiziale. In primo luogo perché in tal modo si realizzerebbe una palese violazione dell’art. 24 Cost., inibendo ai soggetti interessati, nel caso di specie il Fondo gestito dall’INPS, il diritto alla tutela giudiziaria per preservare il corretto funzionamento del meccanismo assicurativo pubblico di garanzia in forza della semplice ammissione al passivo fallimentare della domanda del lavoratore che finirebbe per assumere una efficacia superiore a quella connessa agli effetti del decreto di approvazione dello stato passivo, il quale, necessariamente non può riguardare gli obblighi del Fondo derivanti dall’art. 2 della legge n. 297 del 1982 e dall’art. 2 del d.lgs. n. 80 del 1992, ma ha ad oggetto, esclusivamente, i diritti di credito del lavoratore ed < […] esclude la possibilità di riproporre, all’interno della detta procedura, ogni questione concernente l’esistenza del credito, la sua entità, l’efficacia del titolo da cui deriva, l’esistenza di cause di prelazione […]>. ( Cass. SS.UU.16508 del 2010).
16. Non pare, inoltre, che Cass. n.19291 del 2011 possa valere a contrastare quanto sin qui affermato perché nella detta sentenza, con riferimento all’ipotesi della cessione d’azienda, si dice sì che < il diritto al trattamento di fine rapporto ex art. 2020 cod. civ. matura progressivamente in ragione dell’accantonamento annuale>, ma si precisa anche che <l’esigibilità del credito è rinviata al momento della cessazione del rapporto>. Quindi il credito per t.f.r. non è ancora esigibile, tant’è che neppure comincia a decorrere il termine di prescrizione. Alla cessazione del rapporto il datore di lavoro cessionario risponderà per l’intero t.f.r. (in via diretta quanto alla quota di t.f.r. maturata dopo la cessione; in via solidale quanto alla quota maturata precedentemente); invece il datore di lavoro cedente risponderà solo per la quota di t.f.r. maturata prima della cessione.
17. Questa Corte di cassazione ha confermato ripetutamente tale convincimento, affermando che il diritto al trattamento di fine rapporto (TFR) sorge con la cessazione del rapporto di lavoro (Cass. n.2827/2018, del 10 ottobre 2017; Cass. Cass. n. 9695/2009) ed in quanto credito non esigibile al momento della cessione dell’azienda – quello avente ad oggetto il t.f.r. fino a quel momento maturato – non può essere ammesso al passivo del fallimento del datore di lavoro cedente. Per sostenere il contrario, si dovrebbe applicare estensivamente l’art. 1181 cod. civ. sulla decadenza dal termine: “il creditore può esigere immediatamente la prestazione se il debitore è divenuto insolvente”, ma il credito avente ad oggetto il t.f.r., maturato prima della cessazione del rapporto, non è un credito assoggettato ad un termine di esigibilità poiché la struttura della prestazione vede il decorso del tempo ed il correlato obbligo di accantonamento quali fattori costitutivi interni alla fattispecie e non quali elementi, eventuali, condizionanti soltanto il momento di esigibilità della prestazione stessa.
18. Anche, l’evoluzione legislativa che ha interessato il trattamento di fine rapporto conduce a risultati opposti alla tesi dell’esigibilità frazionata del t.f.r., dal momento che essa lo ha messo in relazione con la previdenza complementare. La Legge Finanziaria n. 296 del 2006, art. unico, commi 755 e 756, ha previsto- come è noto- il conferimento del TFR alla previdenza complementare, dunque, come segnalato da questa Corte di cassazione (Cass. n. 8228 del 2013), ormai, il T.F.R serve ad alimentare la previdenza complementare. Ai sensi di questa norme le quote di T.F.R. maturate dal primo gennaio 2007 vengono versate presso le forme pensionistiche complementari di cui al D.Lgs. 5 dicembre 2005, n. 252, ove i lavoratori manifestino detta opzione, mentre, in mancanza di opzione, nelle aziende con meno di 50 addetti, il TFR maturando resterà come prima presso i datori di lavoro, mentre nelle aziende con almeno 50 addetti, le quote di TFR non destinate alle forme pensionistiche complementari, confluiranno nell’istituito “Fondo per l’erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato dei trattamenti di fine rapporto di cui all’art. 2120 c.c.”, che è un fondo a ripartizione, gestito dall’Inps per conto dello Stato.
Peraltro, la ricordata direttiva comunitaria n. 80/987/CEE, all’articolo 8, assegna agli Stati membri anche il compito di adottare misure idonee per la tutela dei lavoratori subordinati, nel caso di insolvenza dell’impresa, in relazione ai loro diritti, maturati o in corso di maturazione, in ordine alle prestazioni di vecchiaia previste dai regimi previdenziali complementari ed anche se hanno già cessato il loro rapporto con quel datore di lavoro, vengano a trovarsi di fronte all’insolvenza dello stesso. Ciò rende, altresì, ancora più problematica la percorribilità della tesi della scomponibilità del t.f.r. anteriormente alla data di cessazione del rapporto di lavoro e, soprattutto, rende evidente come la tutela di tali diritti dei lavoratori non sia affidata al Fondo di garanzia per il pagamento dei crediti retributivi ma ad altri interventi degli Stati membri. Il nostro legislatore nazionale, in particolare, garantisce l’integrale copertura contributiva al lavoratore danneggiato dall’omissione contributiva del datore di lavoro insolvente attraverso apposito Fondo di garanzia, istituito presso l’Inps ai sensi dell’articolo 5, comma 1, decreto legislativo n. 80/1992, proprio allo scopo di assicurare specifica e idonea tutela al lavoratore danneggiato dalle ipotesi in cui il datore di lavoro non sia in grado di effettuare, in tutto o in parte, i versamenti contributivi dovuti al sistema di previdenza complementare.
19. Il Fondo è chiamato ad intervenire nel momento in cui, a causa dell’omesso o incompleto versamento dei contributi dovuti dai datore di lavoro insolvente, il lavoratore non può accedere alla correlata prestazione complementare ed interviene a copertura di: contributi del datore di lavoro, contributi del lavoratore trattenuti e non versati da parte del datore di lavoro, quote di Tfr conferite al Fondo trattenute sulla retribuzione dovuta e non versate da parte del datore di lavoro».
20. Né, tantomeno, la ricorrente censura in modo specifico la ratio decidendi sulla quale è incentrata l’impugnata sentenza. Infatti, la Corte distrettuale ha posto bene in evidenza che la lavoratrice non aveva contestato di essere passata dalla C.S.A. alla Cooperativa O. a seguito di affitto del ramo d’azienda, allorché la C.S.A. era ancora in bonis, fondando la sua pretesa esclusivamente sull’avvenuta ammissione allo stato passivo; né la lavoratrice aveva svolto deduzioni in fatto ed in diritto in merito all’avvenuta cessione, per cui nulla era dato desumere circa l’adempimento dell’obbligo legale posto a carico del datore affittuario o cessionario di pagare, seppure in via solidale, il TFR, tanto più che neppure era stato affermato che tale adempimento fosse stato a suo tempo richiesto o che lo stesso non fosse stato assolto dal datore di lavoro affittuario, così come non era stata prodotta alcuna busta paga e nemmeno risultava chiarito l’ulteriore sviluppo sulla situazione lavorativa dell’appellata.
21. In definitiva, rigettati i predetti motivi, va affermato il principio secondo cui, l’art. 2 della legge n. 297 del 1982 e l’art. 2 del d.lgs. n. 82 del 1990, si riferiscono all’ipotesi in cui sia stato dichiarato insolvente ed ammesso alle procedure concorsuali il datore di lavoro che è tale al momento in cui la domanda di insinuazione al passivo viene proposta ed, inoltre, poiché il t.f.r. diventa esigibile solo al momento della cessazione del rapporto, il fatto che (erroneamente) il credito maturato per t.f.r. fino al momento della cessione d’azienda sia stato ammesso allo stato passivo nella procedura fallimentare del datore di lavoro cedente non può vincolare l’Inps, che è estraneo alla procedura e che perciò deve poter contestare il credito per t.f.r. sostenendo che esso non sia ancora esigibile, neppure in parte, e quindi non opera ancora la garanzia dell’art. 2 l. 297/1982.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno liquidate come da dispositivo.
Ricorrono, infine, i presupposti per la condanna della ricorrente al pagamento del contributo unificato di cui all’art. 13 del d.p.r. n. 115/02 come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese nella misura di € 3700,00, di cui € 3500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.