CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 06 aprile 2018, n. 8473
Tributi – Importazioni – Dichiarazione doganale – Valore doganale della transazione – Valore economico reale della merce importata – Corrispettivi e diritti di licenza relativi alle merci da valutare che il compratore è tenuto a pagare, direttamente o indirettamente, come condizione della vendita – Addizione – Condizioni
Fatti di causa
L’Agenzia delle dogane rettificò le dichiarazioni doganali concernenti le importazioni indicate in atti perché, ai fini della determinazione del loro valore doganale, la s.r.l. P. Italia non aveva addizionato al prezzo pagato il corrispettivo che essa era tenuta a versare al titolare dei diritti immateriali dei quali era licenziataria, nella misura prevista dal relativo contratto di licenza. Con gli avvisi di rettifica l’Ufficio irrogò anche le sanzioni previste dall’art. 303, 3° comma, del testo unico delle leggi doganali.
La società impugnò gli avvisi e gli atti d’irrogazione delle sanzioni, ottenendone l’annullamento dalla Commissione tributaria provinciale di Varese.
Quella regionale ha accolto in parte l’appello dell’Ufficio, limitatamente agli avvisi in relazione ai quali risultava l’integrale pagamento dei relativi tributi e sanzioni, ma nel merito, richiamando altra sentenza, ha sostenuto che l’importo del corrispettivo del diritto di licenza debba essere incluso nel valore in dogana dei beni importati soltanto se sia lo stesso venditore o persona a lui legata ad indicare all’acquirente la necessità di eseguire il pagamento ad una terza persona, in virtù di accordi intercorsi col titolare dei diritti sul bene che ha consentito la produzione o la commercializzazione del prodotto.
Di contro, ha sottolineato il giudice d’appello, i beni oggetto delle importazioni non sono frutto di attività creativa del produttore oppure dell’utilizzo da parte di costui di una licenza a lui rilasciata da un terzo, bensì costituiscono mera esecuzione dell’ordine di realizzare prodotti conformi a modelli forniti dallo stesso committente, a sua volta autorizzato dal titolare dei diritti.
Sicché nel caso in esame, in mancanza di una relazione diretta tra venditore e produttore, non sarebbe possibile ritenere che l’ordine di pagare sia stato formulato da persona legata al venditore e che, quindi, il pagamento dei diritti di licenza sia una condizione di vendita.
A tanto il giudice d’appello ha aggiunto che l’iva relativa è stata assolta mediante il meccanismo dell’inversione contabile, di modo che è infondata anche la pretesa sorretta da questo titolo.
In base a queste considerazioni ha ritenuto assorbito l’appello incidentale proposto dalla contribuente, che verteva, tra l’altro, sulla questione preliminare data dall’affermata violazione dell’art. 12, 5° comma, della L. n. 212/00.
Contro questa sentenza propone ricorso l’Agenzia, che articola in sette motivi, cui la società replica con controricorso e ricorso incidentale, affidato a tre mezzi.
Entrambe le parti depositano memoria.
Ragioni della decisione
1.- Va preliminarmente respinta l’eccezione d’inammissibilità, che la società in controricorso riferisce all’intero ricorso e in memoria ai soli motivi secondo, terzo, quarto e quinto, in base alla considerazione che l’Agenzia tenderebbe ad ottenere la rivalutazione dei fatti.
La ricorrente non ha contestato la ricostruzione dei fatti offerta in sentenza; quel che ha contestato è l’identificazione delle nozioni giuridiche (soprattutto di quelle di “condizioni di vendita” e di “legame” fra le parti), che delineano la portata precettiva delle disposizioni unionali applicate. L’inquadramento dei fatti accertati dal giudice di merito nello schema legale corrispondente si risolve nell’applicazione di norme giuridiche e può per conseguenza formare oggetto di verifica e riscontro in sede di legittimità sia per quel che concerne la descrizione del modello tipico della fattispecie legale, sia per quanto riguarda la rilevanza qualificante degli elementi di fatto così come accertati, sia, infine, con riferimento alla individuazione delle implicazioni, sul piano degli effetti, conseguenti alla sussistenza della fattispecie concreta nel paradigma normativo (in termini, Cass., ord. 5 dicembre 2017, n. 29111).
L’Agenzia ha quindi criticato la sussunzione dei fatti come accertati nelle disposizioni di riferimento, in quanto sostiene che la fattispecie concreta è stata giudicata sotto una norma che a essa non si addice; sicché correttamente ha denunciato la violazione e falsa applicazione delle norme di seguito indicate, unitamente alla censura in ordine alla forza qualificante dei fatti accertati.
2. – Infondato è il primo motivo del ricorso principale, col quale si lamenta la nullità della sentenza impugnata perché, nonostante l’eccezione d’inammissibilità dei ricorsi introduttivi proposti contro gli avvisi nn. 17339/12, 8451/12 e 10278/12, dovuta all’integrale pagamento di relativi tributi e sanzioni, della definizione dei quali il giudice d’appello ha dato conto in motivazione, in dispositivo se ne menzionano soltanto due, tacendo della sorte dell’avviso n. 17339/12.
Si tratta, difatti, di una mera discrasia, riconoscibile come errore materiale ed emendabile con gli strumenti relativi, in quanto in motivazione la Commissione tributaria regionale ha regolato la sorte degli avvisi che non ha menzionato in dispositivo.
3.- Inammissibile è il secondo motivo del ricorso principale, col quale la ricorrente si duole, ancora ex art. 360, 1° comma, n. 4, c.p.c., della nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in quanto sostiene che il giudice d’appello abbia ignorato i documenti e gli atti di causa.
Ciò in base al principio secondo cui, in tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360, 1° comma, n. 4, c.p.c., bensì un errore di valutazione dei fatti, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360, 1° comma, n. 5, c.p.c., come riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla I. n. 134 del 2012 (da ultimo, Cass. 12 ottobre 2017, n. 23940).
4.- Col terzo, col quarto e col quinto motivo del ricorso, da esaminare congiuntamente perché connessi, l’Agenzia denuncia, ex art. 360, 1° comma, n. 3, c.p.c.:
– la violazione e falsa applicazione degli artt. 157, paragrafo 2 e 160 delle disposizioni di applicazione del codice doganale comunitario (regolamento n. 2454/93), nonché degli artt. 1362 e seguenti del codice civile e dei canoni di ermeneutica contrattuale, là dove il giudice d’appello ha sostenuto che il controllo della licenziante afferisce alla sola qualità dei prodotti e alle condizioni di lavoro (terzo motivo);
– la violazione e falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., là dove il giudice d’appello ha trascurato che le circostanze di fatto che ha esaminato sono circostanze gravi, precise e concordanti dell’esistenza del legame tra i produttori, anche in relazione al ruolo della World Cat, nonché della configurabilità del pagamento delle royalties come condizione di vendita (quarto motivo);
– la violazione e falsa applicazione dell’art. 157, paragrafo 2, lett. b) del suddetto regolamento, in quanto le modalità di calcolo e di pagamento dei diritti di licenza non rilevano ai fini dell’inclusione del relativo ammontare nel valore doganale (quinto motivo).
4.1.- La nozione coinvolta è quella del valore in dogana delle merci importate, che, di regola, è il valore di transazione, ossia il prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci quando siano vendute per l’esportazione a destinazione del territorio doganale dell’Unione, fatte salve le rettifiche da effettuare conformemente all’art. 32 di tale codice (Corte giust. 12 dicembre 2013, Christodoulou e a., causa C-116/12, punti 38, 44 e 50, nonché 21 gennaio 2016, Stretinskis, causa C-430/14, punto 15). Esso deve comunque riflettere il valore economico reale della merce importata e, quindi, considerarne tutti i fattori economicamente rilevanti (in termini, da ultimo, Corte giust. 20 dicembre 2017, causa C-529/16, Hamamatsu).
Anche i diritti di licenza, allora, sono destinati ad incidere sulla determinazione del valore doganale qualora i corrispondenti beni immateriali siano incorporati nella merce, così esprimendone o contribuendo ad esprimerne il valore economico.
Sicché, qualora il prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci importate non ne includa il relativo importo, l’art. 32 del codice doganale comunitario (reg. n. 2913/92) stabilisce che al prezzo si addizionano «…c) i corrispettivi e i diritti di licenza relativi alle merci da valutare, che il compratore è tenuto a pagare, direttamente o indirettamente, come condizione della vendita delle merci da valutare…».
4.2.- Il regolamento n. 2454/93, contenente disposizioni di attuazione del codice doganale comunitario, specifica questa regola.
In generale, esso stabilisce che «…quando si determina il valore in dogana di merci importate in conformità delle disposizioni dell’articolo 29 del codice [doganale] si deve aggiungere un corrispettivo o un diritto di licenza al prezzo effettivamente pagato o pagabile soltanto se tale pagamento:
– si riferisce alle merci oggetto della valutazione, e – costituisce una condizione di vendita delle merci in causa» (art. 157, paragrafo 2).
Occorre dunque che ricorrano tre condizioni cumulative:
– in primo luogo, che i corrispettivi o i diritti di licenza non siano stati inclusi nel prezzo effettivamente pagato o da pagare;
– in secondo luogo, che essi si riferiscano alle merci da valutare e,
– in terzo luogo, che l’acquirente sia tenuto a versare tali corrispettivi o diritti di licenza come condizione della vendita delle merci da valutare.
In particolare, con riguardo al caso in cui il diritto di licenza si riferisca a un marchio di fabbrica, ossia al diritto d’importare e di commercializzare prodotti riportanti marchi commerciali, il regolamento di attuazione specifica che il relativo importo si aggiunge al prezzo effettivamente pagato o da pagare «soltanto se: -il corrispettivo o il diritto di licenza si riferisce a merci rivendute tal quali o formanti oggetto unicamente di lavorazioni secondarie successivamente all’importazione, -le merci sono commercializzate con il marchio di fabbrica, apposto prima o dopo l’importazione, per il quale si paga il corrispettivo o il diritto di licenza, e -l’acquirente non è libero di ottenere tali merci da altri fornitori non legati al venditore (art. 159).
Sempre in particolare, per il caso in cui l’acquirente paghi un corrispettivo o un diritto di licenza a un terzo, il regolamento prescrive che «…le condizioni previste dall’articolo 157, paragrafo 2 si considerano soddisfatte solo se il venditore o una persona ad esso legata chiede all’acquirente di effettuare tale pagamento» (art. 160).
La disciplina generale fissata dal paragrafo 2 dell’art. 157, dunque, trova specificazione in quelle particolari, rispettivamente concernenti il caso in cui il diritto di licenza riguardi un marchio di fabbrica e quello in cui il corrispettivo del diritto debba essere versato ad un terzo.
E le particolarità finiscono col contrassegnare, più di ogni altra, l’identificazione delle «condizioni di vendita delle merci in causa», che devono rispondere ai presupposti rispettivamente richiesti -dinanzi richiamati- dagli artt. 159 e 160, in relazione alle ipotesi da essi contemplate.
5.- Nel caso in esame, non vi sono dubbi che ricorra la prima delle due condizioni per l’applicazione della rettifica stabilita dall’art. 32 del codice doganale comunitario.
Il giudice d’appello assume come presupposto del proprio ragionamento che si discutesse di diritti di licenza, il corrispettivo dei quali non era stato computato ai fini della determinazione del valore doganale; laddove le considerazioni di segno diverso contenute in controricorso (secondo cui i corrispettivi dovuti da Puma Italia a PUMA Ag «non si riferiscono specificamente a royalties>>) si scontrano con l’impostazione in fatto della sentenza impugnata, che non è stata aggredita.
5.1.- Ricorre altresì la seconda delle due condizioni.
La Corte di giustizia (con sentenza 9 marzo 2017, causa C- 173/15, GE Healthcare GmbH c. Hauptzollamt Diisseldorf) ha stabilito che l’art. 32, paragrafo 1, lettera c), del codice doganale non prevede che l’importo dei corrispettivi o dei diritti di licenza sia Angelina- aria o estensore determinato al momento della conclusione del contratto di licenza o al momento dell’insorgenza dell’obbligazione doganale, affinché i corrispettivi dei diritti di licenza siano considerati relativi alle merci da valutare.
Difatti, l’art. 161 del reg. n. 2454/93 fissa sì la presunzione relativa che il pagamento del corrispettivo o diritto di licenza si riferisca alle merci oggetto di valutazione quando il metodo di calcolo di esso si basa sul prezzo delle merci importate; ma aggiunge che «Tuttavia, il pagamento del corrispettivo o del diritto di licenza, può riferirsi alle merci oggetto della valutazione quando l’ammontare di tale corrispettivo o diritto di licenza venga calcolato senza tener conto del prezzo delle merci importate».
5.2.- Ininfluente è, allora, la considerazione del giudice d’appello che «…l’importo in percentuale del diritto di licenza riconosciuto a PUMA AG era ragguagliato non già al valore delle merci importate (e quindi al prezzo pagato al fornitore) ma bensì all’importo delle vendite nette e cioè al prezzo dei prodotti fatturati al cliente al momento della vendita da parte di Puma Italia». D’altronde, in una situazione simile, in cui «…l’importo dei corrispettivi o dei diritti di licenza dipende dalla percentuale del volume d’affari generato con la vendita a terzi delle merci importate in base al contratto di licenza» (punto 49 della sentenza in causa C-173/15), la Corte di giustizia ha appunto stabilito che il versamento di tali corrispettivi o diritti «si riferisce» alle merci da valutare.
In definitiva, contrariamente a quanto sostenuto dal giudice d’appello, le modalità di calcolo delle royalties non incidono sulla necessità della loro inclusione nel valore doganale, come ha successivamente esplicitato il paragrafo 1, secondo nucleo normativo, dell’art. 136 del regolamento di esecuzione n. 2015/2447/UE, a norma del quale «Il metodo di calcolo dell’importo dei corrispettivi o dei diritti di licenza non è determinante».
6.- La questione dirimente risulta, allora, quella concernente la terza condizione, data dalla configurabilità del versamento dei diritti di licenza come condizione di vendita della merce.
Né l’art. 32, paragrafo 1, lettera c), del codice doganale né l’art. 157, paragrafo 2, del regolamento n° 2454/93 precisano cosa si debba intendere per «condizione di vendita» delle merci da valutare.
A riempire la lacuna soccorre l’interpretazione che della disciplina ha fornito la Corte di giustizia.
La Corte di giustizia, con la sentenza dinanzi indicata, ha stabilito, facendo leva sul punto 12 del commento n. 3 del comitato del codice doganale (sezione del valore in dogana) relativo all’incidenza dei corrispettivi e dei diritti di licenza sul valore in dogana, che l’identificazione della condizione di vendita si traduce nella verifica se il venditore sia disposto, o no, a vendere le merci senza che sia pagato il corrispettivo del diritto di licenza.
In generale, dunque, il pagamento in questione è una «condizione di vendita» delle merci da valutare qualora, nell’ambito dei rapporti contrattuali tra il venditore -o la persona ad esso legata- e l’acquirente, l’assolvimento del corrispettivo del diritto di licenza rivesta un’importanza tale per il venditore che, in difetto, quest’ultimo non sarebbe disposto a vendere.
6.1.- Nel caso in esame, peraltro, ricorrono i presupposti di applicazione di entrambe le discipline particolari contemplate dagli artt. 159 e 160 del reg. n. 2454/93.
Per un verso, i diritti di licenza si riferiscono difatti anche ai marchi di fabbrica; per altro verso, la loro corresponsione spetta ad un soggetto diverso dal venditore. Ed è irrilevante che tale soggetto non sia qualificato come terzo: è difatti sufficiente per l’identificazione delle “condizioni di vendita”, com’è specificato nel punto 67 della sentenza dinanzi indicata, che il pagamento dei corrispettivi dei diritti di licenza sia richiesto all’acquirente da «una persona legata al venditore».
Occorre dunque verificare la sussistenza di un legame, diretto o indiretto, tra il fornitore asiatico della licenziataria P.I. e la P. AG, titolare del diritto di licenza e la sua forza.
Occorre cioè, come ha chiarito la Corte di giustizia (in causa C- 173/15, punto 68), «verificare se la persona legata al venditore eserciti un controllo, sul medesimo o sull’acquirente, tale da poter garantire che l’importazione delle merci, assoggettate al suo diritto di licenza, sia subordinata al versamento, a suo favore, del corrispettivo o del diritto di licenza ad esse afferente».
6.2.- Sul punto, l’allegato 23 delle DAC – Note interpretative in materia di valore in dogana all’articolo 143, paragrafo 1, lettera e) (a norma del quale due o più persone sono considerate legate se l’una controlla direttamente o indirettamente l’altra), stabilisce che «si considera che una persona ne controlli un’altra quando la prima sia in grado di esercitare, di diritto o di fatto, un potere di costrizione o di orientamento sulla seconda».
Il controllo è dunque inteso in un’accezione ampia: da un lato, sul piano della fattispecie, perché è assunto per la sua rilevanza anche di fatto; dall’altro, su quello degli effetti, perché ci si contenta dell’effetto di “orientamento” del soggetto controllato.
Quest’accezione ampia e necessariamente casistica, d’altronde, ben si coordina con la nozione economica del valore doganale, la quale si traduce nel rilievo, anch’esso di fatto, degli elementi che definiscono il valore economico del bene.
6.3.- Utili indicatori possono essere tratti dall’esemplificazione presente nel Commento n. 11 del Comitato del codice doganale (Sezione del valore in dogana) contenuto nel documento TAXUD/800/2002, nella versione italiana del 2007, sull’applicazione dell’art. 32, paragrafo 1, lettera c), del codice doganale (ormai parte dell’acquis communautaire, ossia del diritto materiale dell’Unione, con valore di soft law): queste indicazioni, ha precisato la Corte di giustizia in causa C-173/15, punto 45, «sebbene non giuridicamente cogenti, costituiscono tuttavia strumenti importanti per garantire un’uniforme applicazione del codice doganale da parte delle autorità doganali degli Stati membri e possono, quindi, essere di per sé considerate strumenti validi per l’interpretazione di detto codice».
Ebbene, il documento in questione annovera, tra gli elementi utili per determinare la presenza di un controllo, tra gli altri, i seguenti:
– il licenziante sceglie il produttore e lo impone all’acquirente;
– il licenziante esercita, direttamente o indirettamente, un controllo di fatto sulla produzione (per quanto attiene ai centri di produzione e/o ai metodi di produzione);
– il licenziante esercita, direttamente o indirettamente, un controllo di fatto sulla logistica e sulla consegna delle merci all’acquirente;
– il licenziante decide a chi il produttore può vendere le merci o impone delle restrizioni per quanto concerne i potenziali acquirenti;
– il licenziante fissa le condizioni del prezzo al quale il produttore/venditore vende le proprie merci o il prezzo al quale l’importatore/l’acquirente rivende le merci;
– il licenziante sceglie i metodi di produzione da utilizzare/fornisce dei modelli ecc.
– il licenziante sceglie/limita i fornitori dei materiali/componenti;
– il licenziante limita le quantità che il produttore può produrre;
– il licenziante non autorizza l’acquirente a comprare direttamente dal produttore, ma attraverso il titolare del marchio (licenziante) che potrebbe agire anche come agente di acquisto dell’importatore;
– il produttore non è autorizzato a produrre prodotti concorrenti (privi di licenza) in assenza del consenso del licenziante;
– le merci fabbricate sono specifiche del licenziante (cioè nella loro concezione/ne/loro design e con riguardo al marchio di fabbrica);
– le caratteristiche delle merci e la tecnologia utilizzata sono definite dal licenziante.
6.4.- Più d’uno di tali indicatori ricorrono nell’ipotesi in esame.
Si legge difatti in sentenza che la s.r.l. P.I. è società controllata dalla P. AG e che, in virtù dell’accordo stipulato da queste due società, peraltro testualmente riportato nel ricorso, col quale la prima ha ricevuto dalla seconda la concessione in licenza di marchi e modelli, P.I. può fabbricare o far fabbricare, ma previa approvazione scritta di P. AG, e in base alla disciplina, prevista per contratto, della scelta dei fornitori, i prodotti in licenza che portano i marchi in licenza.
Per tutti i prodotti in licenza fabbricati da o per la licenziataria e da questa venduti, a P. AG spetta una royalty, pari al 7,5% delle vendite nette realizzate.
A sua volta P.I. s.r.l. ha stipulato con W.C. Limited, anch’essa controllata da P. AG, un contratto di agenzia in virtù del quale l’agente l’avrebbe assistita nella scelta dei fabbricanti dei prodotti. Difatti, la contribuente ha stipulato tramite il suo agente contratti con società dei paesi asiatici per la produzione dei beni oggetto della licenza di marchi e modelli di P. AG.
In definitiva, risulta in fatto che P. AG:
– controlla la scelta dei fabbricanti, in quanto ne disciplina la selezione;
– pretende la corresponsione del compenso per tutti i prodotti in licenza fabbricati da o per la licenziataria e da questa venduti;
– controlla sia la licenziataria, sia l’agente che la coadiuva nella scelta dei fabbricanti e nelle operazioni di vendita.
L’intera operazione risulta quindi conformata dalla licenziante P. AG, che incide in maniera determinante sulla individuazione dei fornitori, sia in virtù delle pattuizioni del contratto di licenza, sia per mezzo dell’operato dell’agente di vendita, che stipula sì il contratto di agenzia con la controllata P.I., ma che è a propria volta integralmente controllato dalla licenziante.
In base agli stessi elementi valorizzati in sentenza, allora:
– i fornitori asiatici non possono che rispondere ai parametri e al gradimento della licenziante;
– la licenziataria non può che acquistare dai fornitori selezionati con l’ausilio dell’agente di vendita, che rispondano al gradimento della licenziante;
– gli acquisti riguardano i prodotti in licenza, che portano i marchi in licenza: il che significa che si tratta di prodotti destinati ad essere “rivenduti tal quali” con l’apposizione del marchio di fabbrica;
– per tutti i prodotti in licenza con i marchi in licenza poi venduti la licenziataria deve versare i corrispettivi dei diritti relativi alla licenziante.
6.5.- La connessione dei fattori in questione deriva dalle regole di esperienza proprie del rapporto di licenza.
Questo rapporto è difatti di norma connotato da penetranti poteri di controllo del titolare del marchio sul licenziatario al fine di garantire che tutti i prodotti contrassegnati dal medesimo segno distintivo siano omogenei e funzionali (come si evince, d’altronde, anche dall’art. 8, sia pure di natura dispositiva, della direttiva n. 2008/95/CE sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa, ratione temporis applicabile).
Il contratto di licenza, che pur sempre mira a salvaguardare le prerogative del licenziante, solitamente comporta di per sé che i terzi individuati per la produzione non possano immettere liberamente i prodotti sul mercato, ma debbano ritrasferirli ai distributori designati dal licenziante, ossia ai licenziatari, i quali corrispondono a costui i diritti di licenza.
Risponde quindi a una massima di comune esperienza, l’applicazione della quale non è contrastata, nel caso in esame, da elementi di segno contrario, che il titolare del marchio e dei modelli riesca a controllare tutta la filiera produttiva e distributiva, massimizzando il profitto che ne deriva.
Se la P. AG non fosse stata in grado di controllare il produttore asiatico, nell’accezione stabilita dall’art. 143, lett. e) del regolamento n. 2454/93 e dall’allegato 23 sopra indicato, costui sarebbe stato libero di vendere i prodotti in licenza, recanti i marchi in licenza, direttamente o indirettamente ai distributori, e la società titolare dei beni immateriali non avrebbe incassato le relative royalties.
6.6.- La ricostruzione della disciplina applicabile, operata in base alle indicazioni della Corte di giustizia, è di evidenza tale, da rendere ultronea la proposizione di ulteriori questioni pregiudiziali, che le parti in senso speculare hanno sollecitato.
Né può condurre a diverse conclusioni la circostanza, evidenziata in memoria dalla società, che in altri Paesi membri si sia giunti a diverse conclusioni: la circostanza pare involgere, più che un problema di difforme interpretazione del diritto unionale, il problema della sua difforme applicazione (per analoghe considerazioni, vedi Cass. 27 marzo 2013, n. 7717).
6.7.- Infine, in relazione alle violazioni della libertà di concorrenza prospettate nel corso della discussione dalla società, basti la considerazione che, al contrario, sarebbe proprio l’assoggettamento di prodotti fabbricati in base a modelli oggetto di licenza e recanti marchi parimenti in licenza, di norma particolarmente appetibili nel mercato, a diritti doganali calcolati allo stesso modo in cui sono calcolati quelli riferiti a prodotti che non abbiano quelle caratteristiche a rischiare di falsare la concorrenza nel mercato interno, giacché si tradurrebbe nell’assicurare ai prodotti un vantaggio ulteriore.
6.8.- In definitiva, nel caso in esame va applicato l’art. 157, paragrafo 2, del regolamento n. 2454/93.
Sicché i motivi vanno accolti, in quanto la sentenza impugnata si pone al riguardo in contrasto con tale norma, così come ricostruita nella sua portata.
6.9.- Ne segue l’affermazione del seguente principio di diritto:
“In tema di diritti doganali, ai fini della determinazione del valore in dogana di prodotti che siano stati fabbricati in base a modelli e con marchi oggetto di contratto di licenza e che siano importati dalla licenziataria, il corrispettivo dei diritti di licenza va aggiunto al valore di transazione, a norma dell’art. 32 del regolamento CEE del Consiglio 12 ottobre 1992, n. 2913, come attuato dagli artt. 157, 159 e 160 del regolamento CEE della Commissione 2 luglio 1993, n. 2454, qualora il titolare dei diritti immateriali sia dotato di poteri di controllo sulla scelta del produttore e sulla sua attività e sia il destinatario dei corrispettivi dei diritti di licenza”.
7.- Fondato, nei limiti che seguono, è altresì il sesto motivo del ricorso principale, col quale l’Agenzia lamenta, ex art. 360, 1° comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 34 del d.P.R. n. 43/73, degli artt. 69 e 70 del d.P.R. n. 633/72, nonché degli artt. 2786 e seguenti c.c.
La ricorrente sostiene anzitutto che l’obbligazione doganale sia costituita dai dazi e dall’Iva, che formerebbero un unicum inscindibile.
Correttamente la società obietta in controricorso che l’Iva all’importazione non può essere assimilata al dazio, per la sua natura di tributo interno.
7.1. Il sistema dell’Iva alle importazioni è difatti per sua natura incardinato in quello generale dell’Iva: l’Iva all’importazione non colpisce esclusivamente il prodotto importato in quanto tale, ma s’inserisce nel sistema fiscale uniforme dell’Iva, che colpisce sistematicamente e secondo criteri obiettivi sia le operazioni degli Stati membri, sia quelle all’importazione (Corte giust. 17 luglio 2014, causa C-272/13, Equoland; 25 febbraio 1988, causa C- 299/86, Rainer Drexl, punto 9; 5 maggio 1982, causa C-15/81, Schul, punto 21). Sicché essa può essere assolta mediante il meccanismo contabile del reverse charge, che non configura di per sé un congegno elusivo o frodatorio, ma un utile modo di assolvimento dell’Iva all’importazione (tra varie, nella giurisprudenza interna, Cass. 28 settembre 2016, n. 19098).
7.2.- L’Iva all’importazione condivide, peraltro, con i dazi la caratteristica di trarre origine dal fatto dell’importazione nell’Unione e della susseguente introduzione nel circuito economico degli Stati membri (Corte giust. 11 luglio 2013, in causa C-272/12, Harry Winston SA, punto 41), con la conseguenza che fatto generatore ed esigibilità dell’Iva all’importazione sono collegati a quelli dei dazi, pur rimanendo da questi distinti.
La qualificazione dei diritti di licenza come condizioni di vendita non può, allora, che riverberarsi sulla base imponibile dell’Iva, che l’art. 69 del d.P.R. n. 633/72 ragguaglia al «…valore dei beni importati determinato ai sensi delle disposizioni in materia doganale, aumentato dell’ammontare dei diritti doganali dovuti…».
Questa Corte ha difatti al riguardo già avuto modo di chiarire (per tutte, vedi Cass., ord. 29 luglio 2015, n. 15988 e 5 agosto 2016, n. 16506) che l’Iva all’importazione e l’Iva intracomunitaria sono la medesima imposta, come del resto la stessa società riconosce in controricorso; soltanto, l’Iva intracomunitaria è segnata da specificità procedimentali e sanzionatorie, correlate al meccanismo dell’importazione:
– sul piano procedimentale, l’Iva alle importazioni va versata per effetto ed in occasione di ciascuna importazione (giusta l’art. 70 del d.P.R. n. 633/72), al momento dell’accettazione della dichiarazione in dogana ed il relativo obbligo incombe sul dichiarante, oltre che, in caso di rappresentanza indiretta, sulla persona per conto della quale è presentata la dichiarazione in dogana (art. 201 del reg. n. 2913/92); l’Iva “intracomunitaria” relativa alle merci introdotte nel deposito va assolta al momento dell’estrazione mediante il meccanismo dell’inversione contabile ed a cura del cessionario o committente;
– su quello sanzionatorio, l’applicabilità, in caso di violazioni concernenti l’Iva all’importazione, delle sanzioni contemplate dalle leggi doganali relative ai diritti di confine (art. 70, 1° comma, secondo nucleo normativo) è giustificata dalla diversità degli elementi costitutivi dell’infrazione (l’Iva è riscossa all’atto dell’ingresso fisico del bene nel territorio dello Stato membro interessato, indipendentemente dallo scambio), che determina maggiore difficoltà a scoprirla (Corte giust. in causa C-299/86, punto 22).
7.3.- Nel caso in esame, si legge nella sentenza impugnata che «…come risulta dalla stessa documentazione prodotta dall’appellante l’obbligo tributario è stato assolto dalla P.I. col sistema del reverse charge».
Questo accertamento comporta l’inammissibilità della deduzione contenuta in ricorso concernente l’omessa dimostrazione da parte della società dell’applicazione dell’inversione contabile.
L’accertato assolvimento mediante inversione contabile dell’Iva intracomunitaria elide la pretesa impositiva corrispondente; ma non elide la maggiore pretesa concernente la maggiore Iva scaturente dalla base imponibile aumentata dell’importo dei corrispettivi dei diritti di licenza.
Ne consegue l’irrilevanza della proposizione della ulteriore questione pregiudiziale prospettata in memoria dalla società, che trova risposta in Corte giust. 17 luglio 2014, causa C-272/13, Equoland, secondo cui la sesta direttiva 77/388, come modificata dalla direttiva 2006/18, deve essere interpretata nel senso che, conformemente al principio di neutralità dell’Iva, essa osta ad una normativa nazionale in forza della quale uno stato membro richiede il pagamento dell’Iva all’importazione sebbene la medesima sia già stata regolarizzata nell’ambito del meccanismo dell’inversione contabile, mediante un’autofatturazione e una registrazione nel registro degli acquisti e delle vendite del soggetto passivo.
8.- Ne deriva l’accoglimento altresì dell’ultimo motivo del ricorso principale, col quale l’Agenzia si duole della violazione e falsa applicazione degli artt. 303 del d.P.R. n. 43/73 e dell’art. 70 del d.P.R. n. 633/72, là dove il giudice d’appello ha annullato gli atti di contestazione delle sanzioni come conseguenza dell’annullamento degli avvisi di rettifica.
8.1.- L’accoglimento dei motivi dinanzi indicati comporta la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, perché riesamini la pretesa a titolo di Iva, nonché quella sanzionatoria.
9.- Inammissibile è il ricorso incidentale, in tutti i motivi nei quali esso è articolato.
I motivi riguardano difatti questioni ritenute assorbite dal giudice d’appello.
Sicché va applicato il principio in base al quale è inammissibile per carenza di interesse il ricorso incidentale condizionato allorché proponga censure che non sono dirette contro una statuizione della sentenza di merito bensì a questioni su cui il giudice di appello non si è pronunciato ritenendole assorbite, atteso che in relazione a tali questioni manca la soccombenza che costituisce il presupposto dell’impugnazione, salva la facoltà di riproporre le questioni medesime al giudice del rinvio, in caso di annullamento della sentenza (tra varie, Cass. 22 settembre 2017, n. 22095; in motivazione, sez. un., 23 novembre 2015, n. 23833).
10.- In definitiva, la sentenza impugnata va cassata in relazione ai profili accolti, con rinvio, anche per l’esame delle questioni rimaste assorbite delle quali dà conto la società in controricorso e per la regolazione delle spese, alla Commissione tributaria regionale della Lombardia in diversa composizione.
P.Q.M.
Accoglie il terzo, il quarto, il quinto, il sesto, nei limiti di cui in motivazione, e il settimo motivo del ricorso principale, assorbito il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata per i profili accolti e rinvia, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale della Lombardia in diversa composizione.
Rigetta nel resto il ricorso principale.
Possono essere interessanti anche le seguenti pubblicazioni:
- CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 31 maggio 2019, n. 14994 - In tema di diritti doganali, ai fini della determinazione del valore in dogana di prodotti che siano stati fabbricati in base a modelli e con marchi oggetto di contratto di licenza e che siano…
- CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 05 giugno 2020, n. 10685 - Il valore in dogana delle merci importate è, di regola, il valore di transazione, ossia il prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci quando siano vendute per l'esportazione a…
- CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 19 novembre 2019, n. 29987 - Diritti doganali, per la base imponibile al prezzo effettivamente pagato o da pagare devono essere aggiunti i corrispettivi o diritti di licenza soltanto nel caso in cui tale pagamento, da un…
- Corte di Cassazione sentenza n. 20078 del 22 giugno 2022 - In tema di esportazioni al di fuori del territorio dell'Ue in regime di non imponibilità, è necessario che la destinazione dei beni all'esportazione sia documentata con mezzi di prova certi e…
- MINISTERO FINANZE - Decreto ministeriale 01 febbraio 2024 Modalità di utilizzo dei dati fiscali relativi ai corrispettivi trasmessi al Sistema tessera sanitaria Art. 1 Definizioni 1. Ai fini del presente decreto si intende per: a) «dati fiscali», i…
- CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 04 giugno 2019, n. 15210 - I diritti di licenza possono essere ricompresi nel valore di transazione a termini dell'art. 32, par. 1, lett. c) Regolamento (CEE) 12 ottobre 1992, n. 2913 (CDC) e dell'art. 157 Regolamento…
RICERCA NEL SITO
NEWSLETTER
ARTICOLI RECENTI
- Il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno
La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con l’ordinanza n. 10267 depositat…
- L’Iva detratta e stornata non costituisce elusione
L’Iva detratta e stornata non costituisce elusione, infatti il risparmio fiscale…
- Spese di sponsorizzazione sono deducibili per pres
La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con l’ordinanza n. 6079 deposi…
- E illegittimo il licenziamento del dipendente in m
La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con l’ordinanza n. 8381 depositata…
- Illegittimo il licenziamento per inidoneità fisica
La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con l’ordinanza n. 9937 depositata…