CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 06 febbraio 2019, n. 3470
Rapporto di agenzia – Cessazione del rapporto ex art. 1751 c.c. – Pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso – Calcolo
Fatti di causa
1. Con sentenza n. 144/2014, pubblicata il 25 marzo 2014, la Corte di appello di Brescia ha confermato la sentenza di primo grado nella parte in cui il Tribunale della medesima sede aveva ritenuto che il rapporto di agenzia tra la FAB S.p.A. e F. P. si fosse risolto per iniziativa di quest’ultimo, all’esito di un’accesa discussione avvenuta il 3/10/2007 con il legale rappresentante della società, con conseguente rigetto delle domande del ricorrente aventi ad oggetto la condanna al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso e dell’indennità di cessazione del rapporto ex art. 1751 cod. civ., nonché al risarcimento dei danni ai sensi della comma 4° della stessa disposizione.
2. La Corte ha invece riformato la sentenza di primo grado nella parte in cui il Tribunale di Brescia aveva determinato il credito in linea capitale della società preponente in euro 28.840,28 quale differenza tra l’ammontare dell’indennità sostitutiva del preavviso alla stessa spettante e l’ammontare delle provvigioni maturate dall’agente, anziché nella minor somma di euro 25.526,36, rilevando come fosse condivisibile la decisione del primo giudice di utilizzare il primo dei due metodi di calcolo indicati dal C.T.U. e cioè quello che teneva conto del compenso fisso (c.d. minimo garantito) per dieci mesi, invece che per l’intero anno 2007, e che quantificava, sulla base del medesimo parametro temporale, anche il compenso percentuale maturato dall’agente superando il target di vendita: metodo ritenuto dalla Corte di appello corrispondente alla volontà delle parti, come risultante dall’art. 11 del contratto, e cioè della volontà intesa a tener conto, con la previsione di un c.d. minimo garantito, della necessità per l’agente di affrontare le spese connesse allo svolgimento dell’incarico.
3. Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza il P. con cinque motivi, cui ha resistito la società con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo, mediante denuncia di violazione ed errata applicazione degli artt. 1362 ss. cod. civ., il ricorrente censura la parte di motivazione della sentenza impugnata in cui la Corte di appello ha ritenuto più corretto il primo sistema di calcolo applicato dal consulente d’ufficio ed irrazionale, a fronte di un rapporto cessato nel mese di ottobre, il computo del compenso fisso (c.d. minimo garantito) per l’intero anno, peraltro fondando tale conclusione su di un piano di pura razionalità anziché sulla volontà delle parti e senza tener conto né della lettera del contratto (che non aveva previsto limitazioni di carattere temporale) né degli effetti sperequativi che si sarebbero creati a favore della preponente con l’interpretazione accolta.
2. Con il secondo motivo viene dedotta la violazione ed errata applicazione degli artt. 2697, 2119 cod. civ. e 116 cod. proc. civ. per avere Ila sentenza ritenuto che fosse onere dell’agente provare che il rapporto era stato risolto dalla società, sebbene nella specie, a seguito dell’intervenuto allontanamento forzoso dal luogo di lavoro, egli fosse unicamente tenuto a dimostrare il fatto della estromissione, spettando alla controparte, che lo aveva eccepito, l’onere probatorio di un allontanamento volontario; ed inoltre per avere ritenuto dimostrata la volontà dell’agente di porre fine al rapporto, pur in difetto di elementi che ne comprovassero l’univoca manifestazione.
3. Con il terzo, il quarto e il quinto motivo di ricorso viene dedotto il vizio di omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione con riferimento alla valutazione delle prove testimoniali e in particolare delle dichiarazioni rese dalle ex dipendenti C. e Z. (3°), alla valutazione di inattendibilità dei testi della società (4°), alla valutazione del contesto, nel quale si era verificato l’episodio del 3 ottobre 2007.
4. Il ricorso deve essere respinto.
5. Quanto al primo motivo, si rileva anzitutto come il ricorrente, nel dedurre la violazione delle regole di ermeneutica, di cui agli artt. 1362 ss. cod. civ., in relazione alla clausola contrattuale contenente la previsione e disciplina del compenso fisso spettante all’agente, non si sia uniformato al consolidato principio di diritto, secondo il quale “il ricorrente che, in sede di legittimità, denunci l’erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito ha l’onere, a pena di inammissibilità del motivo di censura, di riprodurre nel ricorso, in osservanza del principio di autosufficienza del medesimo, il documento nella sua integrità” (Cass. n. 14973/2006 e successive numerose conformi).
6. D’altra parte, è parimenti consolidato nella giurisprudenza di questa Corte il principio, secondo il quale “la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 e ss. cod. civ., avendo invece l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra” (Cass. n. 28319/2017; conforme, fra le più recenti, Cass. n. 16987/2018).
7. Il secondo motivo è infondato, là dove è ascritta al giudice di appello una insussistente inversione dell’onere della prova, atteso che, avendo il ricorrente agito in giudizio per ottenere la condanna della società al pagamento della indennità sostitutiva del preavviso, era a suo carico la dimostrazione che il rapporto di agenzia si era risolto in conseguenza dell’avvenuto recesso in tronco della società, quale fatto costitutivo del diritto azionato, non rilevando in senso diverso, perché operante sul piano delle mere difese, la deduzione della società di un recesso dipendente da fatto e colpa dell’agente.
8. Il motivo in esame risulta poi inammissibile là dove censura la sentenza impugnata per essere giunta alle proprie conclusioni in difetto di uri supporto probatorio univocamente idoneo, risolvendosi per questa parte, con evidenza, dietro lo schermo della denuncia del vizio di cui all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., nell’invito ad una rivisitazione del materiale di prova acquisito al giudizio e cioè all’esercizio di una funzione che è estranea al ruolo assegnato a questa Corte e che è invece propria del giudice di merito.
9. I restanti motivi di ricorso, da esaminarsi congiuntamente in quanto connessi per la comune deduzione del vizio di “omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione”, sono palesemente inammissibili.
10. Al riguardo, e in primo luogo, si osserva che si è nella specie – a fronte di giudizio di secondo grado introdotto con ricorso depositato in data posteriore all’11/9/2012 – in presenza di “doppia conforme” (sull’accertamento concernente l’imputabilità del recesso all’agente e non alla società) preclusiva della deduzione del vizio di cui all’art. 360 n. 5.
11. E’ inoltre da osservare come la denuncia di una motivazione omessa, insufficiente o contraddittoria, quale presente in tutti i motivi ora in esame, non si conformi al modello legale del nuovo vizio “motivazionale”, nella riformulazione dell’art. 360 n. 5 conseguente alla riforma del 2012.
12. Al riguardo, le Sezioni Unite di questa Corte, con le sentenze n. 8053 e n. 8054 del 2014, hanno precisato che l’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., come risultante a seguito dei recenti interventi, “introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia)”; con la conseguenza che “nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6 e 369, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie“.
13. E’ peraltro da rilevare che, anche nel regime previgente, era del tutto consolidato il principio, per il quale “la valutazione delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata” (Cass. n. 21412/2006).
14. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
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