CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 06 giugno 2019, n. 15321
Tributi – Accertamento induttivo del reddito d’impresa – Credito ingente dei soci nei confronti della società – Rinunzia al credito senza valida giustificazione – Abuso del diritto – Sopravvenienza tassabile – Cessione di immobile – Ricavi non dichiarati – Operazione antieconomica – Onere di prova contraria a carico del contribuente
Fatti di causa
1. – La F. s.r.l. proponeva ricorso avverso l’avviso di accertamento n. R7J03T400695 con cui l’Agenzia delle Entrate di Ferrara, rifacendosi alle risultanze del processo verbale di contestazione del 19 febbraio 2008 redatto da suoi funzionari, le aveva contestato la mancata dichiarazione di sopravvenienze attive per € 750.000, la mancata dichiarazione di ricavi derivanti da sublocazione per € 7.521,00 e dalla vendita di un immobile per € 75.100,52, nonché l’indebita deduzione di alcuni componenti negativi per complessivi € 2.026,33, così determinando le maggiori imposte dovute in € 263.048,00 per l’Ires, € 3.623,00 per l’Irap ed € 3.209,00 per l’iva, irrogando la sanzione di € 273.089,00.
L’Agenzia delle Entrate, nel costituirsi in giudizio, contestava le doglianze di parte.
Con sentenza n. 125/2009, la Commissione provinciale tributaria di Ferrara accoglieva il ricorso limitatamente ai rilievi della mancata dichiarazione di ricavi e dell’indebita deduzione di costi, respingendolo quanto al rilievo della mancata dichiarazione di sopravvenienze attive e compensava le spese del giudizio.
2. – La Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia- Romagna, con sentenza n. 23/2011, ha respinto sia l’appello principale della contribuente sia l’appello incidentale dell’Agenzia delle entrate, confermando la sentenza di prime cure.
3. – La contribuente ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi.
L’Agenzia delle entrate si è costituita con controricorso e ha proposto un ricorso incidentale.
Ragioni della decisione
1. – Con il primo motivo di ricorso si prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 88, comma 4, T.U.I.R.(art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.). La Commissione tributaria regionale, secondo quanto dedotto, ha negato l’applicazione dell’art. 88, comma 4, T.U.I.R. al caso di specie sulla base della considerazione che il comportamento dei soci rinunzianti sarebbe privo di razionale giustificazione economica poiché essi si sono spogliati di un ingente credito senza vantaggio alcuno.
Parte ricorrente, al riguardo, evidenzia che l’applicazione dell’art. 88, comma 4, T.U.I.R. dipende dal fatto oggettivo rappresentato dalla rinunzia a un credito pecuniario effettivamente vantato dal socio nei confronti della società, essendo totalmente irrilevanti le ragioni per cui il socio provvede a tale rinunzia ed essendo, altresì, irrilevante la circostanza se a tale rinunzia corrisponda o meno nei confronti del socio un effetto per lui direttamente favorevole. La norma, sul punto, dà rilievo esclusivamente all’esistenza di un credito del socio nei confronti della società e all’effettività della rinuncia, circostanze che non sono poste in discussione nel caso di specie, per cui il giudice del gravame avrebbe dovuto riconoscere il beneficio previsto dall’art. 88, comma 4, T.U.I.R.
Con il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 41 e 53 Cost., in rapporto agli artt. 1322, 1344, 1414 e 1415 c.c. (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.).
La ricorrente contesta sul punto un’erronea applicazione dell’istituto dell’abuso del diritto, cui la Commissione tributaria regionale avrebbe implicitamente fatto riferimento allorquando ha individuato nella rinunzia al credito un’operazione elusiva, sottolineando che, nel caso di specie, nessun indebito vantaggio fiscale ha conseguito la La F. s.r.l. per effetto della rinuncia ai crediti vantati nei suoi confronti dai soci B. e V., poiché il vantaggio della non imponibilità della relativa sopravvenienza attiva è specificamente previsto e voluto dall’art. 88, comma 4, T.U.I.R. e, dunque, si pone come conseguenza fisiologica dell’operazione di rinuncia. In questo modo, si pretende di negare alla società un beneficio previsto dalla legge in conseguenza di un presunto comportamento antieconomico riferito ai soci rinunzianti, soggetti cui è completamente estraneo l’effetto agevolativo.
Non sussiste, pertanto, nessun comportamento antieconomico tenuto dalla società, la quale ha correttamente fruito della rinunzia dei soci ai crediti vantati nei suoi confronti, eliminando una posta di debito e incrementando il proprio patrimonio netto. Per tal modo si sono linearmente realizzate nei suoi confronti tutte le condizioni richieste per l’applicazione dell’agevolazione.
1.1. – I primi due motivi, da trattarsi congiuntamente in quanto strettamente collegati, sono infondati.
In materia tributaria, è principio consolidato di questa Corte che il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione normativa, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione (Cass. 13 luglio 2018, n. 18632).
Costituisce dunque condotta abusiva l’operazione economica che abbia quale suo elemento predominante e assorbente lo scopo di eludere il fisco, incombendo, peraltro, sull’Amministrazione finanziaria la prova sia del disegno elusivo sia delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale, mentre grava sul contribuente l’onere di allegare l’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino operazioni in quel modo strutturate (Cass. 20 giugno 2018, n. 16217 che, nella specie, ha cassato la sentenza impugnata che, senza valorizzare i diversi elementi sintomatici della sussistenza dell’abuso allegati dall’Agenzia delle entrate né affrontare le concrete ricadute dell’operazione medesima ed erroneamente configurando un risparmio fiscale solo potenziale e futuro, aveva ritenuto non elusiva la complessa operazione negoziale tra società controllate, contraddistinta dalla rinuncia ad un credito della controllante verso la controllata, con conseguente sterilizzazione, ad opera di quest’ultima, della sopravvenienza attiva, ex art. 55 T.U.I.R.; Cass. 28 febbraio 2017, n. 5090).
Nel caso di specie, come correttamente evidenziato nella pronuncia impugnata – pur senza richiamare espressamente l’istituto dell’abuso del diritto – il B. e la consorte hanno rinunciato a un ingente credito nei confronti della società senza alcun vantaggio effettivo e nell’esercizio successivo sono usciti dalla società cedendo le loro quote ad un prezzo non congruo rispetto al loro valore, senza conseguire alcun ritorno economico. Come apprezzato nel giudizio di merito si è trattato di un’operazione antieconomica, priva di razionalità, le cui conseguenze sono andate a vantaggio della società ricorrente e, a fronte di tali elementi, non è stata fornita alcuna giustificazione da parte del contribuente, con ciò lasciando intendere che l’unica finalità era quella del fine elusivo.
2. – Con il terzo motivo di ricorso si eccepisce la motivazione insufficiente, illogica e contraddittoria circa un punto decisivo della controversia (art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.). Si contesta, al riguardo, l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione che, da un lato, ha ravvisato nell’operazione che ha condotto all’applicazione dell’art. 88, comma 4, T.U.I.R., il dato anomalo rappresentato dal fatto che i soci avrebbero ceduto a soggetto diverso dalla “B. s.r.l.” le loro quote a un prezzo non congruo rispetto al loro valore, quale rappresentato dal patrimonio netto della società, e, dall’altro lato, ha chiesto di dare conto di questa anomalia non ai soci che hanno ceduto le quote e che ne erano legittimi proprietari, ovvero al soggetto che le quote ha acquistato, bensì alla società cui le quote si riferiscono, soggetto totalmente estraneo all’operazione di cessione. Essendo l’art. 88, comma 4, T.U.I.R. norma rivolta alla società, la Commissione tributaria regionale avrebbe dovuto indirizzare la propria attenzione agli effetti della rinuncia ai crediti nei confronti della società stessa, mentre non ha affrontato tale profilo ovvero lo ha fatto in maniera del tutto insufficiente.
Gravemente insufficiente, inoltre, risulterebbe la motivazione laddove afferma che la società non avrebbe spiegato le ragioni della cessione delle quote ad opera dei soci a un prezzo ritenuto inadeguato rispetto al valore del patrimonio netto della società, allorquando ha ritenuto che la società si sia limitata a riproporre la probabile esistenza di altre logiche economiche, assunte come legittime, mentre la questione sarebbe stata diffusamente affrontata nell’atto di appello.
2.1. – Il motivo è inammissibile.
In tema di ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. – nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 40 del 2006 – il vizio relativo all’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione deve essere riferito ad un “fatto”, da intendere quale specifico accadimento in senso storico-naturalistico, non assimilabile in alcun modo a “questioni” o “argomentazioni” che, pertanto, risultano irrilevanti, con conseguente inammissibilità delle censure irritualmente formulate (Cass. 8 ottobre 2014, n. 21152).
La pronuncia impugnata ha chiarito le ragioni per le quali ha ritenuto abusiva la condotta contestata, evidenziando che in base al riparto dell’onere della prova la società avrebbe dovuto dare dimostrazione delle ragioni economiche riguardanti la rinuncia a un credito particolarmente rilevante e ponendo in luce l’irragionevolezza dell’operazione compiuta.
Invero, a fronte della ricostruzione compiuta dal giudice del gravame, parte ricorrente mira a una inammissibile rivalutazione delle risultanze istruttorie, sottratta al giudice di legittimità.
3. – Con il quarto motivo di ricorso si prospetta la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c.(art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.). Il giudice del gravame, secondo quanto prospettato, è incorso nella violazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, omettendo di pronunciarsi in merito alla censura formulata in appello avverso la sentenza di primo grado laddove, una volta rilevato l’intento elusivo dell’operazione, il giudice di primo grado non aveva disposto per la disapplicazione della sanzione ai sensi dell’art. 8, d.lgs. n. 546 del 1992.
3.1. – Il motivo è infondato.
La commissione tributaria regionale, accertata la condotta abusiva, ha confermato le sanzioni oggetto dell’accertamento, per cui non sussiste alcuna violazione del principio invocato.
4. – Con il primo motivo del ricorso incidentale si deduce la violazione e falsa applicazione degli articoli 39 del d.P.R. n. 600/1973 e 54 del d.P.R. n. 633/1972 in relazione all’articolo 360, comma 1, n. 5, c.p.c.
L’Agenzia delle entrate evidenzia che la pronuncia impugnata è censurabile riguardo al recupero fiscale sub lett. b) dell’avviso di accertamento, concernente la vendita “sottocosto” di un immobile societario a un proprio socio e al suo coniuge. La sentenza di appello si è al riguardo pronunciata esclusivamente sulla ritenuta inapplicabilità del meccanismo accertativo introdotto dall’articolo 35 del d.l. n. 223/2006 (convertito con legge n. 248/2006), considerato superato dalla successiva legge n. 88/2009, annullando integralmente tale recupero. Al tempo stesso, la pronuncia avrebbe violato le norme fondanti l’accertamento induttivo in materia di imposte dirette e di IVA, ritenendo completamente precluso all’Amministrazione finanziaria l’effettuazione di un tale accertamento secondo le regole presuntive ordinarie, ove non applicabile il meccanismo di cui al d.l. n. 223/2006.
Anche a prescindere dalla questione circa la legittimità o meno del meccanismo automatico di accertamento incentrato sul riferimento al “valore normale” ex articolo 9, comma 3, del T.U.I.R. n. 917/1986, il recupero in questione è derivato, secondo le regole ordinarie di cui agli articoli 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600/1973 e 54 del d.P.R. n. 633/1972, in ragione di una anomala “antieconomicità” dell’operazione di vendita immobiliare in contestazione, sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti (la vendita è stata effettuata per un prezzo complessivamente inferiore, pari a € 160.000,00, a quello di acquisto per € 88.333,00 e di ristrutturazione per € 80.401,16 dell’immobile in favore di un socio della società medesima).
Con il secondo motivo del ricorso incidentale si prospetta l’insufficiente motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. L’Agenzia delle entrate, al riguardo, evidenza l’insufficienza motivazionale della pronuncia riguardo il recupero fiscale di cui alla lett. b) dell’avviso di accertamento, che ha laconicamente ritenuto di non “dover modificare la decisione assunta dai giudici di prime cure sul punto b), ritenendo che sia da considerarsi vigente senza soluzioni di continuità il principio che, nella cessione di immobili delle imprese, il valore di riferimento sia quello catastale ristabilito nella legge comunitaria 2008 (I. n. 88/09)”, così escludendo qualsivoglia motivazione sugli indici di antieconomicità dettagliatamente rimarcati dall’Ufficio sin dalla verifica fiscale e dall’avviso di accertamento.
4.1. – I motivi, da trattarsi congiuntamente in quanto strettamente connessi, sono fondati.
In tema di accertamento induttivo del reddito d’impresa, con l’abrogazione dell’ultimo periodo della lett. d) del primo comma dell’art. 39 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, che ha effetto retroattivo in considerazione della sua finalità di adeguare l’ordinamento interno a quello comunitario, è stato ripristinato il quadro normativo anteriore, sicché la prova dell’esistenza di attività non dichiarate, derivanti da cessioni di immobili (o costituzione o trasferimento di diritti reali di godimento sugli stessi) può essere desunta anche sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti (Cass. 26 settembre 2014, n. 20429; Cass. 9 maggio 2014, n. 10175).
Una volta contestata dall’erario l’antieconomicità di un comportamento posto in essere dal contribuente, poiché assolutamente contrario ai canoni dell’economia, incombe sul medesimo l’onere di fornire, al riguardo, le necessarie spiegazioni, essendo – in difetto – pienamente legittimo il ricorso all’accertamento induttivo da parte dell’Amministrazione, ai sensi degli artt. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 54 del d.P.R. n. 633 del 1972 (Cass. 20 marzo 2013, n. 6918; Cass. 17 ottobre 2007, n. 21833).
Va tuttavia chiarito che nelle cessioni di beni, lo scostamento del valore dichiarato rispetto al valore normale, desunto di valori O.M.I., non può essere assunto come presunzione legale. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, le quotazioni O.M.I., risultanti dal sito web dell’Agenzia delle Entrate, ove sono gratuitamente e liberamente consultabili, non costituiscono fonte tipica di prova ma strumento di ausilio ed indirizzo per l’esercizio della potestà di valutazione estimativa, sicché, quali nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza, sono idonee solamente a condurre ad indicazioni di valori di larga massima (Cass. 21 dicembre 2015, n. 25707).
Ciò non di meno l’Amministrazione finanziaria può fare ricorso anche a dette quotazioni, ai fini della valutazione del bene immobile, unitamente ad altri elementi indiziari di giudizio (Cass. 9 febbraio 2018, n. 3197).
Nel caso di specie, la pronuncia impugnata non ha tenuto conto del rilievo del carattere antieconomico dell’operazione di acquisto dell’immobile, oggetto di specifica contestazione da parte dell’Amministrazione finanziaria, così come evidenziato in ricorso, alla luce della disciplina ordinaria dell’accertamento induttivo. La motivazione resa sul punto risulta insufficiente, avendo i giudici del gravame ignorato la questione prospettata, limitandosi a ritenere vigente il valore di riferimento catastale nella cessione di immobili delle imprese, così come ristabilito dalla legge n. 88 del 2009.
5. – La sentenza impugnata va dunque cassata in relazione ai motivi accolti, contenuti nel ricorso incidentale, con rinvio alla Commissione tributaria regionale competente anche per le spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso principale, accoglie il ricorso incidentale e cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti; rinvia alla Commissione tributaria regionale dell’Emilia- Romagna, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione.
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