CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 06 marzo 2019, n. 6547
Licenziamento per superamento del periodo di comporto – Impugnazione stragiudiziale – Successivo termine di 180 giorni per il deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale – Rifiuto pregiudiziale della conciliazione o dell’arbitrato – Deposito a pena di decadenza entro il termine di 60 giorni
Svolgimento del processo
O. C. e l’associazione sindacale Fisascat Cisl di Treviso, di cui era dirigente, reclamavano la sentenza del Tribunale di Treviso n. 624/15 con cui la C. era stata dichiarata decaduta dall’impugnazione del licenziamento intimatole dalla soc. COOP. C. F. il 10.1.14 per superamento del periodo di comporto.
Esponeva la lavoratrice di aver impugnato il licenziamento con atto stragiudiziale del 16.1.14, cui seguiva la richiesta (del 17.1.14) del tentativo di conciliazione in sede sindacale, cui seguì la convocazione delle parti per il 28.1.14 con seduta tenutasi il 6.2.14, conclusasi con mancato accordo. Di avere depositato il relativo ricorso giudiziario il 15.7.14, da ritenersi tempestivo stante la sospensione, ex art. 410 c.p.c., del termine di 180 giorni previsto dal novellato art. 6 L. n. 604/66.
Con sentenza non definitiva depositata il 27.9.16, la Corte d’appello di Venezia accoglieva il gravame, ritenendo il termine per impugnare sospeso dalla comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione e per tutta la durata dello stesso e sino a venti giorni successivi alla sua conclusione, ex art. 410, co. 2, c.p.c., rigettando l’eccezione di decadenza accolta in primo grado e disponendo per la prosecuzione del giudizio come da separata ordinanza.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la soc. COOP. C. F., affidato ad unico motivo, poi illustrato con memoria.
Resistono la C. e la Fisascat Cisl di Treviso con controricorso, contenente ricorso incidentale condizionato affidato ad unico motivo, poi illustrato con memoria.
Con successivo ricorso, affidato a quattro motivi, la soc. COOP. C. F. impugna la sentenza definitiva depositata l’11.7.17, con cui la Corte d’appello di Venezia annullava il licenziamento intimato alla C. ed ordinava la sua reintegra nel posto di lavoro, con condanna della società al pagamento di una indennità pari a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto, con accessori di legge, oltre al pagamento dei contributi previdenziali ed assistenziali. Riteneva in sintesi la Corte che l’assenza protrattasi dal 13.9.12 in poi fosse ascrivibile ad infortunio verificatosi all’interno dei luoghi di lavoro imputabile alla datrice di lavoro (che non aveva adottato misure adeguate al fine di evitare cadute derivanti dalla dimostrata scivolosità dei pavimenti del locale mensa), e dunque non computabile ai fini del superamento del periodo di comporto.
Resistono la C. e la Fisascat Cisl di Treviso con controricorso, contenente ricorso incidentale condizionato affidato ad unico motivo.
Motivi della decisione
1. Debbono preliminarmente riunirsi, per evidenti ragioni di connessione, i due ricorsi proposti avverso le sentenze non definitiva e definitiva (r.g. nn. 21018/17 e 28177/16).
2. Col primo ricorso la società ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 6, comma 2, L. n. 604/66 novellato, nonché dell’art. 410, comma 2, c.p.c..
Lamenta che la tesi della sentenza impugnata, in base alla quale la disciplina sull’impugnazione del licenziamento stabilita dall’art. 6 L. n. 604/66, così come novellato dall’art. 32 L. n. 183/10 e quindi dalla L. n. 92/10 (art. 1, co. 38), presentava una lacuna che doveva essere colmata dalla disciplina di cui all’art. 410, comma 2, c.p.c., era erronea.
Si duole che la normativa in tema di impugnazione del licenziamento di cui al ridetto art. 6 L. n. 604/66 non presentava infatti alcuna lacuna, in quanto il termine di 180 giorni per il deposito del ricorso non era soggetto né ad interruzione né a sospensione ex art. 2964 c.c. (“Quando un diritto deve esercitarsi entro un dato termine sotto pena di decadenza, non si applicano le norme relative all’interruzione della prescrizione. Del pari non si applicano le norme che si riferiscono alla sospensione, salvo che sia disposto altrimenti”). Evidenzia che la disciplina è assolutamente chiara nel prevedere che dall’eventuale rifiuto della conciliazione o dell’arbitrato, ovvero dal mancato raggiungimento dell’accordo per espletarlo, il lavoratore deve depositare il ricorso giudiziale entro l’indicato termine di 60 giorni.
3. Il primo ricorso è infondato.
Questa Corte si è già recentemente pronunciata in materia (Cass. n. 14108/18) affermando che l’art. 6, co. 2 novellato, L. n. 604/66 è chiaro nel prevedere, per la nota esigenza acceleratoria dei tempi per l’impugnativa dei licenziamenti, che l’impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, mentre solo qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo.
Questa Corte ha tuttavia chiarito che la decorrenza del termine breve di 60 giorni si ha solo nel caso di pregiudiziale rifiuto del (procedimento inerente il) tentativo di conciliazione (o arbitrato), essendo a ciò equivalente il mancato accordo necessario al relativo espletamento, e dunque nel caso in cui la conciliazione o l’arbitrato non abbiano luogo tout court per una pregiudiziale volontà contraria di una delle parti e non invece nel caso in cui uno dei due procedimenti deflattivi si siano regolarmente svolti, sia pur con esito negativo.
Ritenere che in tal caso l’originario termine decadenziale di centottanta giorni si riduca al minor termine compreso dall’impugnativa stragiudiziale del licenziamento sino allo scadere di sessanta giorni dal fallimento dell’esperito tentativo di conciliazione (ovvero comunque allo scadere di sessanta giorni dall’esito negativo del tentativo) non risulta condivisibile, venendo in considerazione il fondamentale diritto di azione costituzionalmente tutelato ed il principio di stretta interpretazione delle norme aventi ad oggetto decadenze sostanziali (cfr. ex aliis, Cass. S.U. n. 18574/16, Cass. n. 26085/16, Cass. n. 4531/16).
La questione resta tuttavia quella di stabilire quali siano, in tale ipotesi,
i termini per la richiesta giudiziale della definizione della lite, che il legislatore vuole definita in tempi brevi.
Deve escludersi che al riguardo possa valere quanto stabilito dall’art. 2964 c.c. (“Quando un diritto deve esercitarsi entro un dato termine sotto pena di decadenza, non si applicano le norme relative all’interruzione della prescrizione. Del pari non si applicano le norme che si riferiscono alla sospensione, salvo che sia disposto altrimenti”), posto che nella specie vi è espressa disposizione derogatoria e cioè il secondo comma dell’art. 410 c.p.c., secondo cui “la comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza”, con la conseguenza che, in caso di mancato raggiungimento dell’accordo, il lavoratore vedrà il termine (di centottanta giorni), per l’ormai necessario deposito del ricorso giudiziale, sospeso per la durata del tentativo e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, tempo complessivo che andrà quindi sottratto da quello di centottanta giorni decorrenti dall’impugnativa stragiudiziale del licenziamento.
Va da sé che la disciplina contrattuale collettiva, che secondo la società ricorrente, all’art. 33, co. 7, prevedrebbe, con riferimento al caso in esame, il termine di 60 giorni per la presentazione del ricorso giudiziario, non consentirebbe di giungere a diversa conclusione, limitandosi, in tesi, a ripetere il disposto dell’art. 6 novellato della L. n. 604/66, senza comunque introdurre alcuna decadenza convenzionale. In realtà e per giunta il C.C.N.L. prodotto dalla ricorrente e riprodotto in ricorso (pag. 24), stabilisce, all’opposto, al comma 6, che “la comunicazione della richiesta del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza”, riproducendo il testo dell’art. 410, co. 2, c.p.c. (mentre il co. 7 invocato prevede solo che “il tentativo di conciliazione deve essere espletato entro sessanta giorni dalla presentazione della richiesta”, norma evidentemente irrilevante ai fini della presente decisione).
Risulta dunque corretta la sentenza impugnata che, in caso di infruttuosità dell’espletato tentativo, ha ritenuto inapplicabile il ridetto termine di sessanta giorni per il deposito del ricorso giudiziale, con conseguente decadenza dall’impugnativa.
Nella specie risulta dalla stessa sentenza impugnata che l’organo conciliativo competente, adito dal lavoratore, convocò le parti per il 28.1.14 (ciò che avviene solo dopo il deposito delle memorie ad opera delle parti, art. 410, co. 7 c.p.c., e dunque in caso di accettazione della procedura) e che esse comparvero regolarmente dinanzi all’organismo di conciliazione (pur senza raggiungere un accordo, come documentato dal verbale di mancato accordo del 6.2.14).
Deve allora rimarcarsi che una volta escluso che possa applicarsi il termine di 60 giorni, previsto solo per il caso di rifiuto o mancato accordo necessario all’espletamento del tentativo di conciliazione (e non già per il suo esito negativo), non può che restare efficace l’originario termine di 180 giorni dall’impugnativa stragiudiziale del licenziamento, con la precisazione, a garanzia del diritto di azione del lavoratore, che, in base al comma 2 dell’art. 410 c.p.c. novellato, la comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza.
4. Non avendo il Collegio ragioni per discostarsi dal proprio precedente, il primo ricorso deve essere pertanto rigettato, con conseguente assorbimento del ricorso incidentale condizionato.
5. Con il primo motivo del secondo ricorso la società ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 6, co. 2, L. n. 604/66, nonché dell’art. 410, co. 2, c.p.c. in ordine alla decadenza della C. dall’impugnativa del licenziamento intimatole.
Il motivo è inammissibile perché diretto a riproporre l’impugnazione della sentenza non definitiva, già esaminata.
Se è poi vero che la sentenza definitiva, oggetto del presente giudizio, contiene un ovvio quanto necessario richiamo alla pronuncia non definitiva, è altrettanto vero che ciò non consente in alcun modo alla società CIR FOOD di riproporre una impugnazione già consumatasi.
6. Col secondo motivo del secondo ricorso la società denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. mentre con terzo motivo lamenta la mancata prova del nesso causale tra l’infortunio 13.9.12 e l’ambiente di lavoro (scivolosità del pavimento).
Lamenta che la sentenza impugnata non considerò l’abnormità del comportamento della C., cuoca presso la mensa aziendale, che attraversò di corsa la sala per portare dei coltelli ad un tavolo. Ciò sia in quanto la mansione di cuoca non prevedeva il servizio ai tavoli, sia perché la corsa su di un pavimento bagnato doveva considerarsi comportamento arbitrario ed imprudente.
6.1. I motivi, congiuntamente esaminabili per connessione, presentano evidenti profili di inammissibilità ex art. 360, co. 5 novellato, c.p.c., laddove diretti ad una nuova valutazione dei fatti di causa ampiamente esaminati dalla Corte di merito, e sono per il resto infondati posto che la stessa società ricorrente ammette (riportando elementi istruttori raccolti nel procedimento n. 51/2016 dinanzi al Tribunale di Treviso) che “il cibo per i commensali viene portato sui banchi dalla cuoca” (pag. 40 attuale ricorso); che non può pertanto ritenersi avulso da tali mansioni portare delle posate ai tavoli (come chiarito dalla teste V.), e che la dedotta ‘corsa’ della C. non risulta accertata dalla sentenza impugnata (che pure ha esaminato la testimonianza V. allo scopo richiamata dalla C. F.). In definitiva tale comportamento non poteva certamente considerarsi abnorme od esorbitante rispetto alle mansioni affidate alla lavoratrice, come accertato dalla corte di merito in uno con la pacifica scivolosità del pavimento, frequentemente bagnato, tanto che, ha accertato la Corte veneziana, la datrice di lavoro pose in terra delle strisce antiscivolo, essendosi anche in precedenza verificatisi incidenti di analoga dinamica. Quanto al nesso causale basterà ribadire che la sentenza impugnata ha accertato la pericolosità dell’ambiente di lavoro cui era addetta la C., la sua pacifica caduta in terra, mentre la conseguenza di tale infortunio (frattura al polso destro, con conseguente intervento chirurgico) è ammessa dalla società a pag. 46 dell’attuale ricorso.
7. Col quarto motivo del secondo ricorso la società denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2087 e 2110 c.c., in ordine al collegamento tra l’infortunio e le assenze per periodo di comporto. Lamenta in particolare che mentre la sentenza aveva scomputato, essendo addebitabili alla datrice di lavoro, le assenze dal 13 settembre 2012 in poi, la società aveva calcolato solo quelle dall’1.1.13, assenze peraltro dovute, come dedotto dalla stessa C., ad un errato intervento chirurgico al polso destro, che doveva porsi quale esclusiva causa del protrarsi dell’assenza, sicché la Corte di merito avrebbe dovuto, anche sotto tale profilo, indagare se le assenze contestate fossero ancora ascrivibili all’infortunio.
Il motivo presenta un evidente profilo di inammissibilità per novità della questione. Ed invero qualora una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata né indicata nelle conclusioni ivi epigrafate, il ricorrente che riproponga tale questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale scritto difensivo o atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (ex aliis, Cass. n. 8206/16).
Anche volendo per ipotesi prescindere dalla superiore osservazione, deve evidenziarsi che, come peraltro dedotto dalla stessa società (pagg. 9 e 10 attuale ricorso), le conseguenze dell’infortunio si protrassero sino al giugno 2013 e che la società ritenne superato il comporto il 29.6.13 (cui seguì un periodo di aspettativa richiesto e concesso). Ne consegue che avendo la sentenza impugnata scomputato le assenze dal 13 settembre in poi (e comunque quelle connesse all’infortunio in questione), il periodo di comporto non poteva essersi esaurito. Quanto alla dedotta origine di buona parte delle assenze al dedotto intervento chirurgico al polso infortunato, è evidente che trattasi di evento necessariamente conseguente all’infortunio e dunque sempre ad esso riconducibile, anche in base al principio dell’equivalenza delle cause di cui all’art. 41 c.p..
8. – Entrambi i ricorsi riuniti debbono essere pertanto rigettati, restando così assorbiti i ricorsi incidentali condizionati.
Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi di cui ai n.r.g. 21018/17 e 28177/16; rigetta entrambi i ricorsi principali e dichiara assorbiti i ricorsi incidentali. Condanna la C. F. società cooperativa italiana ristorazione al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, in favore di ciascuna delle controparti, che liquida in € 200,00 per esborsi, € 5.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15%, I.V.A. e c.p.a. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115/02, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
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