CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 agosto 2019, n. 21159
Trasferimento di ramo d’azienda – lnefficacia della cessione del contratto di lavoro – Decreto ingiuntivo per il pagamento di un importo a titolo di retribuzione dovuta – Assenza di redditi da portare in detrazione – Natura retributiva delle somme da erogarsi dal cedente inadempiente al comando giudiziale – Inapplicabilità del principio della compensatio lucri cum damno – lndennità di mobilità esclusa dal regime della compensatio lucri cum damno
Fatti di causa
1. La Corte di Appello di Napoli, con sentenza del 23 marzo 2015, ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva respinto l’opposizione a decreto ingiuntivo promossa da T.I. Spa nei confronti di A.M.L.R. per il pagamento di un importo pari ad euro 2.146,41 maturato nel febbraio 2012, successivamente alla sentenza del 26 ottobre 2009 con cui era stata dichiarata l’inefficacia della cessione del suo contratto di lavoro in relazione al trasferimento di ramo d’azienda avvenuto in favore della T.L.I. Spa; società per la quale la L.R. aveva cessato di lavorare e di essere retribuita nel gennaio 2012.
2. La Corte territoriale ha ritenuto in sintesi che non risultava che la L.R. avesse, nel periodo in controversia, percepito redditi da portare in detrazione rispetto a quanto dovuto dalla società T., a parte l’indennità di mobilità che però si sottraeva al regime della compensano lucri cum damno.
3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso T.I. Spa con due motivi, cui ha resistito la lavoratrice con controricorso, illustrato da memoria ex art. 378 c.p.c..
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo si denuncia nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. “nella parte in cui la sentenza ha dichiarato il diritto del Sig. G. (ndr. così nel testo) al risarcimento del danno quando il lavoratore aveva richiesto il pagamento della retribuzione, trasmutando completamente l’azione proposta”.
Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1206, 1207, 1217, 1223, 1256, 1453 e 1463 c.c. “nella parte in cui la sentenza non ha detratto, a titolo di aliunde perceptum, l’indennità di mobilità percepita dalla Sig.ra L.R.”.
2. I motivi, congiuntamente esaminabili per connessione, non meritano accoglimento.
La questione della natura dei crediti vantati dalla lavoratrice per effetto del mancato ripristino del rapporto di lavoro da parte di T.I. Spa, nonostante la sentenza di accertamento della illegittimità della cessione del ramo d’azienda (cui era addetta) a T.L.I. Spa, con decorrenza dalla messa in mora, trova soluzione nel senso della natura retributiva e non più risarcitoria (come invece secondo un indirizzo precedente: Cass. 17 luglio 2008 n. 19740; Cass. 9 settembre 2014 n. 18955; Cass. 25 giugno 2018, n. 16694) sulla scorta dell’insegnamento posto recentemente dalle Sezioni unite civili di questa Corte (sent. 7 febbraio 2018, n. 2990)
Come noto detta pronuncia ha sancito il seguente testuale principio di diritto: “in tema di interposizione di manodopera, ove ne venga accertata l’illegittimità e dichiarata l’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, l’omesso ripristino del rapporto di lavoro ad opera del committente determina l’obbligo di quest’ultimo di corrispondere le retribuzioni, … , a decorrere dalla messa in mora“.
A tale indirizzo è stato riconosciuto valore di diritto vivente sopravvenuto dalla Corte costituzionale con la sentenza 28 febbraio 2019, n. 29, anche avuto riguardo alla fattispecie della cessione del ramo d’azienda. Infatti la Corte d’Appello di Roma, sezione lavoro, con ordinanza di rimessione del 2 ottobre 2017, aveva sollevato questione di legittimità costituzionale del “combinato disposto” degli artt. 1206, 1207 e 1217 c.c., in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU, censurando le citate disposizioni sulla mora del creditore, sul presupposto che limitassero la tutela del lavoratore ceduto – secondo l’interpretazione giurisprudenziale all’epoca accreditata – al risarcimento del danno, anche dopo la sentenza che avesse accertato l’illegittimità o l’inefficacia del trasferimento d’azienda. La Corte costituzionale ha preso atto (al p.to 6.3. del Considerato in diritto) “che l’indirizzo interpretativo, indicato come diritto vivente allorché sono state proposte le questioni di legittimità costituzionale, risulta disatteso dalla suddetta pronuncia delle Sezioni unite, successiva all’ordinanza di rimessione. Tale pronuncia mira a ricondurre a razionalità e coerenza il tormentato capitolo della mora del creditore nel rapporto di lavoro e consente di risolvere in via interpretativa i dubbi di costituzionalità prospettati”. Dalla “qualificazione retributiva dell’obbligazione del datore di lavoro moroso” il Giudice delle leggi ha tratto la conseguenza di “privare di fondamento, …, le questioni di legittimità costituzionale insorte sulla base di un’interpretazione di segno antitetico”.
Pertanto, una volta sancita la natura retributiva delle somme da erogarsi dal cedente inadempiente al comando giudiziale ed escluso che la richiesta di pagamento del lavoratore abbia titolo risarcitorio, non trova applicazione il principio della compensano lucri cum damno su cui si fonda la detraibilità dell’aliunde perceptum dal risarcimento e, quindi, di detraibilità dell’indennità di mobilità non è dato parlare.
Nella specie non vi è neanche questione di efficacia estintiva del pagamento del terzo perché la somma richiesta è relativa a periodo successivo alla cessazione del rapporto con la cessionaria.
L’affermata natura retributiva delle somme rivendicate dalla lavoratrice priva infine di rilievo la censura che lamenta la violazione del canone processuale della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. In disparte i profili di inammissibilità derivanti dal fatto che la ricorrente non ha adeguatamente riportato nel corpo del primo motivo i contenuti degli atti processuali sui quali si fonda, onde consentire a questa Corte la delibazione della invocata violazione dell’art. 112 c.p.c., la L.R. aveva diritto al pagamento delle somme richieste proprio prospettando la natura retributiva delle medesime.
3. Conclusivamente il ricorso deve essere respinto, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.
Occorre dare atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, I. n. 228 del 2012.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 5.500,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.