CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 dicembre 2018, n. 31753
Lavoro – Trasferimento del ramo di azienda – Nuove assunzioni – Incremento produttivo – Inadempimento datoriale
Fatti di causa
1.1. Con ricorso al Tribunale di Ancona E.F. e gli altri 27 odierni ricorrenti, dipendenti della P.I. s.r.l., convenivano in giudizio la società (nonché la cessionaria H.P.I. s.r.l.), convenivano in giudizio la società per sentir accertare che la stessa era rimasta inadempiente agli obblighi assunti con l’accordo del 29/2/2000 richiamato nei successivi integrativi del 20/9/2001 e del 5/5/2003.
1.2. Secondo la prospettazione dei ricorrenti, l’accordo, stipulato in riferimento al trasferimento del ramo di azienda costituito dall’attività di produzione presso lo stabilimento di A.P., del quale la P.I. s.r.l. si era resa cessionaria dalla I.L. S.p.A., aveva avuto ad oggetto l’attuazione di un piano industriale ed aveva previsto (tra gli altri) l’obbligo di procedere ad un numero minimo di nuove assunzioni e di aumentare la capacità produttiva aziendale, e, quale contropartita, per i nuovi assunti (con contratto a tempo determinato ovvero con contratto di formazione e lavoro), un part-time obbligatorio al 90% (36 ore settimanali) per l’intero rapporto e una moratoria contrattuale comprendente il terzo elemento (195 euro lordi mensili), il premio di produzione (euro 14 al mese) e la 14ma (circa euro 1.500,00 lordi) che non sarebbero stati pagati per tutto il periodo indicato nell’accordo.
Ad avviso dei ricorrenti l’inadempimento datoriale aveva nel complesso riguardato tutte le indicate previsioni di cui all’accordo e cioè sia l’aspetto dell’attuazione del piano industriale e dell’incremento produttivo sia l’aspetto delle nuove assunzioni.
Si chiedeva, pertanto, che fosse dichiarata la nullità di tali accordi in relazione alla moratoria salariale in danno dei dipendenti e per l’effetto che fosse condannata la P. s.r.l. (in solido con H. s.r.l.) al pagamento di tutti gli emolumenti previsti negli accordi in questione quale prestazione e/o controprestazione per l’attuazione del piano di sviluppo per tutto il periodo di riferimento e pertanto dall’1/3/2000 al 31/12/2004.
1.2. Il Tribunale respingeva la domanda.
1.3. La decisione era confermata dalla Corte d’appello di Ancona.
Riteneva la Corte territoriale che non potesse essere condivisa l’interpretazione degli appellanti circa il collegamento della moratoria salariale anche al preciso e puntuale rispetto (nelle tempistiche) dell’impegno programmatico volto all’incremento industriale ed occupazionale e che tale moratoria, alla luce di una interpretazione letterale e complessiva della clausola contrattuale di cui al primo accordo del 29 febbraio 2000, fosse sottoposta ad un’unica condizione vincolante e cioè al rispetto dell’impegno della conversione, in misura non inferiore al 90%, dei contratti a termine in rapporti a tempo indeterminato, obbligazione, questa, effettivamente ed ampiamente adempiuta dalla società.
Riteneva, pertanto, che non fossero dovuti gli emolumenti previsti in relazione a tale moratoria salariale.
2. Contro la sentenza d’appello ricorrono i dipendenti con due motivi.
3. P. s.r.l. e H.P.I. s.r.l. resistono con separati con controricorsi.
4. Successivamente sono stati depositati separati atti di rinuncia al ricorso da parte di tutti i ricorrenti ma solo nei confronti di H.P.I. s.r.l., rinunce che sono state accettata da tale società.
5. La P.I. s.r.l. ha depositato memoria.
Ragioni della decisione
1.1. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363 cod. civ. (in relazione all’art. 360, n. 3 e n. 4, cod. civ.). Lamentano che la Corte territoriale abbia privilegiato un’interpretazione letterale dell’accordo del 29/2/2000, senza verificare l’intero contesto contrattuale. Rilevano che se si fossero considerati gli artt. 8 e 2 ultimo paragrafo del medesimo accordo si sarebbe desunto che interesse precipuo delle parti non era solo la trasformazione dei contratti a termine ma lo sviluppo del piano industriale della società e cioè l’investimento in opere ed impianti, nella specie non attuato. Sottolineano che significativa in tal senso era la circostanza che la P.I. s.r.l., anziché riscontrare la disdetta sindacale del 7/3/2003 comunicando di aver adempiuto agli accordi sulla stessa gravanti aveva deciso di ricontrattare gli accordi del 2000 e del 2001 (giustificati dall’essere stata la stessa inadempiente alle ulteriori e più pregnanti obbligazioni assunte in precedenza).
1.2. Il motivo non è fondato.
In tema di interpretazione del contratto, questa Corte ha in più occasioni affermato che il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sé che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, il cui accertamento è censurabile in cassazione soltanto per inadeguatezza o illogicità della motivazione, ma è limitato alla verifica del rispetto dei canoni legali, con conseguente inammissibilità di ogni critica alla ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati (cfr. Cass. 14 luglio 2016, n. 14355; Cass. 26 maggio 2016, n. 10891; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2465).
Analogamente, si è detto che per sottrarsi al sindacato di legittimità, l’interpretazione data dal giudice di merito ad un contratto non deve essere l’unica possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni; sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto quella poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra (v. Cass. 4 marzo 2014, n. 5016; Cass. 18 novembre 2013, n. 25861; Cass. 5 luglio 2013, n. 16880; Cass. 20 novembre 2009, n. 24539).
Nell’interpretazione del contratto, poi, il criterio letterale e quello del comportamento delle parti, anche successivo al contratto medesimo ex art. 1362 cod. civ., concorrono, in via paritaria, a definire la comune volontà dei contraenti. Ne consegue che il dato letterale, pur di fondamentale rilievo, non è, da solo, decisivo, atteso che il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito esclusivamente al termine del processo interpretativo che deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extra testuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiano di per sé non bisognose di approfondimenti interpretativi, dal momento che un’espressione ‘prima facie’ chiara può non apparire più tale se collegata alle altre contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti (così Cass. 1° dicembre 2016, n. 24560; Cass. 9 febbraio 2007, n. 2901; Cass. 28 marzo 2006, n. 7083).
Nella specie, la Corte territoriale non si è affatto limitata ad una interpretazione letterale dell’accordo del 29 febbraio 2000, costituente, come si legge in sentenza, ‘la base degli impegni della P. (ancorché su tale accordo andranno ad innestarsi i successivi accordi aziendali)’, emergendo, al contrario, che dello stesso sia stata offerta anche una lettura sistematica alla luce delle ulteriori intese tra le parti.
Al punto 5 (e successivi sub punti) della sentenza si dà conto, infatti, di una interpretazione sia letterale sia complessiva evidenziandosi, da un lato, il passaggio dell’accordo del 2000 in cui gli slittamenti nel riconoscimento della parte economica della vigente contrattazione integrativa erano stati vincolati al verificarsi della condizione della trasformazione a tempo indeterminato del 90% dei contratti in scadenza e valutandosi la natura obbligatoria della relativa pattuizione e, dall’altro, scindendo l’ulteriore aspetto più strettamente gestionale del medesimo accordo iniziale del 2000, oggetto anche degli accordi successivi, e considerando che dovesse essere tenuto fuori dall’intesa relativa alla sospensione di alcuni elementi della retribuzione tutto ciò che atteneva all’incremento produttivo riferito ad una ‘seconda fase’ del piano industriale ed alla relativa implementazione con conseguente aumento occupazionale (in relazione alla quale si erano registrati i contrasti tra le parti sociali riguardanti essenzialmente la tempistica della realizzazione dell’investimento e della conseguente crescita del personale occupato e che avevano portato ad una prima disdetta del 7 marzo 2003, integralmente ritirata con l’accordo del 5 maggio 2003 fino alla definitiva disdetta del 10 maggio 2003).
In sostanza, ad avviso della Corte di merito, proprio sulla base del complessivo atteggiarsi dell’intenzione delle parti come emerso dal successivo comportamento delle stesse, l’aspetto gestionale e programmatico che afferiva a detta seconda fase non toccava in alcun modo l’obbligazione, pacificamente adempiuta dalla datrice di lavoro, della conversione dei contratti a termine, oggetto del primo momento di incontro (in sé compiuto) della volontà delle parti.
In particolare la Corte territoriale ha dato conto del fatto che la P.I. S.p.A. avesse manifestato l’intenzione di sviluppare un piano industriale suddiviso in più fasi, tuttavia ha posto lo slittamento nel riconoscimento della parte economica di cui alla contrattazione integrativa solo in rapporto al verificarsi della trasformazione a tempo indeterminato del 90% dei contratti in scadenza (si vedano specificamente i punti 5.1, 5.2. e 5.3 della sentenza).
La Corte di merito ha inoltre tenuto ben presente la sequenza degli accordi aziendali intervenuti ed il collegamento tra gli stessi.
Tanto si evince chiaramente dai punti da 5.1 a 5.8 e da 6 a 6.9 ove si fa riferimento all’esatta definizione del contenuto obbligatorio della moratoria salariale di cui al primo accordo aziendale del 29 febbraio 2000, svincolata dal preciso e puntuale rispetto (anche nella tempistica) dell’impegno programmatico volto all’incremento occupazionale, impegno, quest’ultimo, mantenuto secondo la regola rebus sic stantibus e, in conseguenza dell’accordo interlocutorio del 5 maggio 2003, rimodulato (con superamento dei termini numerici iniziali) nel senso della saturazione delle linee produttive esistenti e l’indicazione dell’inserimento in azienda di nuove risorse per il completamento di altra linea produttiva.
A fronte di tali argomentazioni del tutto congrue e logiche oltre che rispettose dei criteri interpretativi sopra ricordati, le osservazioni critiche svolte in ricorso sono indirizzate, sostanzialmente, a sostenere un diverso risultato interpretativo degli accordi predetti, considerato preferibile a quello accolto nella sentenza censurata.
Una censura siffatta è, però, inammissibile alla stregua della funzione del giudizio di legittimità, limitata, per accordi del tipo in esame, al controllo della motivazione e alla verifica dell’impiego corretto dei canoni ermeneutici secondo le censure proposte dal ricorrente.
2.1. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 1353, 1354 e 1355 cod. civ. (in relazione all’art. 360, n. 3 e n. 4, cod. civ.). Lamentano che la Corte territoriale avrebbe supinamente ed acriticamente aderito alle argomentazioni di parte appellante omettendo qualunque motivazione sulle contrapposte eccezioni di parte appellante. Rilevano che se l’unica condizione alla quale era sottoposta la moratoria salariale fosse stata quella della trasformazione dei rapporti essa sarebbe stata invalida perché meramente potestativa e violativa degli artt. 1353, 1354 e 1355 cod. civ. oltre che priva delle caratteristiche dell’accidentalità e della estrinsecità.
1.2. Il motivo presenta profili di inammissibilità ed è comunque infondato.
Non si evince, infatti, quando ed in che termini la questione sia stata sottoposta ai giudici di merito il che porta a rilevare l’assoluta novità della prospettazione.
In ogni caso, come da questa Corte già affermato (v. Cass. 16 gennaio 2006, n. 728; Cass. 20 ottobre 2005, n. 20290; Cass. 21 luglio 2000, n. 9587; Cass. 20 giugno 2000, n. 8390; Cass. 13 novembre 1989, n. 4785), la condizione meramente potestativa e la conseguente sanzione di nullità di cui all’art. 1355 cod. civ. non sussistono quando l’impegno che la parte si assume, non è rimesso al suo mero arbitrio ma è collegato ad un gioco di interessi e di convenienza e si presenta come alternativa capace di soddisfare anche il proprio interesse, mentre la condizione potestativa invalidante il negozio è quella che dipende dal mero arbitrio del soggetto obbligato che ne tragga il vantaggio principale, così da presentarsi, alla stregua di un mero ‘si voluero’, come effettiva negazione di ogni vincolo con la conseguenza che essa deve escludersi quando l’evento dedotto dipenda anche dal concorso di fattori estrinseci che possono influire sulla determinazione della volontà pur se la relativa valutazione sia rimessa all’esclusivo apprezzamento dell’interessato funzionale ad un gioco di interessi e di convenienza.
Orbene, non vi è dubbio che, nel caso in esame, l’impegno che la P.I. s.r.l. aveva assunto (trasformare a tempo indeterminato un certo numero di contratti a termine) non era certo rimesso al suo mero arbitrio rappresentando piuttosto la risultante della valutazione ponderata di seri od apprezzabili motivi nel quadro di intese con le organizzazioni sindacali e si presentava, per l’azienda, come alternativa capace di soddisfare anche il proprio interesse.
Né può revocarsi in dubbio la regolarità dell’apposta condizione sotto gli altri profili dedotti dal ricorrente essendo nella specie chiaramente riscontrabile la possibilità materiale e giuridica, da intendersi come assenza di un impedimento – di fatto o di diritto -, che renda certa l’impossibilità di avveramento dell’evento secondo un giudizio di ragionevolezza.
3. Il ricorso proposto nei confronti della P.I. S.p.A. deve, pertanto, essere rigettato.
4. La regolamentazione delle spese tra il ricorrente e la P.I. S.p.A. segue la soccombenza.
5. Quanto alla posizione della H.P.I. s.r.l., l’intervenuta rinuncia al ricorso comporta, ex art. 391 cod. proc. civ., l’estinzione del processo, senza pronuncia sulle spese vista l’accettazione manifestata da parte controricorrente.
6. Va dato atto dell’applicabilità dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, co. 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228.
P.Q.M.
Dichiara l’estinzione parziale del processo nei confronti della H.P.I. s.r.l.; rigetta il ricorso nei confronti della P.I. s.r.l.; condanna i ricorrenti al pagamento, in favore della P.I. s.r.l. delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 6.000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge e rimborso forfetario in misura del 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso articolo 13.
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