CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 giugno 2018, n. 14834
Contratto di lavoro subordinato a tempo determinato – Genericità dell’indicazione del termine – Prolungata inerzia e mancata offerta della prestazione lavorativa – Durata rilevante del comportamento omissivo del lavoratore nell’impugnare la clausola che fissa il termine – Indicatività della volontà di estinguere il rapporto di lavoro tra le parti, ove concorrono anche altri elementi convergenti – Ricorso inammissibile – Giudizio attinente alla Corte di merito
Fatti di causa
1. La Corte di appello di Messina, con sentenza del 27 gennaio 2016, ha confermato la decisione di primo grado nella parte in cui aveva dichiarato l’illegittimità del stipulato tra A.G.R. e R. F. I. Spa del 7 giugno 1996 per genericità dell’indicazione del termine contenuta nello stesso, non potendosi considerare il medesimo un valido contratto a viaggio ai sensi dell’art. 332 cod. nav., con conseguente instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e condanna alla riammissione in servizio del lavoratore, oltre al pagamento di una indennità ex art. 32 I. n. 183 del 2010 pari a 10 mensilità.
La Corte, in riforma sul punto della pronuncia di primo grado, ha condannato la società a corrispondere al lavoratore anche la retribuzione dovuta dalla data della sentenza di conversione di primo grado fino alla riassunzione, detratto l’eventuale aliunde perceptum.
2. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso RFI – R. F. I. Spa con 3 motivi.
Ha resistito l’intimato con controricorso, formulando altresì ricorso incidentale affidato ad un unico motivo, cui ha resistito la società con controricorso. Il G. ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
Ragioni della decisione
1. Il ricorso principale della società non può trovare accoglimento per le ragioni, qui condivise, in larga parte già espresse da questa Corte in vicende sovrapponibili alla presente (cfr. Cass. n. 17994 del 2017; Cass. n. 17995 del 2017; Cass. n. 18609 del 2017; Cass. n. 30004 del 2017; Cass. n. 133 del 2018).
2. Con il primo motivo la società denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e ss., 1372, 2697 c.c e degli artt. 110 e 115 c.p.c., ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., per non avere i giudici del merito valorizzato circostanze quali la prolungata inerzia, l’accettazione del tfr e la mancata offerta della prestazione lavorativa al fine di ritenere intervenuta una risoluzione consensuale del rapporto di lavoro.
La doglianza non ha pregio alla stregua delle considerazioni di Cass. n. 29781 del 2017, sulla scorta del recente arresto delle Sezioni unite civili rappresentato dalla sentenza n. 21691 del 27 ottobre 2016 (punti 55, 56, 57, 58). In tale ultima pronuncia, premesso il dato normativo dell’art. 1372, co. 1, c.c., secondo cui il contratto può essere sciolto “per mutuo consenso”, si è rammentato l’insegnamento in base al quale, salvo che non sia richiesta la forma scritta ad substantiam, il mutuo consenso sullo scioglimento del rapporto può essere desumibile da comportamenti concludenti. Con specifico riferimento al caso dei contratti a tempo determinato detta sentenza, avallato l’orientamento giurisprudenziale in base al quale la durata rilevante del comportamento omissivo del lavoratore nell’impugnare la clausola che fissa il termine può considerarsi “indicativa della volontà di estinguere il rapporto di lavoro tra le parti” ove “concorra con altri elementi convergenti”, ha statuito che “il relativo giudizio attiene al merito della controversia”. Si tratta di una conclusione del tutto coerente con una risalente giurisprudenza di legittimità, mai smentita nel corso degli anni, secondo la quale l’accertamento della sussistenza di una concorde volontà delle parti diretta allo scioglimento del vincolo contrattuale costituisce apprezzamento di merito che, se immune da vizi logici e giuridici e adeguatamente motivato, si sottrae al sindacato di legittimità (ab imo v. Cass. n. 1037 del 1968; conf. a Cass. n. 2302 del 1953).
Deriva come inevitabile conseguenza metodologica che, se l’accertamento della sussistenza di una concorde volontà delle parti diretta allo scioglimento del contratto costituisce un giudizio di fatto condotto dal giudice del merito, esso è sindacabile in sede di legittimità nei limiti in cui un tale apprezzamento di merito può esserlo in base alle rigorose regole imposte dalla disciplina del vizio che – secondo i dettami dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., tempo per tempo vigente- può colpire la ricostruzione di ogni vicenda storica che preceda il contenzioso giudiziale.
Ciò posto, laddove il giudice intenda desumere da fatti noti l’esistenza di una comune volontà delle parti tesa allo scioglimento del contratto, per il tramite di una inferenza logica, troveranno applicazione gli artt. 2727 e 2729 c.c., così come interpretati da una consolidata giurisprudenza che ha stabilito i fondamenti ed i limiti del ricorso alla prova presuntiva (per una estesa ricognizione v. Cass. n. 5787 del 2014). Da tali principi deriva che, in tema di prova presuntiva del mutuo consenso tacito, spetta innanzi tutto al giudice del merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni, individuare i fatti certi da porre a fondamento del relativo processo logico, apprezzarne la rilevanza, l’attendibilità e la concludenza al fine di saggiarne l’attitudine, anche solo parziale o potenziale, a consentire inferenze logiche circa l’esistenza ignota di una comune volontà risolutoria; indi compete sempre al giudice del merito procedere ad una valutazione complessiva di tutti gli elementi indiziari precedentemente selezionati ed accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione, e non piuttosto una visione parcellizzata di essi, sia in grado di fornire una valida prova presuntiva tale da ingenerare il convincimento in ordine all’esistenza o, al contrario, all’inesistenza di uno scioglimento del contratto per mutuo consenso.
In particolare chi censura un ragionamento presuntivo non può limitarsi a prospettare, così come escluso in tutti i casi in cui viene sottoposta a questa Corte l’interpretazione di una volontà negoziale (tra molte: Cass. n. 11756 del 2006; Cass. n. 17067 del 2007; Cass. n. 9070 del 2013; Cass. n. 12360 del 2014), l’ipotesi di un convincimento diverso da quello espresso dal giudice del merito, ma deve far emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio (in termini, Cass. n. 10847/2007 cit.) e, nel vigore del novellato art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, così come rigorosamente interpretato da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014.
Tanto premesso, nel caso sottoposto all’attenzione del Collegio, il giudice del fatto ha considerato che “dopo il contratto del giugno 1996 … il marittimo è stato nuovamente chiamato al lavoro ed ha stipulato con la stessa società contratti a viaggio ovvero a tempo determinato per molti degli anni trascorsi dal 1996 al 2009 … non risulta inoltre che egli abbia conseguito altra stabile occupazione, ovvero abbia rifiutato una o più chiamate al lavoro … in tale contesto non sono indicative né l’accettazione del trattamento di fine rapporto, né la mancata offerta della prestazione, alla luce delle modalità della conclusione del rapporto e della reiterazione continua dei rapporti di lavoro a tempo determinato … in definitiva non vi sono elementi probatori, né circostanze significative per ritenere che vi sia stata una volontà anche tacita di porre fine definitivamente al rapporto”.
Per dirla con le Sezioni unite civili in premessa ricordate: “il giudizio di merito si chiude qui”. Le censure proposte dalla società, da un lato, non investono omissioni del discorso giustificativo su fatti realmente decisivi della controversia, intesi come idonei a determinare un diverso esito della lite con giudizio di certezza, e non di mera probabilità o possibilità, e, d’altro canto, si infrangono contro la palese sussistenza, nella sentenza impugnata, dei requisiti strutturali dell’argomentazione, mentre le doglianze si sostanziano nel ripercorrere criticamente il ragionamento decisorio svolto dal giudice a quo, sicché incidono sull’intrinseco delle opzioni nelle quali propriamente si concreta il giudizio di merito, risultando per ciò stesso estranee all’ambito meramente estrinseco entro il quale è circoscritto il giudizio di legittimità.
3. Con il secondo motivo la società denuncia violazione dell’art. 32 della legge n. 183/2010 per avere la Corte di Appello liquidato l’indennità risarcitoria nella misura di 10 mensilità.
Il motivo non è accoglibile.
La Corte di merito ha indicato le ragioni per le quali ha ritenuto corretta la determinazione in 10 mensilità dell’indennità di cui all’art. 32 cit. individuandole, da un lato, nelle dimensioni aziendali, e dall’altro, nel numero dei contratti stipulati tra le parti e nell’anzianità del lavoratore. Si tratta, all’evidenza, di una corretta applicazione dei criteri di cui al citato art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 involgente, peraltro, valutazioni di merito che non possono essere sindacate in questa sede (v., tra molte, Cass. n. 1320, n. 5198, n. 6122, n. 18902 del 2014).
4. Con il terzo motivo del ricorso principale si denuncia la violazione dell’art. 91 c.p.c. in relazione alla mancata compensazione delle spese, visto che “RFI non è risultata soccombente totale perché anche l’appello incidentale è stato accolto solo parzialmente”.
Il motivo è infondato.
Come ripetutamente affermato da questa Corte, non è sufficiente a supportare una pronuncia di compensazione delle spese la mera riduzione della domanda, permanendo comunque una sostanziale soccombenza della controparte che deve essere adeguatamente riconosciuta anche sotto il profilo della suddivisione del carico delle spese (v., per tutte, Cass. n. 2709 del 2016, Cass. n. 901 del 2012, Cass. n. 5598 del 2010). Del resto, il criterio di valutazione della prevalenza della soccombenza non può essere basato sul numero delle domande accolte o respinte per ciascuna delle parti ma comporta una valutazione nel suo complesso dell’oggetto della lite (cfr. Cass. n. 1703 del 2013). Egualmente, il rigetto tanto dell’appello principale quanto di quello incidentale (e nella specie l’appello incidentale è stato anche parzialmente accolto) non obbliga il giudice a disporre la compensazione totale o parziale delle spese processuali, il cui regolamento, fuori della ipotesi di violazione del principio della soccombenza per essere stata condannata la parte totalmente vittoriosa, è rimesso, anche per quanto riguarda la loro compensazione, al potere discrezionale del giudice di merito (Cass. n. 18173 del 2008; Cass. n.3405 del 1980).
5. Parimenti non può essere accolto il ricorso incidentale con il quale il lavoratore ha dedotto la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 c.p.c., 1218, 1223, 1226, 2103, 2059 c.c. e 432 c.p.c. nonché “omessa pronunzia sulla domanda di risarcimento del danno ulteriore per la forzata inattività come danno esistenziale ed alla professionalità”.
Nel motivo si rammenta che nell’appello incidentale il G. aveva richiesto “il riconoscimento del danno esistenziale, quale danno patito dal lavoratore per il ritardo e/o la mancata esecuzione della sentenza che riconosce il suo diritto alla conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato”, lamentando che “l’inattività forzata del lavoratore … ne lede la professionalità oltre che l’affidamento che lo stesso ripone nell’esecuzione della decisione giudiziale a lui favorevole”.
Nella memoria conclusiva, espressamente richiamando l’art. 345 c.p.c., si ribadisce che la doglianza riguarda la mancata pronuncia della Corte territoriale sulle conseguenze risarcitorie da danno esistenziale e professionale conseguenti alla mancata riammissione in servizio dopo la sentenza di primo grado.
La censura non può essere accolta.
In disparte l’inammissibilità derivante dalla promiscua ed incompatibile deduzione del vizio “ai sensi dell’art. 360, nn. 3 e 4 c.p.c.”, sicché o vi è un error in procedendo per non avere il giudice distrettuale pronunciato su di un motivo di gravame o vi è un error in iudicando perché quello stesso giudice, pronunciando, ha violato o falsamente applicato le numerose disposizioni di legge sostanziale richiamate nel motivo, occorre premettere che l’art. 360-bis n. 2 c.p.c., là dove implica che la violazione di norme del procedimento determini quella dei principi regolatori del giusto processo, “nell’unica lettura possibile per dare alla previsione un senso” comporta proprio che detta violazione abbia svolto un ruolo decisivo, dovendosi dimostrare che l’omessa pronuncia riguarda “una quaestio iuris astrattamente rilevante” (da ultimo Cass. n. 16102 del 2016), nel senso che non è sufficiente il vizio procedimentale ma è necessario che esso riguardi una domanda o una eccezione di merito che avrebbe mutato il segno della decisione.
Orbene, secondo le Sezioni unite di questa Corte, l’art. 345, co. 1, c.p.c., (pur applicabile nel rito del lavoro, v. Cass. n. 7770 del 1992), ove deroga al divieto di domande nuove in appello con riferimento ai danni sofferti dopo la sentenza impugnata, trova applicazione solo quando detta deroga trovi giustificazione nel fatto che l’istanza di ristoro del danno ulteriore configura sviluppo logico di una domanda già proposta nel giudizio di primo grado (Cass. SS.UU. n. 1955 del 1996 e n. 10597 del 1992).
Ne deriva che la richiesta di ristoro del danno per fatti sopravvenuti in corso di causa comporta un non consentito mutamento della primitiva domanda, con la conseguente inammissibilità della stessa anche in appello, senza che, in contrario, possa argomentarsi dalla deroga al divieto di domande nuove in appello con riferimento ai danni sofferti dopo la sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 345 c.p.c., trovando tale norma applicazione solo quando nel giudizio di primo grado sia stato richiesto il risarcimento del danno maturato in precedenza, e giustificandosi detta deroga solo nel presupposto che si incrementino soltanto le conseguenze dannose del medesimo fatto generatore posto a fondamento della pretesa senza che gli ulteriori danni siano ricollegabili a fatti nuovi e diversi (Cass. n. 10045 del 1996).
In particolare è stato statuito che la disposizione in esame postula che le domande di risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza derivino da cause preesistenti all’inizio della lite e che trovino fondamento nella stessa causa petendi dedotta in primo grado, onde l’applicazione della menzionata eccezionale norma non ha luogo per il risarcimento dei danni cagionati da fatti posteriori che con quelli precedenti non abbiano un nesso diretto e sostanziale, come per le domande inerenti ai danni derivanti dall’esecuzione della sentenza di primo grado (Cass. n. 7656 del 1990).
Pertanto la domanda formulata con l’appello incidentale dal G., lungi dal rappresentare una domanda integrativa ed accessoria di quella già formulata in primo grado (di cui peraltro nel corpo del motivo non si riportano i contenuti testuali idonei ad individuarla), era inammissibile perché si fondava essenzialmente su di un fatto nuovo sopravvenuto, quale era l’inottemperanza datoriale all’ordine di riassunzione del giudice con le conseguenze dannose che si assumevano determinate, per cui alcuna decisiva omessa pronuncia ha commesso la Corte di Appello in relazione ad una domanda inammissibile non sussistendo al riguardo alcun obbligo del giudice di pronunciarsi nel merito su di una domanda non ritualmente introdotta nel giudizio (cfr. sul punto Cass. n. 17994 del 2017; Cass. n. 24445 del 2010; Cass. n. 12412 del 2006).
6. Conclusivamente i ricorsi vanno respinti e la reciproca soccombenza consente la compensazione parziale delle spese di lite in ragione di un terzo; per i restanti due terzi esse rimangono a carico della ricorrente principale da ritenersi prevalentemente soccombente.
Occorre dare atto della sussistenza, per entrambe le parti ricorrenti, dei presupposti di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, I. n. 228 del 2012.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso principale e quello incidentale. Condanna la ricorrente principale al pagamento in favore del controricorrente di due terzi delle spese di lite e compensa tra le parti la residua quota. Liquida per intero tali spese in euro 200,00 per esborsi ed euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge e rimborso forfetario in misura del 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale ed incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale ed incidentale a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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