CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 giugno 2019, n. 15449
Tributi – Imposta sulle successioni – Aliquote – Debiti della massa ereditaria – Deducibilità – Condizioni – Sistema di prove legali – Sussistenza – Prove atipiche – Rilevanza – Esclusione – Conseguenze – Debiti verso istituti di credito – Certificato di cui all’art. 23, co. 2, D.Lgs. n. 346 del 1990 – Necessità e sufficienza
Fatti rilevanti e ragioni della decisione
1.1 L’agenzia delle entrate propone quattro motivi di ricorso per la cassazione della sentenza n. 3819/34/14 del 10 dicembre 2014, con la quale la commissione tributaria regionale della Sicilia, in rigetto dell’appello principale dell’amministrazione finanziaria ed in parziale accoglimento dell’appello incidentale della parte contribuente, ha ritenuto solo in parte fondato l’avviso di rettifica e liquidazione notificato alle coeredi A.M.F. e P.C. sulla dichiarazione di successione del loro dante causa C.F., deceduto il 28 febbraio 1997.
La commissione tributaria regionale, per quanto qui ancora rileva, ha ritenuto che: a. in ordine alla rettifica di valore dei beni immobili caduti in successione, più delle quotazioni tratte dall’osservatorio immobiliare dei prezzi fornito dall’ufficio del territorio di Catania, fosse nella specie probante, ancorché risalente a circa 10 anni prima dell’apertura della successione, la perizia giurata eseguita dal CTU ing.F. in procedura esecutiva iniziata avanti al tribunale civile di Catania a carico del de cujus (proc.n.265/84 r.e.); b. in ordine al disconoscimento, da parte dell’ufficio, dei debiti verso le banche, era in atti la prova della effettività di tali debiti, così come risultanti dalla produzione, fin dal primo grado di giudizio, dei relativi certificati rilasciati dagli istituti creditori, comunque confermati dal piano di riparto 19 ottobre 2001 redatto dal CTU nella suddetta procedura espropriativa, ed attestante la presenza di un debito verso BNL di lire 3.033.086.565, e verso Banco di Sicilia- Unicredit di lire 822.137.018 (con conseguente deducibilità dall’attivo ereditario del debito complessivo verso le banche di euro 1.991.056,82).
1.2 Resiste con controricorso la sola P.C., la quale eccepisce preliminarmente l’inammissibilità del ricorso per cassazione per difetto di procura ad hoc in capo all’avvocatura dello Stato.
Tale eccezione non è fondata.
E’ infatti principio consolidato (Cass. SS.UU 3116-3118/06; Cass. 1925/08) che, a seguito del decreto legislativo 300/99 implicante la successione ex lege a titolo particolare dell’agenzia delle entrate nei poteri e nei rapporti giuridici strumentali all’adempimento dell’obbligazione tributaria, essa costituisce un distinto soggetto di diritto che ha facoltà di autonomamente avvalersi del patrocinio dell’avvocatura dello Stato (art.72 d.lgs. cit.); il cui intervento, pur dovendo essere richiesto con riferimento a singoli procedimenti e non mediante una convenzione di contenuto generale, non necessita tuttavia di una specifica procura. Si è, inoltre, in proposito osservato che: “in tema di contenzioso tributario, l’Avvocatura dello Stato, per proporre ricorso per cassazione in rappresentanza dell’Agenzia delle entrate, deve avere ricevuto da quest’ultima il relativo incarico, del quale, però, non deve farsi specifica menzione nel ricorso, atteso che l’art. 366, n. 5), cod. proc. civ., inserendo tra i contenuti necessari del ricorso “l’indicazione della procura, se conferita con atto separato”, fa riferimento esclusivamente alla procura intesa come negozio processuale attributivo dello “ius postulandi”, (peraltro, non necessario quando il patrocinio dell’Agenzia delle entrate sia assunto dall’Avvocatura dello Stato) e non invece al negozio sostanziale attributivo dell’incarico professionale al difensore” (Cass. 14785/11; in termini, con richiamo all’art. 1, 2 co., R.D. 1611/33; Cass. 11227/07).
2.1 Con il primo motivo di ricorso l’agenzia delle entrate lamenta – ex art. 360, 1 co. n. 3 cod.proc.civ. – violazione e falsa applicazione degli articoli 21 e 23 d.lvo 346/90. Per avere la Commissione Tributaria Regionale riconosciuto la deducibilità del debito verso le banche, nonostante che quest’ultimo fosse stato provato soltanto dai certificati rilasciati dagli istituti di credito ex articolo 23 cit., non anche mediante la produzione del titolo dal quale scaturiva il debito e dell’altra documentazione prescritta dall’articolo 21 cit.. A nulla rilevando, in proposito, il piano di riparto redatto ai fini della procedura espropriativa.
2.2 II motivo è infondato.
E’ vero che, in tema d’imposta sulle successioni, la deducibilità dei debiti della massa ereditaria è subordinata alle condizioni ed alle dimostrazioni, integranti sistema di prova legale, prescritte dagli artt. 21 segg. d.lgs. n. 346 del 1990 (Cass.n. 24547/07; ord. 4176/19 ed altre), sicché deve escludersi la deducibilità del debito di cui si offra la prova con un mezzo diverso da quelli così indicati dalla legge.
Su tale presupposto, effettivamente erronea deve ritenersi l’affermazione con la quale il giudice regionale ha ritenuto provato il debito del de cujus nei confronti delle banche sulla base altresì della prova (da reputarsi “atipica” rispetto al suddetto tassativo regime) costituita dal piano di riparto redatto nell’ambito della procedura espropriativa.
Ciò perché questo tipo di esposizione debitoria rientra anch’essa nel sistema di prova legale di cui alla normativa citata e, segnatamente, nell’articolo 23, 2 co. d.lvo 346/90, secondo cui: “La deduzione dei debiti verso aziende o istituti di credito, anche se risultanti nei modi indicati nel comma primo, è subordinata alla produzione di un certificato, rilasciato dall’ente creditore entro trenta giorni dalla richiesta scritta di uno dei soggetti obbligati alla dichiarazione della successione e controfirmato dal capo del servizio o dal contabile addetto al servizio. Il certificato deve attestare l’esistenza totale o parziale di ciascun debito con la specificazione di tutti gli altri rapporti debitori o creditori, compresi i riporti e le garanzie anche di terzi, esistenti con il defunto alla data di apertura della successione presso tutte le sedi, agenzie, filiali o altre ripartizioni territoriali dell’azienda o istituto di credito; per i saldi passivi dei conti correnti dal certificato deve risultare l’integrale svolgimento del conto dal dodicesimo mese anteriore all’apertura della successione o, se precedente, dall’ultimo saldo attivo”.
Ciò premesso in linea di principio, va però considerato che il richiamo del giudice di merito al suddetto piano di riparto (significativamente introdotto da “peraltro”) è stato da questi effettuato ad abundantiam e quale mero obiter, là dove la ragione decisoria esaustiva va invece individuata nell’osservazione immediatamente precedente, secondo cui gli eredi avevano fornito la prova, fin dal primo grado di giudizio, della posizione debitoria del de cujus nei confronti degli istituti di credito mediante – appunto – la “produzione dei relativi certificati rilasciati dagli enti creditori”.
Questi certificati sono stati dal giudice di merito ritenuti conformi alla prescrizione, pure richiamata in sentenza, di cui all’articolo 23, 2 co. cit; né tale effettiva rispondenza formale e contenutistica è stata contestata dall’amministrazione finanziaria.
Questa, infatti, si è limitata a sostenere che il certificato dell’istituto di credito fosse ex se insufficiente alla prova richiesta, senza spingersi ad affermare che i certificati prodotti in giudizio dai coeredi non rientrassero, in concreto, nel modello di legge.
Senonchè, per quanto concerne l’affermazione di inadeguatezza dimostrativa dei certificati in quanto tali, basterà evidenziare come la legge subordini la deduzione del debito verso l’istituto di credito alla sola produzione di tale documento probatorio, ritenuta, al contempo, necessaria e sufficiente.
Dal che si evince come, in base al suddetto sistema di prova legale, la produzione del certificato rilasciato dall’istituto di credito sia indispensabile quand’anche il debito trovi riscontro nelle scritture contabili del de cujus (qualora questi fosse assoggettato all’obbligo della loro tenuta), ovvero in altro documento costituente prova legale ai sensi del primo comma dell’articolo 23,; e, al tempo stesso, bastevole pur in mancanza di altre risultanze dimostrative.
Ove effettivamente rispondente al contenuto prescritto dal secondo comma di quest’ultima disposizione (come, nella specie, ritenuto dal giudice di merito), il certificato rilasciato dall’istituto di credito risponde poi – in quanto basato sulle scritture contabili della banca – al requisito della data certa anteriore all’apertura della successione che, ai sensi del primo comma dell’articolo 21, Ia co. cit., deve assistere il titolo della deduzione.
3.1 Con il secondo motivo di ricorso l’agenzia delle entrate lamenta violazione dell’articolo 22 d.lvo 346/90. Per avere la Commissione Tributaria Regionale attribuito efficacia probatoria del debito verso le banche ad un piano di riparto in procedura espropriativa che concerneva la posizione debitoria non soltanto del de cujus ma anche della moglie (e coerede) P.C., con conseguente deducibilità soltanto pro-quota ex articolo 22, 4 co. d.lvo 346/90.
3.2 Questo motivo è inammissibile per almeno due ragioni.
In primo luogo in esso non si dà conto della rituale introduzione in giudizio, da parte dell’amministrazione finanziaria, di questa specifica causa di disconoscimento della deduzione di passività ereditaria. Dalle risultanze di causa emerge come l’agenzia delle entrate abbia ritenuto tout court inopponibile il debito del de cujus verso le banche in quanto non assistito dalla allegazione del ‘titolo’ giustificativo (sull’erroneo presupposto della sua necessità pur in presenza di certificati di banca formalmente e sostanzialmente corretti); per contro, non risulta che la stessa amministrazione finanziaria (nè il contrario viene da quest’ultima argomentato in ricorso, con conseguente difetto di specificità ed autosufficienza del medesimo ex art.366 cod.proc.civ.) avesse eccepito altresì la solo parziale deducibilità (pro-quota) del debito ex articolo 22, quarto comma, d.lvo 346/90. Disposizione, quest’ultima, la cui applicazione presupponeva necessariamente la rituale deduzione dei suoi presupposti fattuali; appunto, la deduzione della effettiva contitolarità del debito su tutti i rapporti bancari in questione, così come insorti presso tutti gli istituti di credito interessati.
In secondo luogo, il motivo si indirizza verso un documento probatorio del credito (il già richiamato piano di riparto) che, per le indicate ragioni, deve in realtà ritenersi ininfluente ai fini di causa; posto che la prova del debito verso le banche è stato dal giudice di merito principalmente ed essenzialmente ravvisata – nella corretta applicazione dell’articolo 23,, 2 co.cit. – nel certificato rilasciato dagli istituti di credito, e non nel piano di riparto della procedura espropriativa. Da ciò si evince come la presente doglianza dimostri in realtà di non aver neppure colto la suddetta ratio decidendi, in quanto finalizzata a far emergere una circostanza (la contitolarità debitoria asseritamente emergente dalla procedura di espropriazione del credito fondiario) che andava, se mai, mirata non sul piano di riparto, ma sui certificati (se e quando la stessa condizione di contitolarità risultasse anche da questi ultimi, con riferimento ai vari rapporti contrattuali in essi contemplati).
4.1 Con il terzo motivo di ricorso l’agenzia delle entrate deduce violazione e falsa applicazione dell’articolo 34 d.lvo 346/90. Per avere la Commissione Tributaria Regionale disatteso il valore rettificato degli immobili esposti in dichiarazione ai nn. 9), 10), e 11) sulla base, non già dai prezziari OMI concernenti immobili analoghi compravenduti non oltre tre anni dall’apertura della successione (art.34 cit.), bensì da una perizia di stima redatta, nella suddetta procedura espropriativa n. 265/84, il 7 febbraio 1987 e, dunque, oltre 10 anni prima della data di apertura della successione. Inoltre, quanto così stimato dal CTU (lire 1.393.000.000) risultava disatteso dal ricavato della vendita degli immobili avvenuta, poco dopo l’apertura della successione, il 9 febbraio 1999, ed attestante un valore di mercato di lire 2.447.000.000, non lontano da quello accertato in rettifica dall’ufficio (lire 2.370.000.000).
Con il quarto motivo di ricorso si lamenta analoga doglianza di cui al motivo che precede, ma sotto il profilo “dell’omesso esame” di un fatto decisivo per il giudizio (art. 360, 1 co. n. 5 cod.proc.civ.), appunto costituito dal valore degli immobili.
4.2 Questi due motivi di ricorso, suscettibili di trattazione unitaria per la stretta connessione delle questioni giuridiche poste, sono fondati.
L’art. 34, 3 co., d.lgs. 546/92 prescrive che: “il valore dei beni immobili e dei diritti reali immobiliari è determinato dall’ufficio, avendo riguardo ai trasferimenti a qualsiasi titolo ed alle divisioni e perizie giudiziarie, anteriori di non oltre tre anni alla data di apertura della successione, che hanno avuto per oggetto gli stessi immobili o altri di analoghe caratteristiche e condizioni, ovvero al reddito netto di cui gli immobili sono suscettibili, capitalizzato al tasso mediamente applicato alla detta data e nella stessa località per gli investimenti immobiliari, nonché ad ogni altro elemento di valutazione, anche sulla base di indicazioni fornite dai comuni”.
Il giudice regionale non ha fatto applicazione di nessuno di tali criteri normativi, recependo invece il valore immobiliare desumibile da una perizia (quella resa nella procedura espropriativa) risalente a circa dieci anni prima dell’apertura della successione.
Ora, è vero che il criterio dei prezziari OMI non poteva assurgere a prova del valore rilevante ai fini della determinazione della base imponibile, trattandosi di criterio meramente indiziario necessitante di ulteriori riscontri (così, da ultimo, Cass.n. ord. 2155/19); e tuttavia la Commissione Tributaria Regionale – disattendendo il disposto normativo – non ha considerato i riscontri a tali prezziari forniti dall’amministrazione finanziaria (quali il valore di mercato, sostanzialmente in linea con quello rettificato, desumibile dalla vendita degli stessi immobili circa due anni dopo l’apertura della successione), né ha mostrato di aver preso in esame qualsivoglia elemento idoneo a far ritenere che tali listini potessero trovare definitiva ed esauriente smentita nel solo dato costituito da un valore di perizia risalente a ben 10 anni prima dell’apertura della successione.
Si è affermato che: “In tema di imposta sulle successioni e le donazioni, l’art. 34, comma terzo, del d.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, nella parte in cui prede che, ai fini della rettifica del valore dei beni immobili, debba aversi riguardo ai trasferimenti a qualsiasi titolo ed alle divisioni e perizie giudiziarie, anteriori di non oltre tre anni, non comporta l’immodificabilità del valore di mercato risultante da detti atti, ma si limita a ad indicare un parametro certo di confronto in base al quale l’Ufficio deve determinare il valore del bene in comune commercio: tale prescrizione deve pertanto ritenersi osservata non solo qualora, all’esito della verifica, quel valore venga confermato, ma anche nel caso in cui esso sia preso a base dell’ulteriore valutazione che l’Ufficio è tenuto a compiere, nell’esercizio del potere-dovere di controllo del valore dichiarato” (Cass.n. 21531/07, così Cass.n. 963/18).
Nella concretezza del caso, la violazione dei parametri legali si è dunque associata ad una motivazione del tutto apodittica ed apparente, perché totalmente priva dell’indicazione del sostrato razionale per cui gli elementi di stima forniti dall’amministrazione finanziaria (riscontrati dal prezzo di alienazione) dovevano ritenersi senz’altro minusvalenti rispetto alla suddetta (assai risalente) perizia.
Ne segue, in accoglimento di queste due doglianze, la cassazione della sentenza impugnata ed il rinvio alla Commissione Tributaria Regionale della Sicilia la quale, in diversa composizione, riconsidererà la fattispecie alla luce dei principi indicati, provvedendo anche sulle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
– accoglie il terzo ed il quarto motivo di ricorso, respinti gli altri;
– cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, alla Commissione Tributaria Regionale della Sicilia in diversa composizione.