CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 maggio 2019, n. 11948
Licenziamento – Svolgimento, in maniera abituale, di attività extra lavorativa di consulente del lavoro – Condotta truffaldina nei confronti dell’Inps
Fatti di causa
1. La Corte d’Appello di Bari ha respinto il reclamo proposto da P. M. avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede che, all’esito del giudizio di opposizione ex art. 1, comma 51, della legge n. 92/2012, aveva rigettato la domanda volta ad ottenere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento intimato dall’Agenzia delle Dogane in data 25 maggio 2012 e la conseguente condanna dell’amministrazione alla reintegrazione nel posto di lavoro in precedenza occupato ed al risarcimento del danno, da quantificarsi in misura pari alle retribuzioni maturate dalla data dell’illegittimo recesso.
2. La Corte territoriale ha premesso in punto di fatto che al M. era stato contestato di aver svolto negli anni dal 2000 al 2003, in maniera abituate, attività extra lavorativa di consulente del lavoro, mai autorizzata, e di avere posto in essere una condotta truffaldina nei confronti dell’Inps, prodigandosi per far ottenere a numerosi braccianti agricoli indebite prestazioni economiche nonché vantaggi contributivi ed assicurativi per giornate mai lavorate.
I procedimenti disciplinari, avviati nell’anno 2004 e poi riuniti, erano stati sospesi e riavviati a seguito del passaggio in giudicato della sentenza penale che aveva dichiarato il non luogo a procedere per intervenuta prescrizione dei reati ascritti al M..
3. Il giudice d’appello ha respinto i motivi di reclamo rilevando, innanzitutto, che, contrariamente a quanto asserito dal reclamante, il Tribunale non aveva fondato l’affermazione della responsabilità disciplinare sul giudicato penale, avendo, al contrario, ammesso la prova testimoniale richiesta dall’opponente e valutato le sue risultanze unitamente agli atti del procedimento penale, senza dubbio utilizzabili dal giudice civile, ivi compresi quelli assunti nella fase delle indagini preliminari.
4. Ha ritenuto condivisibili le conclusioni alle quali il Tribunale era pervenuto, all’esito della fase sommaria e del giudizio di opposizione, evidenziando l’inattendibilità dei testi addotti dal reclamante, i quali nell’immediatezza dei fatti avevano fornito una diversa versione, sicché le loro dichiarazioni sulla gratuità e saltuarietà della collaborazione prestata dal M. all’attività gestita dal coniuge apparivano frutto di un successivo aggiustamento. Ha aggiunto che nel corso del procedimento penale lo stesso M., dinanzi al GIP, aveva ammesso di aver svolto attività di consulenza del lavoro per alcune aziende. Infine ha richiamato le sommarie informazioni rese da imprenditori agricoli alla Polizia giudiziaria per ritenere fondati entrambi gli addebiti posti alla base dell’intimato licenziamento.
5. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso P. M. sulla base di tre motivi, ai quali l’Agenzia delle Dogane ha resistito con tempestivo controricorso.
Ragioni della decisione
1.1. Con il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., il ricorrente denuncia «violazione dell’art. 68, commi 1 e 2, dell’art. 66, comma 7, e dell’art. 67, comma 6, lett. d) C.C.N.L. Agenzie Fiscali 2002-2005» e sostiene, in sintesi, che non poteva essere disposta la sospensione del procedimento disciplinare in quanto i fatti contestati non erano stati commessi in servizio. Non poteva, pertanto, trovare applicazione l’art. 68 del CCNL all’epoca vigente, che si riferiva unicamente ai reati connessi con il rapporto di pubblico impiego o denunciati all’autorità giudiziaria dallo stesso datore di lavoro. Ne trae, quale conseguenza, la tardività della sanzione disciplinare inflitta, perché irrogata quando da tempo era decorso il termine perentorio di 120 giorni previsto dall’art. 66, comma 7, del richiamato C.C.N.L.. Aggiunge che il processo penale si era concluso con sentenza di “assoluzione per prescrizione” sicché l’Agenzia non poteva richiamare a fondamento dell’intimato recesso l’art. 67, comma 6, lett. d), del contratto collettivo che presuppone l’accertamento della responsabilità penale dell’impiegato, responsabilità in relazione alla quale la prova non era stata raggiunta neppure nel giudizio civile.
1.2. La seconda censura, formulata ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., addebita alla sentenza impugnata la violazione degli artt. 2119 e 2697 cod. civ. nonché dell’art. 116 cod. proc. civ., dalla quale sarebbe derivata una errata ricostruzione dei fatti. Il ricorrente sostiene che la Corte territoriale avrebbe dovuto valorizzare solo le testimonianze rese dai testi escussi nella fase dell’opposizione, non potendo attribuire valore alcuno alle sommarie informazioni acquisite durante la fase delle indagini preliminari, in quanto assunte in assenza di contraddittorio e senza che i testi assumessero la responsabilità che deriva dalla testimonianza. Aggiunge che l’onere di provare i fatti posti a fondamento del recesso grava sul datore di lavoro che nella specie non lo aveva assolto in quanto non era stata mai «acquisita alcuna prova certa ed inconfutabile dello svolgimento della presunta attività di lavoro extra istituzionale non autorizzata dall’amministrazione», la quale, inoltre, non avendo presentato una denuncia penale aveva, evidentemente, ritenuto che i fatti non avessero quella gravità necessaria per giustificare il licenziamento.
1.3. Con il terzo motivo il ricorrente si duole, ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ., della «violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c., 654 c.p.p. e 111 Cost.» «per avere i giudici di merito erroneamente ritenuto vincolante nel giudizio civile la sentenza n. 1376 del 6/7/2011 di proscioglimento per prescrizione». Sostiene che solo nel caso di sentenza penale irrevocabile di condanna o di assoluzione possono essere valorizzate le prove assunte nel dibattimento penale, mentre in ogni altra fattispecie la commissione dei fatti ritenuti di rilevanza disciplinare deve essere provata e non possono essere a tal fine valorizzati gli atti di indagine che non siano entrati a far parte del fascicolo del dibattimento. Non poteva, pertanto, il giudice di merito ritenere che fosse stata provata la truffa asseritamente consumata ai danni dell’Inps, perché solo in caso di sentenza di condanna definitiva sussiste la prova certa ed evidente della colpevolezza.
2. Il primo motivo è inammissibile, nella parte in cui si duole dell’illegittimità della sospensione, dalla quale fa derivare la tardività del recesso.
La sentenza impugnata non affronta la questione dei rapporti fra procedimento disciplinare e processo penale e, nel riportare la sintesi dei motivi di reclamo, evidenzia che il M. con il ricorso in appello aveva censurato la pronuncia di prime cure perché: a) il Tribunale si era limitato a recepire l’esito complessivo del giudizio penale, violando l’art. 654 cod. proc. pen. in quanto nessuna sentenza di condanna era stata emessa a suo carico; b) l’amministrazione avrebbe dovuto effettuare indagini e compiere un’autonoma valutazione delle condotte asseritamente tenute dal dipendente; c) i testi escussi nel giudizio civile avevano escluso lo svolgimento di un’attività incompatibile con il rapporto di impiego.
Non vi è cenno ad un motivo di reclamo volto a riproporre la denuncia di tardività della sanzione disciplinare, che, come si dà atto nella stessa sentenza impugnata, era stata respinta dal giudice dell’opposizione.
Nella giurisprudenza di questa Corte è consolidato l’orientamento secondo cui, qualora una determinata questione giuridica, che implichi un accertamento di fatto, non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga detta questione in sede di legittimità ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità, non solo di allegarne l’avvenuta deduzione in entrambi i gradi del giudizio di merito, ma anche di specificare in quale atto e con quale modalità l’allegazione sia avvenuta, onde dare modo alla Corte di cassazione di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa (cfr. fra le più recenti Cass. n. 2038/2019 e Cass. n. 15430/2018).
Detto onere non è stato assolto dal ricorrente, che si è limitato ad argomentare sulla illegittimità della sospensione, senza allegare di avere proposto uno specifico motivo di reclamo avverso il capo della sentenza di primo grado che aveva disatteso l’eccezione. Si deve, pertanto, ritenere che il motivo non sia stato proposto e che si sia formato giudicato interno sulla tempestività della sanzione, accertata dal Tribunale, con conseguente inammissibilità in parte qua del ricorso per cassazione.
2.1. Il motivo è, poi, manifestamente infondato lì dove assume che solo una sentenza penale di condanna avrebbe legittimato la sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso.
L’art. 67 del CCNL 28.5.2004 per il personale del comparto delle Agenzie Fiscali, individuate dall’art. 3 CCNQ 18.12.2002, prevede che il licenziamento senza preavviso si applica in caso di … b) condanna passata in giudicato per un delitto commesso in servizio o fuori servizio che, pur non attenendo in via diretta ai rapporto di lavoro, non ne consenta neanche provvisoriamente la prosecuzione per la sua specifica gravità,… d) commissione in genere – anche nei confronti di terzi – di fatti o atti, anche dolosi, che, pur costituendo o meno illeciti di rilevanza penale, sono di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro e) condanna passata in giudicato: 1. per i delitti indicati nell’art. 15, commi 1 e 4 septies, lettere a), b) limitatamente all’art. 316 del codice penale, c), ed e) della legge n. 55 del 1990 e successive modificazioni e integrazioni; 2. quando alla condanna consegua comunque l’interdizione perpetua dai pubblici uffici; 3. per i delitti previsti dall’art. 3, comma 1 della legge n. 97 del 2001.
Solo per le fattispecie tipizzate nelle lettere b) ed e) il recesso viene ricollegato al passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna, mentre nell’ipotesi di cui alla lettera d) rileva la gravità della condotta e l’irrogazione della sanzione disciplinare espulsiva è consentita, a prescindere dalla rilevanza penale dell’azione, in relazione a «fatti o atti anche dolosi che, pur costituendo o meno illeciti di rilevanza penale, sono di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto» (Cass. n. 21260/2018). Non vi è dubbio che in detta fattispecie possa essere sussunta anche la condotta del dipendente astrattamente idonea ad integrare un delitto quando, per il sopravvenire di una causa estintiva del reato, non sia stato possibile accertare con efficacia di giudicato la responsabilità penale.
3. La seconda censura, formulata ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., è parimenti inammissibile, perché il reclamo risulta proposto in data 24 settembre 2015, nella vigenza dell’art. 348 ter, comma 5, inserito dall’art. 54, comma 1, lett. a) del d.l. 22.6.2012 n. 83, convertito nella legge 7.8.2012 n. 134.
Questa Corte ha già affermato, e deve essere qui ribadito, che « nell’ipotesi di “doppia conforme”, prevista dall’art. 348-ter, comma 5, c.p.c. (applicabile, ai sensi dell’art. 54, comma 2, del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012), il ricorrente in cassazione per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse.» ( Cass. n. 26774/2016).
Nella specie il ricorrente non ha indicato le ragioni di diversità fra le due pronunce, diversità che va all’evidenza esclusa, avendo la Corte territoriale prestato piena adesione alla ricostruzione operata dal giudice di prime cure.
3.1. A sostegno del preteso vizio motivazionale, inoltre, il M. ha richiamato giurisprudenza di questa Corte non più attuale, perché relativa all’interpretazione dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., nel testo antecedente alle modifiche apportate dal d.l. n. 83/2012.
Le Sezioni Unite di questa Corte ( Cass. S.U. 22.9.2014 n. 19881 e Cass. S.U. 7.4.2014 n. 8053) hanno osservato che la ratio del recente intervento normativo è espressa dai lavori parlamentari lì dove si afferma che la riformulazione dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. ha la finalità di evitare l’abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione, non strettamente necessitati dai precetti costituzionali, e, quindi, di supportare la funzione nomofilattica propria della Corte di cassazione, quale giudice dello iusconstitutionis e non dello ius Utigatoris. Il vizio di motivazione, quindi, rileva solo allorquando si risolva nella violazione dell’art. 132 cod. proc. civ., ravvisabile nel caso in cui la motivazione o manchi del tutto – nel senso che alla premessa dell’oggetto del decidere risultante dallo svolgimento del processo segue l’enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione – ovvero esista formalmente come parte del documento, ma le sue argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum. Esula, invece, dal vizio di violazione di legge la verifica della sufficienza e della razionalità della motivazione sulle quaestiones facti, implicante un raffronto tra le ragioni del decidere adottate ed espresse nella sentenza impugnata e le risultanze del materiale probatorio sottoposto al vaglio del giudice di merito.
3.2. Le Sezioni Unite hanno anche precisato che il vizio tipizzato dall’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., nella formulazione attuale, non riguarda la motivazione della sentenza ma concerne, invece, l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo nel senso che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia. L’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti.
Il motivo, quindi, è validamente formulato ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. solo qualora il ricorrente indichi il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”.
Nel caso di specie la censura, non formulata nel rispetto degli oneri sopra indicati, si risolve in un’inammissibile critica della valutazione delle risultanze processuali riservata al giudice di merito, alla quale ne contrappone una difforme, sollecitando questa Corte ad esprimere un giudizio di fatto, sulla maggiore o minore attendibilità dei testi escussi, non consentito in sede di legittimità.
4. Infine il ricorso è infondato anche nella parte in cui assume che, essendo mancato l’accertamento con sentenza passata in giudicato della responsabilità penale del M., l’amministrazione, prima, ed il giudice, poi, avrebbero dovuto procedere ad un’autonoma attività di indagine, senza poter utilizzare gli atti assunti nel procedimento penale al di fuori del dibattimento.
Il Collegio intende dare continuità all’orientamento consolidato nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui, poiché nulla impedisce alla P.A. di avvalersi a fini disciplinari degli atti del procedimento penale, «l’amministrazione datrice di lavoro è libera di valutare autonomamente gli atti del processo penale e di ritenere che i medesimi forniscano, senza bisogno di ulteriori acquisizioni ed indagini, sufficienti elementi per la contestazione di illeciti disciplinari al proprio dipendente» ( Cass. n. 21260/2018 che richiama Cass. nn. 8410/2018, 5284/2017, 19183/2016, 758/2006).
E’ stato anche affermato che il giudice, ai fini del proprio convincimento, può autonomamente valutare, nel contraddittorio tra le parti, ogni elemento dotato di efficacia probatoria e, dunque, anche le prove raccolte in un processo penale e, segnatamente le dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni testimoniali, e ciò anche se sia mancato il vaglio critico del dibattimento, potendo la parte contestare, nell’ambito del giudizio civile, i fatti così acquisiti in sede penale.» ( Cass. n. 20562/2018).
Quanto, poi, alla rilevanza della sentenza penale nel successivo procedimento disciplinare opera il principio generale secondo cui il giudicato non preclude, in sede disciplinare, «una rinnovata valutazione dei fatti accertati dal giudice penale attesa la diversità dei presupposti delle rispettive responsabilità, fermo solo il limite dell’immutabilità dell’accertamento dei fatti nella loro materialità – e dunque, della ricostruzione dell’episodio posto a fondamento dell’incolpazione – operato nel giudizio penale» ( Cass. S.U. 9 luglio 2015 n. 14344 in tema di responsabilità disciplinare dei magistrati). Il giudicato di assoluzione e, a maggior ragione, la sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato non determinano l’automatica archiviazione del procedimento disciplinare perché, fermo restando che il fatto non può essere ricostruito in termini difformi, non si può escludere che lo stesso, inidoneo a fondare una responsabilità penale, possa comunque integrare un inadempimento sanzionabile sul piano disciplinare.
A detti principi si sono correttamente attenuti i giudici di merito che, contrariamente a quanto asserito dal ricorrente, non hanno preteso di attribuire efficacia di giudicato alla sentenza penale di proscioglimento per intervenuta prescrizione, bensì, in relazione ad entrambi gli addebiti contestati al M., dopo avere dato spazio alle richieste istruttorie del ricorrente, hanno proceduto ad una complessiva valutazione del materiale probatorio acquisito in sede civile e nel corso del procedimento penale, ed hanno ritenuto provato sia lo svolgimento dell’attività di consulente non autorizzata, sia la condotta truffaldina, finalizzata a far ottenere ai propri assistiti erogazioni di trattamenti assistenziali e previdenziali non dovuti.
5. In via conclusiva il ricorso deve essere rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, come modificato dalla L. 24.12.12 n. 228, deve darsi atto della ricorrenza delle condizioni previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato dovuto dal ricorrente.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in € 4.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso delle spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.
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