CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 marzo 2018, n. 5395
Nullità del termine – Clausola di durata – Mancanza della specificità – Conversione del contratto – Inapplicabilitá – Legge regionale – Società a totale partecipazione pubblica – Metodi di reclutamento del personale – Rispetto dei criteri di trasparenza, pubblicità e imparzialità
Fatti di causa
1. La Corte di Appello di Cagliari – Sezione Distaccata di Sassari, in riforma della sentenza del Tribunale di Tempio Pausania che aveva parzialmente accolto il ricorso, ha respinto le domande proposte da L.M. il quale, nel convenire in giudizio la A. s.p.a., aveva domandato: la dichiarazione di nullità del termine apposto al contratto a tempo determinato decorrente dall’8/7/2010; l’accertamento della sussistenza fra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato far tempo dalla stessa data o dal 25 ottobre 2010; la condanna della società alla riammissione del lavoratore nel posto di lavoro in precedenza occupato ed al risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni maturate dalla cessazione del rapporto o in subordine all’indennità prevista dall’art. 32 della legge n. 183/2010.
2. La Corte territoriale ha condiviso la sentenza impugnata quanto alla ritenuta illegittimità della clausola di durata ed ha evidenziato che la stessa mancava della necessaria specificità perché il datore di lavoro si era limitato ad un generico richiamo a tutte le ragioni che in astratto consentono il ricorso al tipo contrattuale, senza fornire alcuna specificazione relativa all’ambito territoriale, al numero dei lavoratori da sostituire, alle mansioni, al luogo della prestazione.
3. Il giudice di appello ha, però, escluso che potesse essere disposta l’invocata conversione del contratto impedita, pur nell’inapplicabilitá dell’art. 23 della L.R. Sardegna n. 16/1974, dall’art. 18 del d.l. n. 112/2008, convertito dalla legge n. 133/2008, con il quale il legislatore ha imposto alle società a totale partecipazione pubblica di adottare metodi di reclutamento del personale rispettosi dei criteri di trasparenza, pubblicità e imparzialità.
4. La Corte territoriale ha anche respinto la domanda di risarcimento del danno, perché dello stesso non era stata fornita prova dal lavoratore, il quale non poteva neppure invocare l’applicazione dell’art. 32 della legge n. 183/2010.
5. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso L.M. sulla base di tre motivi, ai quali ha opposto difese l’A. s.p.a..
Ragioni della decisione
1.1 Il primo motivo di ricorso denuncia «violazione e falsa applicazione dell’art. 18, 2° comma, del d.l. 112/2008, convertito in legge n. 133/2008, nonché conseguente violazione e/o falsa applicazione del d.lgs. n. 368 del 2001… omessa e comunque contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia costituito dall’esistenza o meno di una modalità di reclutamento rispettosa dei criteri di trasparenza, pubblicità e imparzialità; violazione e falsa applicazione dell’art. 36 1° comma Cost. e della direttiva 1999/70 CE». Il ricorrente richiama giurisprudenza di questa Corte per sostenere che, attesa la natura privata e non pubblica della società, dalla previsione per le società partecipate di procedure trasparenti ed imparziali di assunzione non si può far discendere il divieto di conversione del contratto a termine affetto da nullità in rapporto a tempo indeterminato, perché ciò determinerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento fra lavoratori che prestano la loro attività alle dipendenze di soggetti privati.
1.2. Con la seconda critica il ricorrente si duole della «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 5, quindicesimo e diciasettesimo comma, del d.l. 10 novembre 1972 n. 702 convertito con modificazioni nella L. 8 gennaio 1979 n. 3 nonché degli artt. 3, 36 e 97 Cost.» per le medesime ragioni indicate nel primo motivo, ossia perché il diritto del lavoratore precario, riconosciuto dalla direttiva europea e dal d.lgs. n. 368/2001, non può essere mortificato solo in considerazione della partecipazione pubblica al capitale della società privata.
1.3. Il terzo motivo lamenta la «violazione del principio di effettività del risarcimento del danno e conseguente vizio di motivazione – violazione e falsa applicazione dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010 – violazione degli artt. 1218, 1219, 1223, 1224, 1225 e 1226 cod. civ.» perché la Corte territoriale, una volta ritenuto illegittimo il termine apposto al contratto, avrebbe dovuto applicare i principi affermati dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 5072 del 2016 e, quindi, riconoscere il danno nella misura prevista dall’art. 32 della legge n. 183/2010, a prescindere dalla prova del pregiudizio subito dal lavoratore.
2. I primi due motivi, che per la loro stretta connessione logico-giuridica possono essere unitariamente trattati, sono infondati.
L’Azienda Regionale Sarda Trasporti, istituita con personalità giuridica di diritto pubblico dalla l.r. Sardegna n. 3 del 9 giugno 1970 e successivamente disciplinata dalla l.r. Sardegna n. 16 del 20 giugno 1974, è stata trasformata dalla l.r. Sardegna n. 21 del 7 dicembre 2005 «in società per azioni, a partecipazione azionaria pubblica e privata, con il vincolo della proprietà pubblica maggioritaria e con la denominazione di “A. Spa”» (art. 30). La stessa legge ha previsto che «le azioni della società di proprietà regionale sono attribuite all’Assessorato regionale degli enti locali, finanze e urbanistica che esercita i diritti di azionista secondo le direttive emanate dalla Giunta regionale».
Quanto ai rapporti di lavoro il legislatore regionale, oltre a stabilire che «tutto il personale dell’A. transita nella società per azioni, conservando il trattamento economico e normativo del CCNL autoferrotranvieri e degli accordi integrativi in essere» (art. 30, comma 6), ha espressamente escluso (artt. 31 e 47) che, a partire dalla data di trasformazione dell’ente in società per azioni, possano trovare ancora applicazione le norme dettate dalla l.r. n. 16/1974, che all’art. 23 prevedeva per le assunzioni il previo esperimento di concorso pubblico.
Quest’ultima disposizione, ancora in questa sede richiamata dalla difesa dell’A. s.p.a., non è, dunque, applicabile alla fattispecie, giacché la norma sopravvenuta (art. 47 lett. b della l.r. n. 21/2005) è chiara nell’estendere l’effetto abrogativo all’intera disciplina riguardante l’Azienda Regionale, con il solo limite della «garanzia di conservazione dei trattamenti economici e previdenziali goduti all’entrata in vigore della presente legge» (art. 46).
La questione qui controversa non è pertanto sovrapponibile a quella già decisa da questa Corte con le sentenze nn. 4630, 4631, 4632 e 5229 del 2017 (negli stessi termini Cass. nn. 4825, 5286, 5287, 5315, 5319, 5456, 5457, 5555, 6413 del 2017) che, in relazione a contratti a termine affetti da nullità stipulati dall’A. nella vigenza della legge regionale n. 16/1974, hanno fatto discendere dalla necessaria concorsualità dell’assunzione l’impossibilità dell’automatica trasformazione del rapporto in contratto a tempo indeterminato, rilevando che la conversione finirebbe per eludere le garanzie imposte a tutela di un interesse pubblico.
2.1. Va, però, detto che il principio affermato dalle richiamate pronunce, in continuità con precedenti arresti di questa Corte (Cass. n. 11163/2008; Cass. S.U. n. 4685/2015; Cass. n. 26347/2016), orienta anche ai fini della soluzione del caso che oggi viene in rilievo, perché il contratto della cui legittimità si discute è stato stipulato nella vigenza dell’art. 18 del d.l. n. 112/2008, convertito con modificazioni dalla legge n. 133/2008 che, nel testo applicabile ratione temporis risultante dalle modifiche apportate dalla legge n. 102/2009 di conversione del d.l. n. 78/2009, al comma 1 estende alle società a totale partecipazione pubblica che gestiscono servizi pubblici locali i criteri stabiliti in tema di reclutamento del personale dall’art. 35, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, ed al comma 2 prescrive alle «altre società a partecipazione pubblica totale o di controllo» di adottare «con propri provvedimenti criteri e modalità per il reclutamento del personale e per il conferimento degli incarichi nel rispetto dei principi, anche di derivazione comunitaria, di trasparenza, pubblicità e imparzialità». Il comma 2 bis prevede, inoltre, che « le disposizioni che stabiliscono, a carico delle amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, divieti o limitazioni alle assunzioni di personale si applicano, in relazione al regime previsto per l’amministrazione controllante, anche alle società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo che siano titolari di affidamenti diretti di servizi pubblici locali senza gara, ovvero che svolgano funzioni volte a soddisfare esigenze di interesse generale aventi carattere non industriale né commerciale, ovvero che svolgono attività nei confronti della pubblica amministrazione a supporto di funzioni amministrative di natura pubblicistica inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi del comma 5 dell’articolo 1 della legge 30 dicembre 2004, n. 311».
Con la disposizione in commento il legislatore nazionale, pur mantenendo ferma la natura privatistica dei rapporti di lavoro, sottratti alla disciplina dettata dal d.lgs. n. 165/2001, ha inteso estendere alle società partecipate i vincoli procedurali imposti alle amministrazioni pubbliche nella fase del reclutamento del personale, perché l’erogazione di servizi di interesse generale pone l’esigenza di selezionare secondo criteri di merito e di trasparenza i soggetti chiamati allo svolgimento dei compiti che quell’interesse perseguono (C.d.S. – Sezione Consultiva per gli atti normativi n. 2415/2010).
La norma recepisce i principi affermati dalla Corte Costituzionale già a partire dalla sentenza n. 466/1993, con la quale il Giudice delle leggi ha osservato che il solo mutamento della veste giuridica dell’ente non è sufficiente a giustificare la totale eliminazione dei vincoli pubblicistici, ove la privatizzazione non assuma anche «connotati sostanziali, tali da determinare l’uscita delle società derivate dalla sfera della finanza pubblica».
La giurisprudenza costituzionale distingue, dunque, la privatizzazione sostanziale da quella meramente formale (Corte Cost. nn. 29/2006, 209/2015, 55/2017) e sottolinea che in detta seconda ipotesi viene comunque in rilievo l’art. 97 Cost., del quale l’art. 18 del d.l. n. 112/2008 costituisce attuazione, tanto da vincolare il legislatore regionale ex art. 117 Cost. (Corte Cost. n. 68/2011).
2.2. In tema di società partecipate le Sezioni Unite di questa Corte, chiamate a pronunciare sul riparto di giurisdizione fra giudice ordinario, contabile ed amministrativo, hanno in estrema sintesi evidenziato che la partecipazione pubblica non muta la natura di soggetto privato della società la quale, quindi, resta assoggettata al regime giuridico proprio dello strumento privatistico adoperato, salve specifiche disposizioni di segno contrario o ragioni ostative di sistema che portino ad attribuire rilievo alla natura pubblica del capitale impiegato e del soggetto che possiede le azioni della persona giuridica (cfr. fra le più recenti Cass. S.U. n. 24591/2016 e con riferimento ai rapporti di lavoro Cass. S.U. n. 7759/2017).
Detta ricostruzione sistematica è stata fatta recentemente propria dal legislatore che all’art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 165/2016 (Testo Unico delle società a partecipazione pubblica) ha previsto che «Per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato».
Quanto ai rapporti di lavoro l’art. 19 richiama al comma 1 «le disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile, delle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, ivi incluse quelle in materia di ammortizzatori sociali, secondo quanto previsto dalla normativa vigente, e dai contratti collettivi» facendo, però, salve le diverse disposizioni speciali dettate dallo stesso decreto che, per quel che qui rileva, al comma 2 dell’art. 19 impone alle società a controllo pubblico di stabilire «criteri e modalità per il reclutamento del personale nel rispetto dei principi, anche di derivazione europea, di trasparenza, pubblicità e imparzialità e dei principi di cui all’articolo 35, comma 3, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165» ed al comma 4 prevede espressamente la nullità dei contratti di lavoro stipulati in difetto dei provvedimenti e delle procedure di cui al comma 2.
Il legislatore del Testo Unico, quindi, pur ribadendo la non assimilabilità delle società partecipate agli enti pubblici e l’inapplicabilità ai rapporti di lavoro dalle stesse instaurati delle disposizioni dettate dal d.lgs. n. 165/2001, ha previsto significative deroghe alla disciplina generale, che trovano la loro giustificazione nella natura del socio unico o maggioritario e negli interessi collettivi da quest’ultimo curati, sia pure attraverso il ricorso allo strumento societario.
2.3. Si è dato conto dei principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità nonché dell’evoluzione del quadro normativo perché da entrambi non si può prescindere nel pronunciare sulle conseguenze che derivano dalla violazione dell’art. 18 del d.l. n. 112/2008 e sui riflessi della normativa speciale rispetto a quella generale dettata in tema di contratti di lavoro flessibile.
Quanto al primo aspetto, premesso che non può dubitarsi del carattere imperativo della disposizione in commento, ritiene il Collegio che l’omesso esperimento delle procedure concorsuali previste dal comma 1 e di quelle selettive richiamate nel comma 2 determini la nullità del contratto ai sensi dell’art. 1418, comma 1, cod. civ. perché la violazione attiene al momento genetico della fattispecie negoziale e, quindi, la stessa non può essere solo fonte di responsabilità a carico del contraente inadempiente.
Le Sezioni Unite di questa Corte, nel delimitare l’ambito delle cosiddette nullità virtuali, hanno osservato che in linea generale occorre tener conto della «tradizionale distinzione tra norme di comportamento dei contraenti e norme di validità del contratto: la violazione delle prime, tanto nella fase prenegoziale quanto in quella attuativa del rapporto, ove non sia altrimenti stabilito dalla legge, genera responsabilità …. ma non incide sulla genesi dell’atto negoziale, quanto meno nel senso che non è idonea a provocarne la nullità».
Hanno, però, precisato che le norme che incidono sulla validità del contratto non sono solo quelle che si riferiscono alla struttura o al contenuto del regolamento negoziale ma anche quelle che «in assoluto, oppure in presenza o in difetto di determinate condizioni oggettive o soggettive, direttamente o indirettamente, vietano la stipulazione stessa del contratto: come è il caso dei contratti conclusi in assenza di una particolare autorizzazione al riguardo richiesta dalla legge, o in mancanza dell’iscrizione di uno dei contraenti in albi o registri cui la legge eventualmente condiziona la loro legittimazione a stipulare quel genere di contratto, e simili. Se il legislatore vieta, in determinate circostanze, di stipulare il contratto e, nondimeno, il contratto viene stipulato, è la sua stessa esistenza a porsi in contrasto con la norma imperativa; e non par dubbio che ne discenda la nullità dell’atto per ragioni – se così può dirsi – ancor più radicali di quelle dipendenti dalla contrarietà a norma imperativa del contenuto dell’atto medesimo» (Cass. S.U. 19.12.2007 n. 26724).
L’applicazione alla fattispecie del principio di diritto richiamato induce ad escludere che l’omesso esperimento delle procedure concorsuali o selettive possa solo generare responsabilità contabile a carico dei dirigenti delle società partecipate, posto che l’individuazione del contraente con modalità difformi da quelle prescritte dal legislatore, si risolve nella mancanza in capo a quest’ultimo dei requisiti soggettivi necessari per l’assunzione.
Mutatis mutandis valgono le considerazioni già espresse da questa Corte in merito al rapporto fra procedura concorsuale ex art. 35 del d.lgs n. 165/2001 e contratto di lavoro, in relazione al quale si è osservato che «sussiste un inscindibile legame fra la procedura concorsuale ed il rapporto di lavoro con l’amministrazione pubblica, poiché la prima costituisce l’atto presupposto del contratto individuale, del quale condiziona la validità, posto che sia la assenza sia la illegittimità delle operazioni concorsuali si risolvono nella violazione della norma inderogabile dettata dall’art. 35 del d.lgs n. 165 del 2001, attuativo del principio costituzionale affermato dall’art. 97, comma 4, della Carta fondamentale» (Cass. n. 13884/2016).
2.4. Va, quindi, esclusa la portata innovativa dell’art. 19, comma 4, del d.lgs. n. 175/2016 che, nel prevedere espressamente la nullità dei contratti stipulati in violazione delle procedure di reclutamento, ha solo reso esplicita una conseguenza già desumibile dai principi sopra richiamati in tema di nullità virtuali.
In merito è utile evidenziare che sugli effetti del mancato rispetto degli obblighi imposti dall’art. 18 del d.l. n. 112/2008 la giurisprudenza di merito aveva espresso orientamenti opposti, sicché la nuova normativa assume anche una valenza chiarificatrice della disciplina previgente (sulla possibilità che la norma sopravvenuta, seppure non di interpretazione autentica, possa non essere innovativa cfr. in motivazione Cass. S.U. n.18353/2014 e Cass. n. 20327/2016).
2.5. Una volta affermato che per le società a partecipazione pubblica il previo esperimento delle procedure concorsuali e selettive condiziona la validità del contratto di lavoro, non può che operare il principio richiamato al punto 2 secondo cui anche per i soggetti esclusi dall’ambito di applicazione dell’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001 la regola della concorsualità imposta dal legislatore, nazionale o regionale, impedisce la conversione in rapporto a tempo indeterminato del contratto a termine affetto da nullità.
Diversamente opinando si finirebbe per eludere il divieto posto dalla norma imperativa che, come già evidenziato, tiene conto della particolare natura delle società partecipate e della necessità, avvertita dalla Corte Costituzionale, di non limitare l’attuazione dei precetti dettati dall’art. 97 Cost. ai soli soggetti formalmente pubblici bensì di estenderne l’applicazione anche a quelli che, utilizzando risorse pubbliche, agiscono per il perseguimento di interessi di carattere generale.
2.6. Dette conclusioni non contrastano con quanto affermato da Cass. n. 23202/2013 richiamata dal ricorrente, perché in quel caso veniva in rilievo un contratto a termine stipulato in epoca antecedente all’entrata in vigore del d.l. n. 112/2008 e, quindi, in un contesto normativo che non prevedeva ancora per le società partecipate limiti in tema di reclutamento del personale.
Va, poi, evidenziato che le Sezioni Unite di questa Corte con le sentenze nn. 28330/2011 e 7759/2017, ribadita la inapplicabilità del d.lgs. n. 165/2001, hanno solo escluso la giurisdizione del giudice amministrativo in relazione alle procedure concorsuali e selettive previste dall’art. 18, commi 1 e 2, del d.l. n. 112/2008, ma non hanno pronunciato sulle questioni che qui vengono in rilievo.
2.7. Non si ravvisano il denunciato contrasto con la direttiva 1999/70/CE e la eccepita illegittimità costituzionale della normativa per violazione dell’art. 3 Cost..
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha da tempo chiarito che spetta alle autorità nazionali adottare misure adeguate per far fronte agli abusi nella reiterazione dei contratti a termine e che queste ultime possono essere anche diverse dalla conversione in rapporto a tempo indeterminato, purché rispettino i principi di equivalenza e siano sufficientemente effettive e dissuasive per garantire l’efficacia delle norme adottate in attuazione dell’Accordo quadro recepito dalla direttiva (v. da ult. C. Giust. UE, 12 dicembre 2013, C-50/13, Papalia; Id., 7 settembre 2006, C-53/03, Marrosu e Sardino; Id., 7 settembre 2006, C-180/04, Vassallo; Id., 4 luglio 2006, C-212/04, Adeneler).
A sua volta la Corte Costituzionale, che come si è già detto in più pronunce ha evidenziato la assimilabilità al lavoro pubblico dei rapporti instaurati con le società partecipate, ha escluso che una difformità di trattamento con l’impiego privato, rispetto alla sanzione generale della conversione di cui al d.lgs. n. 368/2001, possa dirsi ingiustificata ove vengano in rilievo gli interessi tutelati dall’art. 97 Cost. ed in particolare le esigenze di imparzialità e di efficienza dell’azione amministrativa ( Corte Cost. nn. 89/2003), esigenze che ad avviso della stessa Corte stanno alla base della disciplina dettata dal richiamato art. 18 del d.l. n. 112/2008 (Corte Cost. n. 68/2011).
3. E’ infondato anche il terzo motivo di ricorso.
L’art. 32 della legge n. 183/2010, oggi abrogato dal d.lgs. n. 81/2015, è applicabile «nei casi di conversione del contratto a tempo determinato» e, quindi, non può essere invocato qualora, come nella fattispecie, si discuta di un rapporto affetto da nullità, non convertibile, che produce unicamente i limitati effetti di cui all’art. 2126 cod. civ..
Va detto poi che nei casi in cui si assuma la illegittimità di unico contratto a termine intercorso fra le parti, non rilevano i principi affermati dalla Corte di Giustizia con l’ordinanza del 12 dicembre 2013 in causa C-50/13, perché la clausola 5 dell’accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70 CE è applicabile nella sola ipotesi di reiterazione abusiva (Corte di Giustizia 23.4.2009 in cause riunite da C-378/07 a C-380/07, punto 90).
Ciò premesso ritiene il Collegio, in continuità con l’orientamento già espresso da questa Corte (cfr. Cass. nn. 4632, 5315, 5319, 5456, 28253 del 2017), che nell’ipotesi di ritenuta illegittimità di un unico contratto non possa neppure trovare applicazione il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 5076/2016, perché l’agevolazione probatoria è stata ritenuta necessaria al solo fine di adeguare la norma interna alla direttiva eurounitaria, nella parte in cui impone l’adozione di misure idonee a sanzionare la illegittima reiterazione del contratto. Invece, ove venga in rilievo un unico rapporto, non vi è ragione alcuna che possa portare a disattendere la regola, immanente nel nostro ordinamento e richiamata anche dalle Sezioni Unite, in forza della quale il danno deve essere allegato e provato dal soggetto che assume di averlo subito.
3.1. Sono invece estensibili anche alla fattispecie, pur nella pacifica inapplicabilità dell’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001, le considerazioni espresse nella richiamata sentenza n. 5076/2016 quanto alla impossibilità di far coincidere il danno con la mancata conversione, posto che il pregiudizio è risarcibile solo se ingiusto e tale non può ritenersi la conseguenza che sia prevista da una norma di legge, non sospettabile di illegittimità costituzionale o di non conformità al diritto dell’Unione.
A detti principi di diritto si è correttamente attenuta la Corte territoriale, che nel respingere la domanda risarcitoria, richiamato il principio affermato da Cass. 15714/2014 sulla inapplicabilità del sistema indennitario onnicomprensivo previsto dalla legge n. 183/2010, ha evidenziato che il danno non può mai essere ritenuto in re ipsa e che nella specie il ricorrente aveva omesso qualsiasi allegazione al riguardo.
4. Il ricorso va, pertanto, rigettato.
La novità e la complessità delle questioni giuridiche affrontate giustificano l’integrale compensazione delle spese del giudizio di legittimità.
Non ricorrono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dalla I. 24.12.2012 n. 228, giacché L.M. risulta essere stato ammesso a patrocinio a spese dell’erario (Cass. nn. 13892 e 25462 del 2016; nn. 14289, 15662, 16524 del 2015).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità.
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