CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 marzo 2019, n. 6678
Licenziamento – Sussistenza di posti disponibili ai fini dell’obbligo di repechage – Impossibilità sopravvenuta della prestazione – Responsabilità
Fatti di causa
1. Con sentenza depositata il 04/05/2017 la Corte d’appello di Bologna, in sede di reclamo ex art. 1, comma 58, della legge n. 92 del 2012, ha parzialmente riformato la sentenza emessa dal Tribunale di Parma in sede di opposizione e – ritenuto formato il giudicato sia in ordine alla violazione dell’art. 7 della legge n. 604 del 1966 sia con riguardo all’eccezione di carente motivazione della lettera di licenziamento sulla sussistenza di posti disponibili ai fini dell’obbligo di repechage – ha dichiarato esente da vizi di natura sostanziale il licenziamento intimato per impossibilità sopravvenuta della prestazione in data 16/12/2013 dalla società S. spa alla signora M.T.
2. La Corte territoriale ha rilevato, quanto ai dedotti profili di nullità del licenziamento in quanto discriminatorio, che non era stato accertata alcuna responsabilità del datore di lavoro in ordine all’insorgenza della patologia sofferta dalla lavoratrice (che, in ogni caso, avrebbe unicamente comportato il diritto al risarcimento del danno subito); ha, inoltre, sottolineato, quanto all’obbligo di repechage, che correttamente il campo di indagine entro cui valutare l’adempimento datoriale era rappresentato esclusivamente dalle due postazioni ritenute, dal consulente tecnico d’ufficio (incaricato in primo grado), compatibili con la ridotta capacità lavorativa della M., in relazione alle quali era stato dimostrato l’assenza di disponibilità (trattandosi di postazioni occupate da dipendenti della società e da lavoratori di impresa appaltatrice).
3. La signora M. ha proposto, avverso tale sentenza, ricorso per cassazione affidato a undici motivi. La società ha depositato controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 cod.proc.civ.
Ragioni della decisione
4. Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione di numerose norme (artt. 2697 cod.civ., 2, 3, 5 della legge n. 604 del 1966, 3, comma 3 bis, del d.lgs. n. 216 del 2003, 15 della legge n. 300 del 1970, 42 del d.lgs. n. 81 del 2008, 416 cod.civ. anche in relazione all’art. 4, parte II, Cap.. 1, del CCNL 21.7.2007 Industria alimentare, ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.) avendo, la Corte distrettuale, trascurato che – nell’esercizio dell’obbligo di repechage – vi erano altre attività affidabili alla lavoratrice, illecitamente appaltate e che la società non aveva correttamente enunciato nella lettera di licenziamento le mansioni a cui adibire la M.
5. Con il secondo, quarto, sesto motivo si deduce nullità della sentenza per violazione dell’art. 132, secondo comma, n. 4 (ex art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.) mancando “fisicamente” ogni motivazione in ordine alle “tematiche, istanze e domande” svolte in primo grado e riproposte in sede di reclamo e concernenti le ulteriori mansioni (oltre a quelle indicate dal consulente tecnico d’ufficio come compatibili con la patologia sofferta dalla M.) a cui adibire la lavoratrice, la possibilità di utilizzare lo ius variandi nei confronti di altre dipendenti ai fini di reperire una postazione di lavoro alla M., l’affidamento di appalti illeciti da parte della società, la responsabilità del datore di lavoro in ordine all’insorgenza della patologia.
6. Con il terzo motivo si denunzia “violazione del principio di diritto per cui il debitore non può far valere a proprio vantaggio l’inadempimento a lui imputabile”, nonché degli artt. 27, comma 1, 29, comma 3 bis del d.lgs. n. 276 del 2003, 3, comma 3 bis, del d.lgs. n. 216 del 2003, 42 del d.lgs. n. 81 del 2008, 4 della parte III, cap. 1, CCNL 21.7.2007 Industria alimentare (ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.) avendo, la Corte distrettuale, trascurato che il datore di lavoro che abbia dato luogo ad un appalto non genuino (o non consentitogli dal CCNL che deve applicare) o ad una somministrazione illecita, non può eccepire che, per tal modo, ha occupato dei posti di lavoro che vengono così sottratti ad ogni possibile repechage (anche nei confronti del personale che abbia un handicap o sia invalido).
7. Con il quinto motivo si deduce vizio di motivazione (ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.) avendo, la Corte distrettuale, trascurato “tutti i fatti rilevati dalla sig.ra M.”, in particolare la mancata dimostrazione di quale fosse l’organico concernente una delle postazioni individuate dal consulente tecnico d’ufficio (“addetta al trito della carne”) e degli impedimenti ad adottare accomodamenti ragionevoli (ex art. 3, comma 3 bis, del d.lgs. n. 216 del 2003) al fine di redistribuire le mansioni degli altri dipendenti e modificarne l’orario di lavoro.
8. Con il settimo motivo si denunzia violazione degli artt. 3 della legge n. 604 del 1966 e 3 del d.lgs. n. 216 del 2003 (ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.) avendo trascurato, la Corte distrettuale, di valutare gli accomodamenti ragionevoli che il datore di lavoro doveva adottare per il reimpiego della M.
9. Con l’ottavo, il nono, il decimo e l’undicesimo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 cod.civ. e nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 cod.proc.civ. (ex art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, cod. proc. civ.) avendo errato, la Corte distrettuale, nel ritenere formato un giudicato con riguardo alla carenza di motivazione della lettera di licenziamento in ordine ai posti disponibili da offrire alla lavoratrice e trascurato tutte le censure avanzate dalla M., a fronte dell’obbligo del datore di lavoro di esplicitare nella lettera di licenziamento tutte le postazioni non proponibili alla lavoratrice da licenziare.
10. Tutti i motivi – di non agevole comprensibilità, per il profuso affastellamento di argomentazioni in diritto e in fatto nonché delle conclusioni a cui sarebbe dovuta giungere la Corte distrettuale in caso di accoglimento delle “tematiche, istanze, domande” esposte nella memoria di appello e nel reclamo incidentale – sono infondati.
Va, preliminarmente, rilevato il profilo di inammissibilità del primo e del terzo motivo di ricorso per difetto di autosufficienza, ossia per omessa riproduzione delle clausole del contratto collettivo di cui si invoca la violazione.
11. Le censure attinenti alla violazione dell’obbligo di repechage (da individuarsi nel primo, secondo, terzo, quarto e sesto motivo) sono infondate.
11.1. In ordine all’invocata violazione dell’art. 132, secondo comma, n. 4, cod.proc.civ. (secondo, quarto e sesto motivo del ricorso), l’obbligo di motivazione del provvedimento giudiziario è violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione (per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perché perplessa ed obiettivamente incomprensibile) e, in tal caso, si concreta una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod.proc.civ. (cfr. da ultimo Cass., ord., n. 22598 del 2018).
Nella specie, la Corte distrettuale ha motivato, in ordine all’obbligo di repechage a carico del datore di lavoro che ha proceduto ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, rilevando che: l’indagine delle mansioni a cui adibire la lavoratrice andava circoscritta all’ambito delineato dalla relazione peritale svolta nella fase di opposizione avanti al Tribunale, “essendo irrilevanti le ulteriori posizioni allegate dalla lavoratrice fin dal ricorso della fase sommaria (capp.. dal n. 26 al 29); invero, alla luce della consulenza tecnica d’ufficio disposta in primo grado, residuavano, nell’ambito delle mansioni astrattamente assegnabili alla lavoratrice (con riguardo alla qualifica rivestita e al bagaglio professionale vantato), solamente due postazioni perché le uniche compatibili con il “ridotto stato di salute” della lavoratrice stessa;
che queste due postazioni (addetta alla campionatura della carne per la ricerca della trichina e per la preparazione dei campioni in laboratorio nonché addetta al “trito” al termine della catena di taglio delle mezzene, ma quest’ultima mansione solamente se svolta part time) erano, al tempo del licenziamento, occupate da altre lavoratrici (dipendenti della stessa società S. o di una società appaltatrice), così come dedotto dalla stessa M. nel ricorso introduttivo del giudizio; che anche se si fosse accertata l’eventuale illegittimità dell’appalto, una pronuncia in tal senso non avrebbe reso libero il posto di lavoro preteso, spettando pur sempre tale posto “alla lavoratrice impiegata in violazione della normativa sull’appalto e/o sulla somministrazione”.
Tale motivazione non può ritenersi meramente apparente, perché è del tutto idonea a consentire l’individuazione delle ragioni che hanno condotto la Corte distrettuale a dichiarare adempiuto l’obbligo di repechage da parte del datore di lavoro. I motivi che rilevano, dunque, la nullità della sentenza impugnata per motivazione “fisicamente” assente sono infondati.
11.2. Va, inoltre, rammentato che secondo orientamento consolidato di questa Corte, la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo presuppone, da un lato, l’esigenza di soppressione di un posto di lavoro, dall’altro, la impossibilità di diversa collocazione del lavoratore licenziato (repechage), consideratane la professionalità raggiunta, in altra posizione lavorativa analoga a quella soppressa (cfr. ex plurimis, Cass. n. 4460 del 2015, Cass. n. 5592 del 2016, Cass. n. 12101 del 2016, Cass. n. 24882 del 2017, Cass. n. 27792 del 2017). Con riferimento all’obbligo di repechage si è ritenuto, in particolare, che, trattandosi di prova negativa, il datore di lavoro abbia sostanzialmente l’onere di fornire la prova di fatti e circostanze esistenti di tipo indiziario o presuntivo idonei a persuadere il giudice della veridicità di quanto allegato circa l’impossibilità di una collocazione alternativa del lavoratore nel contesto aziendale.
In sostanza, sul datore di lavoro incombe l’onere di allegare e dimostrare il fatto che rende legittimo l’esercizio del potere di recesso, ossia l’effettiva sussistenza di una ragione inerente l’attività produttiva, l’organizzazione o il funzionamento dell’azienda nonché l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte (cfr. Cass. n. 5592 del 2016, Cass. n. 12101 del 2016, Cass. n. 20436 del 2016, Cass. n. 160 del 2017, Cass. n. 9869 del 2017, Cass. n. 24882 del 2017, Cass. n. 27792 del 2017).
Nel caso di specie, la Corte distrettuale ha esaustivamente accertato – anche avvalendosi di un mezzo di indagine per la valutazione degli elementi acquisiti e per la soluzione di questioni che necessitavano di specifiche conoscenze, quali quelle di natura medica – l’assolvimento dell’onere della prova a carico del datore di lavoro in ordine alla impossibilità di impiegare in altre collocazioni la lavoratrice.
La Corte distrettuale, affidandosi ad un consulente tecnico d’ufficio (in possesso delle competenze mediche necessarie per valutare – oggettivamente – la residua idoneità fisica della lavoratrice) si è adeguata al principio di diritto affermato da questa Corte, secondo cui, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, grava sul datore di lavoro l’obbligo di provare – in base a circostanze oggettivamente riscontrabili – che il lavoratore non abbia la capacità professionale richiesta per occupare la diversa posizione libera in azienda, altrimenti il rispetto dell’obbligo di “repechage” risulterebbe sostanzialmente affidato ad una mera valutazione discrezionale dell’imprenditore (cfr. Cass. 23340 del 2018).
11.3. D’altra parte, va rimarcato che in tema di ricorso per cessazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (ex aliis: Cass. 16 luglio 2010 n. 16698; Cass. 26 marzo 2010 n. 7394).
Nella specie è evidente che il ricorrente lamenta la erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta, e dunque, in realtà, non denuncia un’erronea ricognizione della fattispecie astratta recata dalla norma di legge (ossia un problema interpretativo, vizio riconducibile all’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.) bensì un vizio-motivo, da valutare alla stregua del novellato art. 360, primo comma n. 5 cod.proc.civ., che – nella versione ratione temporis applicabile – lo circoscrive all’omesso esame di un fatto storico decisivo (cfr. sul punto Cass. Sez. U. n. 19881 del 2014), riducendo al “minimo costituzionale” il sindacato di legittimità sulla motivazione (Cass. Sez. U. n. 8053 del 2014).
Come già evidenziato, nessuno di tali vizi ricorre nel caso in esame e la motivazione non è assente o meramente apparente, né gli argomenti addotti a giustificazione dell’apprezzamento fattuale risultano manifestamente illogici o contraddittori.
11.4. La Corte distrettuale si è, inoltre, uniformata al principio di diritto affermato da questa Corte, che si intende ribadire, secondo il quale, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, determinato da ragioni tecniche, produttive e organizzative, l’ambito del sindacato giurisdizionale, con riferimento all’obbligo del “repechage”, non può estendersi alla valutazione delle scelte gestionali ed organizzative dell’impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost.; ne consegue che il detto obbligo non può ritenersi violato quando l’ipotetica possibilità di ricollocazione del lavoratore nella compagine aziendale non è compatibile con il concreto assetto organizzativo stabilito dalla parte datoriale (cfr. Cass. n. 21715 del 2018).
Risulta, pertanto, infondata l’argomentazione del ricorrente tesa ad imporre al datore di lavoro la modifica del proprio assetto organizzativo (con riguardo all’assegnazione degli altri dipendenti in altre mansioni e alla modifica del loro orario di lavoro) ai fini del reperimento di una postazione per la M.
12. In ordine alla questione dell’obbligo di adozione di “accomodamenti ragionevoli” di cui all’art. 3, comma 3 bis, del d.lgs. n. 216 del 2003 (le cui censure possono individuarsi nel terzo e nel settimo motivo), va rilevato che non vi è nessuna traccia nella sentenza impugnata di tale questione, né la ricorrente indica in alcun modo se, con quale atto e in che termini la questione stessa sia stata proposta nel ricorso introduttivo del giudizio e, eventualmente, riproposta in grado di appello.
In tema questa Corte ha ripetutamente affermato che “nel giudizio di cassazione è preclusa alle parti la prospettazione di nuove questioni di diritto o nuovi temi di contestazione che postulino indagini ed accertamenti di fatto non compiuti dal giudice di merito, a meno che tali questioni o temi non abbiano formato oggetto di gravame o di tempestiva e rituale contestazione nel giudizio di appello” (v. Cass. n. 9812 del 2002, Cass. n. 13819 del 1999).
Nel contempo è stato anche precisato che “nel caso in cui una determinata questione giuridica, che implichi un accertamento di fatto, non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, alfine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, indicando altresì in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, così da permettere alla Corte di Cassazione di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa” (v. Cass. 27-8-2013 n. 12571; Cass. 22-1-2013, n. 1435; Cass. 28-7-2008, n. 20518; Cass. 15-2-2003 n. 2331, Cass. 10-7- 2001 n. 9336).
Peraltro per superare la presunzione di rinuncia e, quindi, la decadenza ex art. 346 cod.proc.civ., è necessario che “la parte vittoriosa in primo grado, che abbia però visto respingere taluna delle sue tesi od eccezioni, ovvero taluni dei suoi sistemi difensivi” manifesti “in maniera esplicita e precisa la propria volontà di riproporre la domanda o le eccezioni respinte” (v. fra le altre Cass. 17-12-1999 n. 14267, Cass. sez. 1 20-7-2004 n. 13401).
Nel caso di specie, in violazione del principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione (artt. 366, comma 1, n. 6, e 369, comma 2, n. 4 cod.proc.civ.), non è stato trascritto alcuno stralcio relativo al ricorso introduttivo del giudizio che ponesse la questione della violazione dell’art. 3, comma 3 bis, del d.lgs. n. 216 del 2003 né la riproposizione della questione (ex art. 346 cod.proc.civ.) emerge chiaramente dagli ampi e prolissi stralci della memoria di appello.
Inoltre, va in ogni caso ribadito il principio di diritto affermato da questa Corte secondo cui, in tema di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante da una condizione di “handicap”, sussiste l’obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi nei luoghi di lavoro – purché comportanti un onere finanziario proporzionato alle dimensioni e alle caratteristiche dell’impresa e nel rispetto delle condizioni di lavoro dei colleghi dell’invalido – ai fini della legittimità del recesso, in applicazione dell’art. 3, comma 3 bis, del d.lgs. n. 216 del 2003, di recepimento dell’art. 5 della Direttiva 2000/78/CE, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata e conforme agli obiettivi posti dal predetto art. 5 (cfr. Cass. n. 27243 del 2018).
In particolare, è stato affermato che deve, escludersi che le suddette misure organizzative possano incidere negativamente sulle mansioni e sulle altre condizioni di lavoro degli altri lavoratori (ad esempio, ambiente e luogo di lavoro, orario e tempi di lavoro). Invero, la necessità di bilanciare la tutela degli interessi, costituzionalmente rilevanti (artt. 4, 32, 36 Cost.) del prestatore con la libertà di iniziativa economica dell’imprenditore (garantita dall’art. 41 Cost. e definita come diritto fondamentale dagli artt. 15 e 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, la “Carta di Nizza”), comporta che l’assegnazione del lavoratore, divenuto fisicamente inidoneo all’attuale attività, ad attività diverse e riconducibili alla stessa mansione, o ad altra mansione equivalente, o anche a mansione inferiore, può essere rifiutata legittimamente dall’imprenditore se comporti (non meri aggravi organizzativi, come statuito da Cass.S.U. n. 7755 del 1998, bensì) oneri organizzativi eccessivi (da valutarsi in relazione alle peculiarità dell’azienda ed alle relative risorse finanziarie) e, in particolare, se derivi, a carico di singoli colleghi dell’invalido, la privazione o l’apprezzabile modificazione delle modalità di svolgimento della loro prestazione lavorativa che comportino l’alterazione della predisposta organizzazione aziendale.
Risultano, pertanto, infondate altresì le argomentazioni (da individuarsi, per la parte intellegibile del ricorso, nel primo, secondo, terzo, quarto e sesto motivo) che invocano la rimozione, da parte del datore di lavoro, di appalti affidati dalla società Sassi ad altre imprese, argomentazioni in ogni caso irrilevanti – come correttamente sottolineato dalla Corte distrettuale -ai fini del recupero di postazioni libere da offrire al lavoratore posto che l’eventuale illegittimità di tali appalti comporterebbe il riconoscimento del diritto della lavoratrice adibita al suddetto appalto all’assunzione presso la società committente, con le mansioni precedentemente disimpegnate.
13. In ordine ai lamentati errori e alle lacune della consulenza tecnica d’ufficio (argomento da individuarsi, per la parte intellegibile del ricorso, nel quinto, sesto e settimo motivo), sono suscettibili di esame in sede di legittimità unicamente sotto il profilo del vizio di motivazione della sentenza, quando siano riscontrabili carenze o deficienze diagnostiche o affermazioni scientificamente errate e non già quando si prospettino semplici difformità tra la valutazione del consulente circa l’entità e l’incidenza del dato patologico e la valutazione della parte (Cass. nn. 3307/2012, 22707/2010, 569/2011).
Costituisce orientamento costante della Cassazione quello secondo il quale nel giudizio in materia d’invalidità, il vizio – denunciarle in sede di legittimità – della sentenza che abbia prestato adesione alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, è ravvisabile in caso di palese devianza dalle nozioni correnti della scienza medica, la cui fonte va indicata, o nell’omissione degli accertamenti strumentali dai quali, secondo le predette nozioni, non può prescindersi per la formulazione di una corretta diagnosi, mentre al di fuori di tale ambito la censura costituisce mero dissenso diagnostico che si traduce in un’inammissibile critica del convincimento del giudice (Cfr. per tutte Cass. nn. 23990/2014, 1652/2012).
Nel quadro del suddetto enunciato si è, altresì, precisato che le conclusioni della consulenza tecnica d’ufficio disposta dal giudice non possono utilmente essere contestate in sede di ricorso per cassazione mediante la pura e semplice contrapposizione ad esse di diverse valutazioni perché tali contestazioni si rivelano dirette non già ad un riscontro della correttezza del giudizio formulato dal giudice di appello bensì ad una diversa valutazione delle risultanze processuali; e tale profilo non rappresenta un elemento riconducibile al procedimento logico seguito dal giudice bensì costituisce semplicemente una richiesta di riesame del merito della controversia, inammissibile in sede di legittimità (Cfr. ex plurimis, Cass. nn. 14374/2008, 7341/2004 e 15796/2004).
Nel caso di specie la ricorrente, riproducendo ampiamente stralci della “memoria 29.7.16”, contrappone una diversa valutazione medica delle patologie sofferte dalla M., invocando essenzialmente un riesame del merito della controversia, inammissibile in sede di legittimità.
14. Infine, in ordine ai vizi formali della lettera di licenziamento e alla carenza di motivazione in relazione all’obbligo di reperire posti disponibili in azienda compatibili con l’idoneità fisica residua della lavoratrice, (da individuarsi, per la parte intellegibile del ricorso, nel primo, ottavo, nono, decimo e undicesimo motivo) la Corte distrettuale ha rilevato che “si è formato giudicato sull’eccezione di carente motivazione del licenziamento, che non è stata presa in esame dal giudice a quo in quanto assorbita e che non è stata riproposta in questa sede da M.T. (se non si è inteso male, vista la corposa ed articolata memoria di costituzione con reclamo incidentale)”.
Questa Corte ha affermato il principio di diritto, che in questa sede il Collegio intende ribadire, in base al quale il datore di lavoro ha l’obbligo di comunicare per iscritto i motivi del recesso, ma non è tenuto ad esporre specificamente tutti gli elementi di fatto e di diritto a base del provvedimento, essendo invece sufficiente che indichi la fattispecie di recesso nei suoi tratti e circostanze essenziali, così che in sede di impugnazione non possa invocare una fattispecie totalmente diversa (v. tra le altre, Cass. n. 3752 del 1985), e, a fortiori, non è certamente tenuto a fornire, in sede di esposizione dei motivi, anche la prova degli indicati motivi.
In particolare, ove la società abbia chiaramente indicato come motivo di recesso la sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore, non è tenuta ad indicare che tale inidoneità risultava da un certificato medico, né, tantomeno, ad allegare tale certificato o a riportarne il contenuto nella lettera di licenziamento, gravando su di essa l’onere probatorio di “giustificare” il motivo addotto solo nell’eventuale giudizio promosso dal lavoratore per impugnare il licenziamento (cfr. Cass. n. 3245 del 2003).
E’ stato altresì affermato che non è necessaria l’indicazione della inutilizzabilità aliunde nella motivazione del licenziamento per soppressione del posto, trattandosi di elemento implicito da provare direttamente in giudizio (cfr. Cass. n. 3752 del 1985).
Il suddetto principio può senz’altro confermarsi anche a seguito delle modifiche medio tempore intervenute dell’art. 2 della legge n. 604 del 1966 (novellato dall’art. 1, comma 37 della legge n. 92 del 2012 che impone la specificazione dei motivi contestuale al licenziamento scritto) posto che la ratio della previsione legislativa sull’onere della forma era ed è sempre quella che la motivazione del licenziamento sia specifica ed essenziale e consenta al lavoratore di comprendere le effettive ragioni del recesso (che, con riguardo al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, si sostanziano nella ragione inerente l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa, come richiesto dall’art. 3 della legge n. 604 del 1966), discendendo dai principi di immutabilità della motivazione e dall’orientamento consolidato di questa Corte in ordine alla delineazione dell’obbligo di repechage quale elemento costitutivo del licenziamento (cfr. Cass. n. 10435 del 2018) l’obbligo del datore di lavoro di dimostrare in giudizio l’impossibilità di adibire il lavoratore in altre mansioni. Invero, la novella legislativa si è limitata a rimuovere l’anomalia della possibilità di intimare un licenziamento scritto immotivato (e motivabile solo su richiesta) introducendo la contestualità dei motivi, lasciando immutata la funzione della motivazione (già perseguita dal legislatore precedente la novella legislativa del 2012 e sottolineata da questa Corte) che è quella di far comprendere al lavoratore le effettive ragioni del recesso.
15. In conclusione, il ricorso va rigettato e le spese del presente giudizio di legittimità sono regolate secondo il principio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.
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